Roma, 25 nov (Velino) - E’, senza dubbio, un interrogativo molto poco politically correct, specialmente in una fase in cui la valorizzazione della moneta unica europea si sta rafforzando, non indebolendo, sui mercati internazionali. Ma che viene inevitabilmente in mente a chi, come me, ha visto la fine dell’area della sterlina, delle unioni monetarie della Comunità franco-africana, dell’Africa occidentale, dell’Africa centrale, dell’Africa orientale, della Federazione della Malesia (al decesso della quale la Repubblica di Singapore incluse, nella propria Carta Costituzionale, il divieto d’istituire una banca centrale) e di un’altra mezza dozzina di unioni grandi e piccole e relative “monete uniche”.
La domanda non può non venire alla mente guardando gli ultimi preconsutivi della finanza pubblica dei principali Paesi che fanno parte dell’area dell’euro: rispetto ai parametri del “patto di stabilità” (un indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni non superiore al 3% del Pil ed uno stock di debito tendente a non superare il 60% del Pil), l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazione sfiora il 15% in Irlanda, il 12% in Grecia, il 10% in Spagna, l’8% in Francia , il Portogallo al 7% e Italia e Germania attorno al 5% ed il rapporto tra stock di debito e pil è in Grecia 135%, in Italia 118%, il Irlanda 96%, in Portogallo 91%, Francia 88%, in Germania 80% ed in Spagna 74%. In gran misura a ragione degli interventi di salvataggio a favore del settore finanziario (ed in certi casi pure dal manifatturiero), la media ponderata dello stock di debito pubblico dei Paesi dell’area dell’euro in rapporto al pil è l’88% , ossia sfiora il 90%. Quindi delle due l’una: o i parametri ed i vincoli del trattato di Maastricht, prima, e del patto di stabilità, poi, sono “stupidi” come li qualificato Romani Prodi (quando era il Presidente dalla Commissione Europea) oppure l’euro , nonostante sia “forte”, è in serie difficoltà. In effetti, i piani di rientro in questi giorni all’esame del Consiglio dei Ministri degli Stati dell’area dell’euro non postulano tempi brevi per rientrare nei “tetti” del Trattato e del patto.
A questi dati si aggiunge un’analisi molto raffinata del Levy Economic Institute del Bard College; nel Public Policy Brief n. 106 in uscita in questi giorni a firma di Stephanie A. Kelton e L. Randall Wray. Lo studio – sintetico ma eloquente e corredato di dati e grafici - pone l’interrogativo Can Euroland Survive? da un altro punto di vista. Non esamina gli effetti della crisi economica e finanziaria dal punto di vista della risposta della politica di bilancio (in seguito agli interventi per impedire fallimenti e il crollo della domanda aggregata) ma sotto quella della crescente spread dei tassi d’interesse a lungo termine e dei credit default swaps tra Paesi dell’area dell’euro più o meno virtuosi. Tale spread è cresciuta notevolmente e sta provocando tensioni che rischiano di lacerare l’unione monetaria. Stepahnie A. Kelton e L. Randall Wray offrono una ricetta tanto europeista che non la si aspetterebbe dagli Usa : non ci si deve affidare unicamente o principalmente alla disciplina posta dai mercati internazionali (ossia allo spread) ma allo politica con la “P” maiuscola creando un vero e proprio bilancio federale (con risorse molto maggiori di quelle di cui dispongono la Commissione Europea e la Banca centrale europea) ed una “nuova istituzione finanziaria” con lo scopo di aiutare i Paesi dell’area dell’euro in difficoltà un’ampia serie di obiettivi di politica economica durante le fasi di contrazione.
Delle due proposte , la seconda può essere attuata facilmente ampliando la sfera d’attività della Banca europea per gli investimenti – già negli Anni 80 la Banca mondiale ha effettuato il passaggio da prestiti per singoli progetti o programmi al policy based lending. Molto più complesso il trasferimento di risorse dai singoli Stati dell’area dell’euro ad istituzioni “federali”, anche in quanto il “federalismo” è proprio ciò che il Trattato di Lisbona, che entra in vigore il primo dicembre, ha tenuto alla larga per avere il consenso dei 27 Stati dell’Ue
(Giuseppe Pennisi) 25 nov 2009 11:53
mercoledì 25 novembre 2009
ANCHE IL LAVORO VA ADATTATO ALLA SOCIETA’ CHE INVECCHIA, Avvenire 25 novembre
ANCHE IL LAVORO VA ADATTATO ALLA SOCIETA’ CHE INVECCHIA
Giuseppe Pennisi
Dal “Rapporto Nazionale 2009 sulle condizioni ed il pensiero degli anziani: una società diversa”, presentato in questi giorni, si evince che già il 20% degli italiani ha più di 65 anni ( nel Nord Est si sfiora il 30%), il 60% degli ultra-65enni sono donne e un terzo dei lavoratori attivi è nella “la terza età”. “Il welfare – conclude il documento- necessita di urgenti interventi per adeguarsi ai bisogni di queste nuove generazioni di anziani” in una società in cui nel 2050 l’aspettativa di vita raggiungerà 86.6 anni per gli uomini e 88.8 per le donne.
A mio avviso, gli interventi più importanti riguardano l’adattamento del mercato del lavoro ad un processo di pensionamento graduale, alcuni meccanismi previdenziali specifici ed il sistema sanitario. Tali interventi potranno essere compiuti dopo il superamento della crisi economica in corso ma occorre cominciare a rifletterne da ora.
In materia di mercato del lavoro, la priorità è facilitare l’occupazione degli anziani che possono e vogliono restare attivi. Ciò è stato fatto negli Usa con una sentenza della Corte Suprema che ha giudicato discriminatori, e incostituzionali, i “limiti di età” . Ciò implica ripensare norme recenti che, con l’obiettivo di svecchiare la dirigenza pubblica, hanno reso più stringenti tali “limiti”. Lo scopo di avere una dirigenza giovane pur mantenere gli anziani al lavoro (se possono e vogliono farlo), si raggiunge ponendo alle posizioni dirigenziali “tetti di età” anche inferiori alle attuali (in multinazionali ed organizzazioni Onu sono a 57 anni) ma facendo sì che i dirigenti siano affiancati da anziani in posizione di staff, della cui esperienza possano avvalersi. Ciò facilita anche posporre l’età effettiva di pensionamento. In Italia, è di queste settimane l’accordo secondo cui gli avvocati non potranno fruire di pensioni di vecchiaia prima dei 70 anni di età e di 35 anni di contributi. Pur se il meccanismo “contributivo” per il computo dei trattamenti previdenziali induce a ritardare l’età della pensione, è auspicabile che misure come questa vengano generalizzate al fine di evitare lo scenario di un’Italia il cui 30-40% della popolazione sarà composta da anziani indigenti.
La revisione di alcune norme lavoristiche e previdenziali deve essere accompagnata da misure specifiche attinenti all’indicizzazione dei trattamenti. Quando il meccanismo “contributivo” sarà in vigore, il rapporto tra ultimo stipendio e primo assegno pensionistico sarà attorno al 50%. Ciò può essere considerato adeguato dato che molti pensionati disporranno di capitali accumulati in vita attiva: smentendo il teorema per il quale Franco Modigliani ebbe il Premio Nobel, un’analisi dell’Università di Chicago avverte nazi che nell’America in cui il saggio di risparmio di individui e famiglie è rasoterra, solo gli anziani hanno tassi positivi di risparmio, sia per il desiderio di lasciare un’eredità a figli ( il 25% degli anziani risparmia a questo scopo) sia per la preoccupazione di spese elevate quando non saranno autosufficienti. Negli Usa chi nel 2009 va in pensione a 65 deve accantonare, a seconda del reddito e del genere, tra i 135.000 ed i 400.000 dollari per premi assicurativi sanitari e spese sanitarie non assicurabili. Ciò implica : un maggiore tasso d’indicizzazioni delle pensioni a partire dai 75 anni ed una politica mirata al miglioramento dei servizi sanitari per gli anziani.
Giuseppe Pennisi
Dal “Rapporto Nazionale 2009 sulle condizioni ed il pensiero degli anziani: una società diversa”, presentato in questi giorni, si evince che già il 20% degli italiani ha più di 65 anni ( nel Nord Est si sfiora il 30%), il 60% degli ultra-65enni sono donne e un terzo dei lavoratori attivi è nella “la terza età”. “Il welfare – conclude il documento- necessita di urgenti interventi per adeguarsi ai bisogni di queste nuove generazioni di anziani” in una società in cui nel 2050 l’aspettativa di vita raggiungerà 86.6 anni per gli uomini e 88.8 per le donne.
A mio avviso, gli interventi più importanti riguardano l’adattamento del mercato del lavoro ad un processo di pensionamento graduale, alcuni meccanismi previdenziali specifici ed il sistema sanitario. Tali interventi potranno essere compiuti dopo il superamento della crisi economica in corso ma occorre cominciare a rifletterne da ora.
In materia di mercato del lavoro, la priorità è facilitare l’occupazione degli anziani che possono e vogliono restare attivi. Ciò è stato fatto negli Usa con una sentenza della Corte Suprema che ha giudicato discriminatori, e incostituzionali, i “limiti di età” . Ciò implica ripensare norme recenti che, con l’obiettivo di svecchiare la dirigenza pubblica, hanno reso più stringenti tali “limiti”. Lo scopo di avere una dirigenza giovane pur mantenere gli anziani al lavoro (se possono e vogliono farlo), si raggiunge ponendo alle posizioni dirigenziali “tetti di età” anche inferiori alle attuali (in multinazionali ed organizzazioni Onu sono a 57 anni) ma facendo sì che i dirigenti siano affiancati da anziani in posizione di staff, della cui esperienza possano avvalersi. Ciò facilita anche posporre l’età effettiva di pensionamento. In Italia, è di queste settimane l’accordo secondo cui gli avvocati non potranno fruire di pensioni di vecchiaia prima dei 70 anni di età e di 35 anni di contributi. Pur se il meccanismo “contributivo” per il computo dei trattamenti previdenziali induce a ritardare l’età della pensione, è auspicabile che misure come questa vengano generalizzate al fine di evitare lo scenario di un’Italia il cui 30-40% della popolazione sarà composta da anziani indigenti.
La revisione di alcune norme lavoristiche e previdenziali deve essere accompagnata da misure specifiche attinenti all’indicizzazione dei trattamenti. Quando il meccanismo “contributivo” sarà in vigore, il rapporto tra ultimo stipendio e primo assegno pensionistico sarà attorno al 50%. Ciò può essere considerato adeguato dato che molti pensionati disporranno di capitali accumulati in vita attiva: smentendo il teorema per il quale Franco Modigliani ebbe il Premio Nobel, un’analisi dell’Università di Chicago avverte nazi che nell’America in cui il saggio di risparmio di individui e famiglie è rasoterra, solo gli anziani hanno tassi positivi di risparmio, sia per il desiderio di lasciare un’eredità a figli ( il 25% degli anziani risparmia a questo scopo) sia per la preoccupazione di spese elevate quando non saranno autosufficienti. Negli Usa chi nel 2009 va in pensione a 65 deve accantonare, a seconda del reddito e del genere, tra i 135.000 ed i 400.000 dollari per premi assicurativi sanitari e spese sanitarie non assicurabili. Ciò implica : un maggiore tasso d’indicizzazioni delle pensioni a partire dai 75 anni ed una politica mirata al miglioramento dei servizi sanitari per gli anziani.
CHI HA PAURA DEI FONDI SOVRANI? L'Occidentale del 25 novembre
CHI HA PAURA DEI FONDI SOVRANI?
Giuseppe Pennisi
La sinistra un tempo intonava “l’internazionale”. Ora a giudicare dei commenti dui alcuni giornali alle recenti visite di Berlusconi nella Penisola Arabica e di Tremonti in Cina, pare che abbia riscoperto la “Marcia Reale” dei tempi delle nostre prime avventure africane e le intermezzi con gli anni della compagna d’Abissinia (allora si chiamava così quella che oggi ha il nome di Etiopia). In breve, nonostante le statistiche della Banca mondiale e dell’Unctad (l’agenzia Onu preposta all’uopo) classifichino l’Italia tra i Paesi dove meno affluiscono investimenti diretti dall’estero, commentatori anche paludati hanno espresso riserve nei confronti di contatti presi affinché i “Fondi sovrani” dei Paesi visitati guardino alle opportunità presenti a casa nostra. C’è chi ha parlato di “svendita” di impianti, fabbriche ed imprese a interessi stranieri e, quindi, di perdita di sovranità.
Facciamo il punto, sine ira ni studio, i “fondi sovrani” – creati da Paesi con forti attivi delle bilance dei pagamenti e ragguardevoli riserve – hanno una cospicua aapacità finanziaria (stimata in almeno 4000 miliardi di dollari) . I fondi di Paesi petroliferi o di Paesi emergenti in particolare (non il Norway Global Pension Fund, ben 360 miliardi di dollari, che ha finalità previdenziali specifiche ed investe con grande maestria specialmente in fondi pensione di tutto il mondo) hanno concluso una serie di accordi tra di loro per avere maggiori competenze tecnico-finanziarie (lo ha ammesso il Presidente del Fondo Kazaco Samruk-Kazyna) e avere, quindi, maggiori capacità di analisi e di scelta d’investimenti in un’ottica di medio e lungo periodo, non legati ai risultati trimestrali. Il Fondo di Abu Dhabi, ad esempio, ha concluso un’intesa di questa natura con quello della Malesia ed un’altra con il piccolo fondo sovrano francese per alta tecnologia; l’India e l’Oman hanno dato vita ad un fondo sovrano congiunto; i fondi sovrani di Corea e Malesia hanno stretto un accordo con il fondo australiano d’investimenti QIC; i fondi di Cina, Singapore e Kuwait hanno operato d’intesa per supportare Backrock nell’acquisizione di Barclays Global Investiment. Da circa un anno, poi, si stanno orientando sempre più verso il manifatturiero in via di riassetto. In Italia, sono noti i rapporti, ormai di alcuni decenni, tra la FIAT e la Libia (prima direttamente con il Governo, poi con il fondo sovrano creato a Tripoli). E’ meno noto il ruolo che il fondo sovrano di Abu Dhabi prima e quello del Quadar poi hanno nella riorganizzazione dell’industria metalmeccanica tedesca. Il fondo di Abu Dhabi , con il 9,1% del capitale, è diventato l’azionista di riferimento della Daimler; al termine della fusione tra la Volkswagen e la Porche, il fondo del Qatar deterrà tra il 17% ed il 20% della nuova struttura aziendale. Il fondo del Qatar– ha una vasta gamma d’investimenti in Francia: da Suez Environment al principale concorso ippico (le Prix de l’Arc de Triomphe), dai grandi alberghi all’alta tecnologia (nonché ad una fetta importante di Bot francesi sul mercato).
Oggi “i fondi sovrani” assomigliano sempre più al “private equity” , essiccatosi all’inizio della crisi finanziaria che agli “hedge fund”. E’ aumentata la trasparenza , e soprattutto gli investimenti tendono a guardare sempre più al medio (ed anche lungo periodo) , piuttosto che ad indicatori finanziari a breve termine. Possono dare un contributo significativo alla ripresa, specialmente in Europa e soprattutto se scommettono su settori e comparti che necessitano liquidità per attuare programmi di riassetto strutturale (la metalmeccanica e l’edilizia sono i primi a venire in mente).I timori che i fondi sovrani vengano gestiti con finalità politiche clientelari sono, in gran misura, non fondati. Lo afferma in modo persuasivo Sven Behrendt in un lavoro appena pubblicato nel “Policy Outlook” del Carnegie Middle East Center a Beirut. Richard Epstein dell’Università di Chicago e Amada Rose della Vanderbilt argomentano che aggravare i fondi sovrani con regolamentazione eccessiva può solamente causare danni ai Paesi che la mettono in atto: inducono i fondi ad investire altrove, con una perdita secca di opportunità. Lo ribadisce un lavoro del Fondo monetario in corso di pubblicazione – ne sono autori Tao Sun e Heiko Hesse- in cui si esaminano investimenti e disinvestmenti da parte di “fondi sovrani” nel periodo 1990-2009: 166 “eventi” di cui si conoscono le caratteristiche . Sun e Hesse focalizzano su un aspetto l’impatto a breve termine delle operazioni dei fondi (acquisti e vendite di partecipazioni) in vari tipi di mercati finanziari (maturi ed emergenti) sia nel settore manifatturiero sia in quello finanziario al fine di valutare se hanno effetti “destabilizzanti” o se abbiamo turbato la “governance” di banche ed imprese. La conclusione che effetti di tale natura non ci sono stati ma che al contrario hanno spesso irrobustito con linfa nuova le banche e le imprese in cui hanno investito.
Giuseppe Pennisi
La sinistra un tempo intonava “l’internazionale”. Ora a giudicare dei commenti dui alcuni giornali alle recenti visite di Berlusconi nella Penisola Arabica e di Tremonti in Cina, pare che abbia riscoperto la “Marcia Reale” dei tempi delle nostre prime avventure africane e le intermezzi con gli anni della compagna d’Abissinia (allora si chiamava così quella che oggi ha il nome di Etiopia). In breve, nonostante le statistiche della Banca mondiale e dell’Unctad (l’agenzia Onu preposta all’uopo) classifichino l’Italia tra i Paesi dove meno affluiscono investimenti diretti dall’estero, commentatori anche paludati hanno espresso riserve nei confronti di contatti presi affinché i “Fondi sovrani” dei Paesi visitati guardino alle opportunità presenti a casa nostra. C’è chi ha parlato di “svendita” di impianti, fabbriche ed imprese a interessi stranieri e, quindi, di perdita di sovranità.
Facciamo il punto, sine ira ni studio, i “fondi sovrani” – creati da Paesi con forti attivi delle bilance dei pagamenti e ragguardevoli riserve – hanno una cospicua aapacità finanziaria (stimata in almeno 4000 miliardi di dollari) . I fondi di Paesi petroliferi o di Paesi emergenti in particolare (non il Norway Global Pension Fund, ben 360 miliardi di dollari, che ha finalità previdenziali specifiche ed investe con grande maestria specialmente in fondi pensione di tutto il mondo) hanno concluso una serie di accordi tra di loro per avere maggiori competenze tecnico-finanziarie (lo ha ammesso il Presidente del Fondo Kazaco Samruk-Kazyna) e avere, quindi, maggiori capacità di analisi e di scelta d’investimenti in un’ottica di medio e lungo periodo, non legati ai risultati trimestrali. Il Fondo di Abu Dhabi, ad esempio, ha concluso un’intesa di questa natura con quello della Malesia ed un’altra con il piccolo fondo sovrano francese per alta tecnologia; l’India e l’Oman hanno dato vita ad un fondo sovrano congiunto; i fondi sovrani di Corea e Malesia hanno stretto un accordo con il fondo australiano d’investimenti QIC; i fondi di Cina, Singapore e Kuwait hanno operato d’intesa per supportare Backrock nell’acquisizione di Barclays Global Investiment. Da circa un anno, poi, si stanno orientando sempre più verso il manifatturiero in via di riassetto. In Italia, sono noti i rapporti, ormai di alcuni decenni, tra la FIAT e la Libia (prima direttamente con il Governo, poi con il fondo sovrano creato a Tripoli). E’ meno noto il ruolo che il fondo sovrano di Abu Dhabi prima e quello del Quadar poi hanno nella riorganizzazione dell’industria metalmeccanica tedesca. Il fondo di Abu Dhabi , con il 9,1% del capitale, è diventato l’azionista di riferimento della Daimler; al termine della fusione tra la Volkswagen e la Porche, il fondo del Qatar deterrà tra il 17% ed il 20% della nuova struttura aziendale. Il fondo del Qatar– ha una vasta gamma d’investimenti in Francia: da Suez Environment al principale concorso ippico (le Prix de l’Arc de Triomphe), dai grandi alberghi all’alta tecnologia (nonché ad una fetta importante di Bot francesi sul mercato).
Oggi “i fondi sovrani” assomigliano sempre più al “private equity” , essiccatosi all’inizio della crisi finanziaria che agli “hedge fund”. E’ aumentata la trasparenza , e soprattutto gli investimenti tendono a guardare sempre più al medio (ed anche lungo periodo) , piuttosto che ad indicatori finanziari a breve termine. Possono dare un contributo significativo alla ripresa, specialmente in Europa e soprattutto se scommettono su settori e comparti che necessitano liquidità per attuare programmi di riassetto strutturale (la metalmeccanica e l’edilizia sono i primi a venire in mente).I timori che i fondi sovrani vengano gestiti con finalità politiche clientelari sono, in gran misura, non fondati. Lo afferma in modo persuasivo Sven Behrendt in un lavoro appena pubblicato nel “Policy Outlook” del Carnegie Middle East Center a Beirut. Richard Epstein dell’Università di Chicago e Amada Rose della Vanderbilt argomentano che aggravare i fondi sovrani con regolamentazione eccessiva può solamente causare danni ai Paesi che la mettono in atto: inducono i fondi ad investire altrove, con una perdita secca di opportunità. Lo ribadisce un lavoro del Fondo monetario in corso di pubblicazione – ne sono autori Tao Sun e Heiko Hesse- in cui si esaminano investimenti e disinvestmenti da parte di “fondi sovrani” nel periodo 1990-2009: 166 “eventi” di cui si conoscono le caratteristiche . Sun e Hesse focalizzano su un aspetto l’impatto a breve termine delle operazioni dei fondi (acquisti e vendite di partecipazioni) in vari tipi di mercati finanziari (maturi ed emergenti) sia nel settore manifatturiero sia in quello finanziario al fine di valutare se hanno effetti “destabilizzanti” o se abbiamo turbato la “governance” di banche ed imprese. La conclusione che effetti di tale natura non ci sono stati ma che al contrario hanno spesso irrobustito con linfa nuova le banche e le imprese in cui hanno investito.
martedì 24 novembre 2009
NEUROECONOMIA Il Fohglio 24 novembre
NEUROECONOMIA
Giuseppe Pennisi
Le buone notizie accelerano la crescita? Vale la pena chiederselo dopo l’entusiasmo con cui alcuni media italiani hanno colto la notizia diramata dall’Ocse secondo cui nel terzo trimestre del 2009 il Pil italiano è cresciuto, rispetto ai tre mesi precedenti, ad un tasso (0,6%) superiore a quello della media dell’Ue (0,2%) e dell’area dell’euro (0,4%). Gli stessi media hanno dato relativamente poco rilievo ad un altro passo dello stesso documento Ocse- quello secondo cui ” la disoccupazione italiana salirà all'8,5% nel 2010 e all'8,7% nel 2011e “ il Pil italiano calerà' del 4,8% quest'anno per poi tornare a crescere dell'1,1% il prossimo e dell'1,5% nel 2011”. Quasi nessuno ha riportato le previsioni diramate lo scorso fine settimana dai 20 modelli econometrici (tutti privati, nessuno italiano) del gruppo chiamato, in gergo, “del consensus” secondo cui nel 2010 l’Italia avrebbe una crescita dello 0,8% rispetto all’1,2% della media dell’area dell’euro, restando essenzialmente uno dei fanalini di coda dell’Ue.
Lettura poco attenta delle cifre da parte di redattori sotto pressione a ragione delle scadenze del processo di produzione giornalistica oppure con poca dimestichezza con la statistica economica? Od un’interpretazione più sottile che si collega con le analisi del recente “Rapporto Stiglitz” sull’economia della felicità? Quasi in parallelo con le pacche sulle spalle alla lettura dei dati Ocse per il terzo e secondo semestre 2009 (comunque acqua passata poiché già dettagliate nelle principali specifiche dai comunicati Istat), un centinaio di quotidiani di vari Paesi – le testate aderenti al pool di commentari “project syndacate”, pubblicavano un editoriale di Robert J. Shiller dell’Università di Yale – l’esegeta, per intenderci, dell’”esuberanza irrazionale” delle Borse alla base della bolla della “new economy” prima e tra le componenti dell’attuale crisi, poi- efficacemente intitolato “La ripresa: è tutta nella nostra testa”. Intendiamoci, questa volta Schiller non è un profeta di sventura – come lo era al tempo dell’analisi dell’”esuberanza irrazionale”; al contrario, l’ipotesi di Schiller è che se si vuole che i barlumi di miglioramento si consolidino e si giunga a crescita auto-sostenibile, occorre guardare in termini positivi e con fiducia all’avvenire. Non è un’ipotesa nuova, anche se formulata più dai sociologi che dagli economisti. Nel 1937, ad esempio, quando gli Usa stavano uscendo dalla Grande Recessione, nel best seller “Think and Grow Rich , Napoleon Hill” sostenne che per arricchirsi occorreva lavorare sul subconscio. L’ottimismo del dopoguerra è stato, in parte, ispirato a “The Self-Fulfilling Prophecy” di Robert K. Merton: con l’auto-convincimento i sogni economici diventano realtà.
Gli specialisti di economia dello sviluppo hanno testato queste interpretazioni sociologiche con gli strumenti della disciplina economica. Negli Anni 70, Albert O. Hirschmann la applicò “al viaggio verso il progresso dell’America Latina”. Un quarto di secolo fa, il suo allievo italiano Luca Meldolesi scrisse un saggio secondo cui, per uscire dai pasticci, il Mezzogiorno avrebbe dovuto abbandonare la tradizionale melanconia mediterranea e guardare al presente ed al futuro “con gioia!”, L’elenco è diventato vasto negli ultimi dieci anni man mano che si è affermata la “neuroeconomia” sperimentale , disciplina in cui l’economista utilizza tanto gli algoritmi quanto le tecniche ed il lettino dello psicanalista: oggi Victor Ricciardi del Social Science Research Network invia tre newsletter al giorno ai propri abbonati – cinque giorni la settimana : una di teoria di neuro-economia, una di applicazioni (ed esperimenti) alla finanza ed una di applicazioni (ed esperimenti) all’economia reale. Dal 1996 sono uno dei suoi fedeli lettori.
Il lavoro dei neuro-economisti, soprattutto quello empirico, però, ha riguardato e riguarda, in gran misura, problemi micro. L’ultimo fascicolo dell’ American Economic Review viene aperto da un saggio di Nir Jaimovich e Sergio Rebello specificatamente attinente al nostro tema: in che misura le informazioni sul futuro (come le previsioni econometriche ed ancora di più la lettura che ad esse danno i media per renderle alla portata dei telespettatori e dei lettori di giornali) possono pilotare il ciclo economico. L’analisi riguarda gli ultimi 60 anni; sulla base di previsioni e realizzazioni effettive negli Usa prende in esame non solo il nesso tra notizie ottimiste e pessimiste e la crescita del Pil ma anche tramite un unico modello econometrico (di norma si sono utilizzati modelli distinti per i singoli fenomeni). il nesso con gli investimenti, le ore effettivamente lavorate, la produttività . Il lavoro non solamente conferma che l’ottimismo innescato da buone nuove (pur quando i dati vengono interpretati un po’ artatamente) facilita il miglioramento del ciclo economico. Mentre il pessimismo lo peggiora. Schiller non cita il lavoro; se non lo ha letto, è bene che lo faccia poiché vi trova una dimostrazione quantitativa alla sua tesi.
Giuseppe Pennisi
Le buone notizie accelerano la crescita? Vale la pena chiederselo dopo l’entusiasmo con cui alcuni media italiani hanno colto la notizia diramata dall’Ocse secondo cui nel terzo trimestre del 2009 il Pil italiano è cresciuto, rispetto ai tre mesi precedenti, ad un tasso (0,6%) superiore a quello della media dell’Ue (0,2%) e dell’area dell’euro (0,4%). Gli stessi media hanno dato relativamente poco rilievo ad un altro passo dello stesso documento Ocse- quello secondo cui ” la disoccupazione italiana salirà all'8,5% nel 2010 e all'8,7% nel 2011e “ il Pil italiano calerà' del 4,8% quest'anno per poi tornare a crescere dell'1,1% il prossimo e dell'1,5% nel 2011”. Quasi nessuno ha riportato le previsioni diramate lo scorso fine settimana dai 20 modelli econometrici (tutti privati, nessuno italiano) del gruppo chiamato, in gergo, “del consensus” secondo cui nel 2010 l’Italia avrebbe una crescita dello 0,8% rispetto all’1,2% della media dell’area dell’euro, restando essenzialmente uno dei fanalini di coda dell’Ue.
Lettura poco attenta delle cifre da parte di redattori sotto pressione a ragione delle scadenze del processo di produzione giornalistica oppure con poca dimestichezza con la statistica economica? Od un’interpretazione più sottile che si collega con le analisi del recente “Rapporto Stiglitz” sull’economia della felicità? Quasi in parallelo con le pacche sulle spalle alla lettura dei dati Ocse per il terzo e secondo semestre 2009 (comunque acqua passata poiché già dettagliate nelle principali specifiche dai comunicati Istat), un centinaio di quotidiani di vari Paesi – le testate aderenti al pool di commentari “project syndacate”, pubblicavano un editoriale di Robert J. Shiller dell’Università di Yale – l’esegeta, per intenderci, dell’”esuberanza irrazionale” delle Borse alla base della bolla della “new economy” prima e tra le componenti dell’attuale crisi, poi- efficacemente intitolato “La ripresa: è tutta nella nostra testa”. Intendiamoci, questa volta Schiller non è un profeta di sventura – come lo era al tempo dell’analisi dell’”esuberanza irrazionale”; al contrario, l’ipotesi di Schiller è che se si vuole che i barlumi di miglioramento si consolidino e si giunga a crescita auto-sostenibile, occorre guardare in termini positivi e con fiducia all’avvenire. Non è un’ipotesa nuova, anche se formulata più dai sociologi che dagli economisti. Nel 1937, ad esempio, quando gli Usa stavano uscendo dalla Grande Recessione, nel best seller “Think and Grow Rich , Napoleon Hill” sostenne che per arricchirsi occorreva lavorare sul subconscio. L’ottimismo del dopoguerra è stato, in parte, ispirato a “The Self-Fulfilling Prophecy” di Robert K. Merton: con l’auto-convincimento i sogni economici diventano realtà.
Gli specialisti di economia dello sviluppo hanno testato queste interpretazioni sociologiche con gli strumenti della disciplina economica. Negli Anni 70, Albert O. Hirschmann la applicò “al viaggio verso il progresso dell’America Latina”. Un quarto di secolo fa, il suo allievo italiano Luca Meldolesi scrisse un saggio secondo cui, per uscire dai pasticci, il Mezzogiorno avrebbe dovuto abbandonare la tradizionale melanconia mediterranea e guardare al presente ed al futuro “con gioia!”, L’elenco è diventato vasto negli ultimi dieci anni man mano che si è affermata la “neuroeconomia” sperimentale , disciplina in cui l’economista utilizza tanto gli algoritmi quanto le tecniche ed il lettino dello psicanalista: oggi Victor Ricciardi del Social Science Research Network invia tre newsletter al giorno ai propri abbonati – cinque giorni la settimana : una di teoria di neuro-economia, una di applicazioni (ed esperimenti) alla finanza ed una di applicazioni (ed esperimenti) all’economia reale. Dal 1996 sono uno dei suoi fedeli lettori.
Il lavoro dei neuro-economisti, soprattutto quello empirico, però, ha riguardato e riguarda, in gran misura, problemi micro. L’ultimo fascicolo dell’ American Economic Review viene aperto da un saggio di Nir Jaimovich e Sergio Rebello specificatamente attinente al nostro tema: in che misura le informazioni sul futuro (come le previsioni econometriche ed ancora di più la lettura che ad esse danno i media per renderle alla portata dei telespettatori e dei lettori di giornali) possono pilotare il ciclo economico. L’analisi riguarda gli ultimi 60 anni; sulla base di previsioni e realizzazioni effettive negli Usa prende in esame non solo il nesso tra notizie ottimiste e pessimiste e la crescita del Pil ma anche tramite un unico modello econometrico (di norma si sono utilizzati modelli distinti per i singoli fenomeni). il nesso con gli investimenti, le ore effettivamente lavorate, la produttività . Il lavoro non solamente conferma che l’ottimismo innescato da buone nuove (pur quando i dati vengono interpretati un po’ artatamente) facilita il miglioramento del ciclo economico. Mentre il pessimismo lo peggiora. Schiller non cita il lavoro; se non lo ha letto, è bene che lo faccia poiché vi trova una dimostrazione quantitativa alla sua tesi.
- Teatro, all’Opera di Roma un “Lago dei Cigni” molto tradizionale
Roma, 24 nov (Velino) - “Il Lago dei Cigni”, uno dei capolavori compositivi di Petr Ilic Ciajkovskij, è uno dei balletti più rappresentati al Teatro dell’Opera di Roma, nonostante sia arrivato relativamente tardi sul palcoscenico della Capitale. Composto tra il 1875 e il 1876 – ossia nel pieno della crisi di identità sessuale di Petr Ilic e di suo fratello Modest –, debuttò a Mosca nel 1877 senza ottenere il successo sperato, che gli arrise invece, grazie anche alla nuova coreografia di Marius Petipa, nel 1892 a San Pietroburgo, dopo gli esiti trionfali dei due balletti successivi, “La Bella Addormentata nel Bosco” e “Lo Schiaccianoci”. Al Teatro dell’Opera arrivò nel 1937, nella versione di Boris Romanov che vi impiegò Attilia Radice e Anatolij Obuchov. La coreografia del successo originale di Marius Petipa e Lev Ivanov fu proposta dal London’s Festival Ballet nel 1960 e otto anni prima il New York City Ballet aveva eseguito quella del suo coreografo di punta George Balanchine. Le Terme di Caracalla ospitarono il balletto per la prima volta nel 1980 con Diana Ferrara e Paolo Bortoluzzi come protagonisti della versione di Jurij Grigorovic, versione già offerta al pubblico romano dal Corpo di Ballo del Teatro Bolscioi nel 1970. La stessa ambientazione estiva accolse Rudolf Nureyev nei panni del principe Siegfried nel 1984. Complessivamente circa 80 rappresentazioni. Forse solo il Bolscioi di Mosca e il Marrinskij di San Pietroburgo ne hanno avuto un numero maggiore.
Il favore de “Il Lago dei Cigni” presso il pubblico romano è dimostrato che in questa fine stagione 2009 erano state inizialmente programmate sei repliche fuori abbonamento (di cui una riservata alle scuole). A ragione degli esisti della biglietteria e delle esigenze finanziarie di effettuare tutte le economie possibili, è stato spostato all’anno prossimo il nuovo allestimento della prima per Roma di un altro balletto e si sono aggiunte altre sei repliche. Alla terza serale in abbonamento, la sala era piena nonostante “Il Lago dei Cigni” fosse stato messo in calendario soltanto pochi giorni prima. L’edizione proposta, con la coreografia di Marius Petipa e Lev Ivanov e le scene e i costumi di Aldo Buti, è quella che, in varia guisa, si replica quasi ogni anno dal 2003, Un prodotto, quindi, rodato che il corpo di ballo e i numerosi ballerini nei tanti ruoli minori conoscono bene. Una caratteristica dell’impianto scenico è che mentre gli atti a Palazzo Reale seguono una scenografia decorativa quasi ottocentesca, in quelli nei pressi del lago viene inserita (al centro del lago) una riproduzione de “L’Isola dei Morti” di Arnold Böcklin, uno dei quadri più ambigui e più intriganti del decadentismo di fine Ottocento. È un modo particolarmente efficace di cogliere il senso ambiguo, e morboso, di un balletto composto quando l’autore, consapevole della propria omosessualità (e di quella di suo fratello), per celarla si sposò. Un matrimonio breve che terminò con il ricovero in manicomio della moglie e innescò la serie di eventi che portarono al suo suicidio (più o meno volontario) nel 1893, proprio mentre “Il Lago dei Cigni” stava gustando il successo meritato.
Molto bravi i quattro protagonisti: Ekaterina Borchenko, Massimo Garon, Mauro Murri e Carla Fracci nel ruolo della Regina madre. Efficaci i numerosissimi ruoli minori e il corpo di ballo. Lo spettacolo piace. Il solo neo è la concertazione di Andrey Anikhanov, un routinier che dirige un repertorio molto vasto a San Pietroburgo, da dove è stato probabilmente chiamato pochi giorni prima dell’andata in scena. La sua bacchetta è impeccabile, tranne qualche tono bandistico all’inizio della seconda parte e diligente. Tuttavia, la triade “Si bemolle-Re-Fa”, associata alle forze del male, e la triade “Si-Fa diesis-Do diesis”, associata, invece, al tema della morte e resurrezione non hanno il macero e morboso che meglio avrebbe rispecchiato il dramma di una partitura che è solo in apparenza decorativa. Ma rispecchia una tragedia interiore.
(Hans Sachs) 24 nov 2009 15:49
Il favore de “Il Lago dei Cigni” presso il pubblico romano è dimostrato che in questa fine stagione 2009 erano state inizialmente programmate sei repliche fuori abbonamento (di cui una riservata alle scuole). A ragione degli esisti della biglietteria e delle esigenze finanziarie di effettuare tutte le economie possibili, è stato spostato all’anno prossimo il nuovo allestimento della prima per Roma di un altro balletto e si sono aggiunte altre sei repliche. Alla terza serale in abbonamento, la sala era piena nonostante “Il Lago dei Cigni” fosse stato messo in calendario soltanto pochi giorni prima. L’edizione proposta, con la coreografia di Marius Petipa e Lev Ivanov e le scene e i costumi di Aldo Buti, è quella che, in varia guisa, si replica quasi ogni anno dal 2003, Un prodotto, quindi, rodato che il corpo di ballo e i numerosi ballerini nei tanti ruoli minori conoscono bene. Una caratteristica dell’impianto scenico è che mentre gli atti a Palazzo Reale seguono una scenografia decorativa quasi ottocentesca, in quelli nei pressi del lago viene inserita (al centro del lago) una riproduzione de “L’Isola dei Morti” di Arnold Böcklin, uno dei quadri più ambigui e più intriganti del decadentismo di fine Ottocento. È un modo particolarmente efficace di cogliere il senso ambiguo, e morboso, di un balletto composto quando l’autore, consapevole della propria omosessualità (e di quella di suo fratello), per celarla si sposò. Un matrimonio breve che terminò con il ricovero in manicomio della moglie e innescò la serie di eventi che portarono al suo suicidio (più o meno volontario) nel 1893, proprio mentre “Il Lago dei Cigni” stava gustando il successo meritato.
Molto bravi i quattro protagonisti: Ekaterina Borchenko, Massimo Garon, Mauro Murri e Carla Fracci nel ruolo della Regina madre. Efficaci i numerosissimi ruoli minori e il corpo di ballo. Lo spettacolo piace. Il solo neo è la concertazione di Andrey Anikhanov, un routinier che dirige un repertorio molto vasto a San Pietroburgo, da dove è stato probabilmente chiamato pochi giorni prima dell’andata in scena. La sua bacchetta è impeccabile, tranne qualche tono bandistico all’inizio della seconda parte e diligente. Tuttavia, la triade “Si bemolle-Re-Fa”, associata alle forze del male, e la triade “Si-Fa diesis-Do diesis”, associata, invece, al tema della morte e resurrezione non hanno il macero e morboso che meglio avrebbe rispecchiato il dramma di una partitura che è solo in apparenza decorativa. Ma rispecchia una tragedia interiore.
(Hans Sachs) 24 nov 2009 15:49
lunedì 23 novembre 2009
Servizi pubblici locali: una liberalizzazione "ben temperata", Ffwebmagazine del 23 novembre
Focus Rss
[Servizi pubblici locali: una liberalizzazione ]
Un passo verso la separazione più netta tra proprietario e gestore
Servizi pubblici locali:
una liberalizzazione "ben temperata"
di Giuseppe Pennisi Si è concluso in questi giorni il primo importante di una liberalizzazione “ben temperata”, quella dei servizi pubblici locali. È “ben temperata” perché come sottolinea il ministro per le Politiche comunitarie, Andrea Ronchi, la nuova normativa sui servizi pubblici locali è «una riforma vera che metterà in moto investimenti veri», è una riforma che interessa da vicino noi tutti e che viene attuata gradualmente – selezionando i settori e prevedendo una loro apertura progressiva al mercato. Non come le liberizzazioni-privatizzazioni attuate dai governi di sinistra che – lo documentano i rapporti annuali di “Società Libera”, un’associazione apartitica che non ha mai mostrato particolari simpatie per il centro-destra – sono state realizzate in modo selvaggio e con un occhio agli amici e agli amici degli amici.I servizi pubblici locali – acqua, trasporti di massa, rifiuti urbani – riguardano la vita quotidiana di tutti noi . Il servizio studi della Banca d’Italia ha diramato di recente una serie di interessanti monografie (in italiano e in inglese) relative sia a tematiche generali (la regolamentazione attuale e quella che si profila in prospettiva, la creazione di un “capitalismo municipale” costituito non più da piccole aziende ma da grandi imprese, l’impiego della finanza di progetto e le sue implicazioni) sia a comparti specifici (trasporto pubblico locale, rifiuti urbani, distribuzione di gas naturale, il servizio idrico, taxi ed autonoleggio, e via discorrendo). Non solamente si tratta di studi basati su dati aggiornati, ma essi gettano nuova luce sulla questione di fondo: nel paese in cui Giovanni Montemartini inventò, in età giolittiana, le municipalizzate – gli abbiamo dedicato un museo a Via Ostiense ma i suoi libri sono introvabili in Italia, anche se in traduzione in inglese fanno ancora testo nelle università americane – è più urgente, in questo primo scorcio di XXI secolo, liberalizzare o privatizzare al fine di migliorare il servizio e rendere il settore competitivo su scala europea ed internazionale?Il settore comprende circa 370 imprese, con 200mila addetti. Alcune imprese sono di grandi dimensioni (si pensi a Hera, Iride, Gesac, Aem-Asm, Acea): risultano da un processo di aggregazione degli ultimi venti anni. I Comuni, le Province e in certi casi le Regioni sono tra i maggiori azionisti – una delle monografie analizza dieci tra i principali casi aziendali e individua i percorsi “virtuosi” (spesso associati a un nocciolo duro energetico caratterizzato da alta redditività). Accanto ai “giganti” c’è una miriade di piccole e medie aziende. Complessivamente, formano oltre l’1% del Pil nazionale, ma in alcune Regioni rappresentano il 6% del valore aggiunto prodotto in loco. Il “capitalismo municipale”, inoltre, è internazionalizzato; l’azionista di maggioranza della società che gestisce gli aeroporti campani è una multinazionale d’origine britannica. Le società miste pubblico-privato, e in particolare quelle con soci stranieri, presentano indici di redditività superiori a quelle delle società unicamente municipali, specialmente in termine di margine operativo lordo. Un’analisi di dieci “Big” del settore delinea vincoli che frenano anche i “grandi” e che impediscono la crescita dei “piccoli”: da un canto, il disegno regolamentare è inadeguato poiché le tariffe non coprono i costi, e sono comunque state fissate (anche a ragione della metodologia prevista per legge) a livelli eccessivamente bassi (scoraggiando partner privati, soprattutto quelli stranieri); da un altro, la separazione tra proprietà/controllo (quasi sempre pubblica) e gestione non è sempre sufficientemente netta quanto sarebbe auspicabile. Lo studio suggerisce “una separazione dei ruoli – di rappresentanza delle esigenze dei consumatori da quella della politica locale e dall’interesse ai risultati economici – attraverso forme di privatizzazione dei gestori con una diluizione delle partecipazioni degli enti locali. A indicazioni analoghe è giunto tempo fa uno studio del dipartimento di Economia dell’Università di Roma “La Sapienza”: «una scelta radicale» - «una gestione pubblica separata dalla fornitura del servizio, almeno sino al momento in cui non sarà risolto il nodo degli assetti gestionali» . Non è, però, un percorso semplice. Nonostante la crisi finanziaria ed economica internazionale (che ha inciso non poco sui programmi di tutti i governi e sulle loro priorità), la normativa varata rappresenta un passo importante verso una più netta separazione tra proprietario/controllore e gestore da scegliersi in seguito a «procedure competitive ad evidenza pubblica». Lo sostiene anche una recente rassegna commissionata dalla Fondazione Bertelsmann e presentata ad una congresso internazionale a Berlino a cui hanno partecipato circa 600 esperti.
[Servizi pubblici locali: una liberalizzazione ]
Un passo verso la separazione più netta tra proprietario e gestore
Servizi pubblici locali:
una liberalizzazione "ben temperata"
di Giuseppe Pennisi Si è concluso in questi giorni il primo importante di una liberalizzazione “ben temperata”, quella dei servizi pubblici locali. È “ben temperata” perché come sottolinea il ministro per le Politiche comunitarie, Andrea Ronchi, la nuova normativa sui servizi pubblici locali è «una riforma vera che metterà in moto investimenti veri», è una riforma che interessa da vicino noi tutti e che viene attuata gradualmente – selezionando i settori e prevedendo una loro apertura progressiva al mercato. Non come le liberizzazioni-privatizzazioni attuate dai governi di sinistra che – lo documentano i rapporti annuali di “Società Libera”, un’associazione apartitica che non ha mai mostrato particolari simpatie per il centro-destra – sono state realizzate in modo selvaggio e con un occhio agli amici e agli amici degli amici.I servizi pubblici locali – acqua, trasporti di massa, rifiuti urbani – riguardano la vita quotidiana di tutti noi . Il servizio studi della Banca d’Italia ha diramato di recente una serie di interessanti monografie (in italiano e in inglese) relative sia a tematiche generali (la regolamentazione attuale e quella che si profila in prospettiva, la creazione di un “capitalismo municipale” costituito non più da piccole aziende ma da grandi imprese, l’impiego della finanza di progetto e le sue implicazioni) sia a comparti specifici (trasporto pubblico locale, rifiuti urbani, distribuzione di gas naturale, il servizio idrico, taxi ed autonoleggio, e via discorrendo). Non solamente si tratta di studi basati su dati aggiornati, ma essi gettano nuova luce sulla questione di fondo: nel paese in cui Giovanni Montemartini inventò, in età giolittiana, le municipalizzate – gli abbiamo dedicato un museo a Via Ostiense ma i suoi libri sono introvabili in Italia, anche se in traduzione in inglese fanno ancora testo nelle università americane – è più urgente, in questo primo scorcio di XXI secolo, liberalizzare o privatizzare al fine di migliorare il servizio e rendere il settore competitivo su scala europea ed internazionale?Il settore comprende circa 370 imprese, con 200mila addetti. Alcune imprese sono di grandi dimensioni (si pensi a Hera, Iride, Gesac, Aem-Asm, Acea): risultano da un processo di aggregazione degli ultimi venti anni. I Comuni, le Province e in certi casi le Regioni sono tra i maggiori azionisti – una delle monografie analizza dieci tra i principali casi aziendali e individua i percorsi “virtuosi” (spesso associati a un nocciolo duro energetico caratterizzato da alta redditività). Accanto ai “giganti” c’è una miriade di piccole e medie aziende. Complessivamente, formano oltre l’1% del Pil nazionale, ma in alcune Regioni rappresentano il 6% del valore aggiunto prodotto in loco. Il “capitalismo municipale”, inoltre, è internazionalizzato; l’azionista di maggioranza della società che gestisce gli aeroporti campani è una multinazionale d’origine britannica. Le società miste pubblico-privato, e in particolare quelle con soci stranieri, presentano indici di redditività superiori a quelle delle società unicamente municipali, specialmente in termine di margine operativo lordo. Un’analisi di dieci “Big” del settore delinea vincoli che frenano anche i “grandi” e che impediscono la crescita dei “piccoli”: da un canto, il disegno regolamentare è inadeguato poiché le tariffe non coprono i costi, e sono comunque state fissate (anche a ragione della metodologia prevista per legge) a livelli eccessivamente bassi (scoraggiando partner privati, soprattutto quelli stranieri); da un altro, la separazione tra proprietà/controllo (quasi sempre pubblica) e gestione non è sempre sufficientemente netta quanto sarebbe auspicabile. Lo studio suggerisce “una separazione dei ruoli – di rappresentanza delle esigenze dei consumatori da quella della politica locale e dall’interesse ai risultati economici – attraverso forme di privatizzazione dei gestori con una diluizione delle partecipazioni degli enti locali. A indicazioni analoghe è giunto tempo fa uno studio del dipartimento di Economia dell’Università di Roma “La Sapienza”: «una scelta radicale» - «una gestione pubblica separata dalla fornitura del servizio, almeno sino al momento in cui non sarà risolto il nodo degli assetti gestionali» . Non è, però, un percorso semplice. Nonostante la crisi finanziaria ed economica internazionale (che ha inciso non poco sui programmi di tutti i governi e sulle loro priorità), la normativa varata rappresenta un passo importante verso una più netta separazione tra proprietario/controllore e gestore da scegliersi in seguito a «procedure competitive ad evidenza pubblica». Lo sostiene anche una recente rassegna commissionata dalla Fondazione Bertelsmann e presentata ad una congresso internazionale a Berlino a cui hanno partecipato circa 600 esperti.
domenica 22 novembre 2009
RILANCIARE “LISBONA” SI PUO’ FARLO RIPARTENDO DAL PROGRAMMA PRESENTATO DALL’ITALIA, Synthesis novembre 2009
RILANCIARE “LISBONA” SI PUO’ FARLO RIPARTENDO DAL PROGRAMMA PRESENTATO DALL’ITALIA
Giuseppe Pennisi
Vi ricordate i “Protocolli di Lisbona” così denominati in quanto formulati ad un Consiglio Straordinario dei Capi di Stato e di Governo dell’UE (allora ancora a 15) tenuto sulle rive del Tago (il Portogallo aveva la Presidenza di turno dell’Unione) nel marzo 2000? I documenti esaminavano la crescita economica verificatasi nelle principali aree della comunità internazionali negli Anni Novanta, giungendo alla conclusione – per mutuare da un libro recente di Mario Baldassarri- che l’Europa era stata “la bella addormentata” in un mondo sempre più caratterizzato dalla “formica cinese”, dalla “cicala americana” e dall’”aquila russa”. La “bella addormentata”, in particolare, non aveva sfruttato (come avrebbe dovuto) le tecnologie della comunicazione e dell’informazione per ridurre drasticamente le distanze di tempo e di spazio ed aumentare competitività e produttività. In campi specifici come la banda larga, la diffusione di Internet, l’innovazione di processo e di prodotto si era rimasti pericolosamente indietro. In questo contesto, ed in questo spirito, il Consiglio Europea varava un piano ambizioso, incentrato sulla tecnologia, mirato a fare diventare entro il 2010 l’Europa l’area più dinamica del mondo.
Siamo alla vigilia del 2010: nella loro ultima tornata di previsioni (diramata il 23 maggio), i 20 maggiori istituti econometrici internazionali (tutti privati, nessuno italiano) anticipano che l’anno prossimo l’UE esporrà una crescita appena dello 0,3%, rispetto all’1,4% degli Usa , allo 0,6% del Giappone, al 2% della Russia, al 7% della Cina ed al 6% dell’India. A fronte di queste cifre, ciò-che-resta-degli-eurocrati di Bruxelles hanno imbarazzo quando si affronta il tema. Cambiano discorso sottolineando la crisi internazionale ed i suoi effetti, da cui però – come affermano le cifre citate – altre aree del mondo stanno uscendo prima e meglio dell’Europa.
La prima fase del programma di Lisbona – lo ha detto il rapporto Koch (dal nome dell’ex- Commissario Europeo Peter Koch) nel 2005 quando è stata effettuata una valutazione del primo lustro d’attuazione dei Protocolli – è stata afflitta da una malattia tipica di Bruxelles: il “mal d’indicatori” (il numero eccessivo di indicatori statistici, spesso di dubbia robustezza, richiesto dalla Commissione alle amministrazioni degli Stati membri al fine di “monitorare” politiche, piani, programmi, progetti e singole misure). E’ stata, quindi, varata una seconda fase che prevedeva una riduzione drastica degli adempimenti burocratici e dei relativi indicatori e la presentazione invece di programmi nazionali basati su 24 linee guida condivise dagli Stati membri dell’UE. Il ruolo della Commissione sarebbe cambiato: da controller a facilitator e coordinator.
L’Italia, infatti, è stata uno dei rari Paesi che ha presentato alla Commissione Europea il “Piano Nazionale per l’Innovazione, la Crescita e l’Occupazione” (il PICO, nel gergo comunitario) entro il termine previsto del 14 ottobre 2005. Lo ha fatto con discrezione, quasi con pudore. La discrezione ed il pudore, però, sono stati tali che la stampa e l’opinione pubblica quasi non si sono accorti del PICO (anche in quanto con la preparazione della campagna elettorale infuriava, ed infuria, la più aspra polemica politica su tutti e su tutto). Si tratta, invece, di documento che va letto, studiato e meditato il quanto, quale sarà il risultato delle elezioni politiche (ed amministrative) della prossima primavera, il PICO indica una strada, per molti aspetti al di sopra delle parti, da percorrere per riavviare il motore del sistema Italiana dopo circa tre lustri in cui la crescita è stata rasoterra e si è stati, a lungo, molto vicini alla stagnazione. I prossimi Consigli europei rappresentano un’occasione per ripartire dal PICO per definire una nuova strategia europea per l’innovazione, la crescita e l’occupazione.
Cosa è il PICO e come ha origine? La “strategia di Lisbona” sotto-intendeva una politica di crescita che avrebbe dovuto equilibrare (o meglio ancora controbilanciare) le politiche della moneta e di bilancio iscritte nel Trattato di Maastricht, prima, e nel “patto di stabilità”, poi – ambedue inerentemente restrittive. Dal 2000, lo sappiamo, l’attenzione è stata rivolta agli indicatori del “patto di stabilità” (comunque di più immediato impatto mediatico e politico) invece che alle strategie di trasformazione economica. Sotto il profilo istituzionale, il PICO italiano è stato definito da un Comitato di sei Ministri, coordinati dal Ministro per le Politiche Comunitarie Giorgio La Malfa. Sotto il profilo tecnico, l’anima ed il motore del PICO è stato Paolo Savona, rientrato per l’occasione nella pubblica amministrazione (nella veste di Capo Dipartimento delle Politiche Comunitarie), dove aveva già rivestito (circa un quarto di secolo fa) la carica di Segretario Generale della Programmazione.
Quale il metodo adottato per mettere a punto, in poche settimane, il PICO? Quali i contenuti? E cosa può maggiormente interessare imprese, famiglie ed individui? Oltre a passare al setaccio i capitoli dei bilanci delle pubbliche amministrazioni (ed i loro cassetti) per individuare i progetti effettivamente pronti e cantierabili nelle aree più incisive per la trasformazione tecnologica, l’allora Capo del Dipartimento delle Politiche Comunitarie, Prof. Paolo Savona ha svolto un vasto giro di consultazioni con le parti sociali (tutte le 37 organizzazioni con le quali il Governo di norma dialoga), con le Regioni e con le autonomie locali, nonché con numerosi economisti, al fine individuare cinque obiettivi che l'Italia considera prioritari: ampliare l'area di libera scelta dei cittadini e delle imprese; incentivare la ricerca scientifica e l'innovazione tecnologica; rafforzare l'istruzione e la formazione del capitale umano, nonché accrescere l'estensione dei relativi benefici alla popolazione, specie ai giovani; adeguare le infrastrutture materiali e immateriali; tutelare l'ambiente. Ciascun obiettivo prevede, nel Piano, una dettagliata ricognizione di programmi e progetti puntuali di intervento che spaziano dall'economico al sociale, al tecnologico, alla politica legislativa, alla qualità della regolazione.
In materia di contenuti, il PICO parte dalla constatazione che l’Italia presenta una preponderanza di imprese di piccole e medie dimensioni . Una categoria (principalmente a conduzione familiare) è vulnerabile alla competizione di prezzo, specialmente dai Paesi a bassi salari e bassa tutela sociale. Un’altra (il “made in Italy” di alta qualità) è vulnerabile alle contraffazioni. Sono, inoltre, presenti dualismi territoriali e settoriali accentuati. Infine, il Paese è caratterizzato da modi di soddisfazione delle esigenze di solidarietà tali da incidere sui bilanci delle pubbliche e delle imprese , già peraltro gravate da eccessiva regolamentazione.
Il PICO si articola in due vaste tipologie di strumenti da attivare: provvedimenti a carattere generale i progetti specifici. I primi riguardano : liberalizzazioni, segnatamente nei settori dei servizi; miglioramento delle prestazioni della pubblica amministrazione; creazione di un contesto normativo favorevole agli investimenti; valorizzazione della piccola e media impresa allo scopo di accrescere l’utilizzazione da parte loro delle tecnologie digitali, piena valorizzazione del capitale umano, creazione o completamento di reti infrastrutturali, un’incisiva attuazione della politica di seconda europea.
I secondi concernono : a) il completamento del progetto Galileo per una rete satellitare europea; b) la partecipazione ai progetti europei Egnos e Sesame per la gestione del traffico aereo; c) la realizzazione di piattaforme informatiche per la tutela della salute, lo sviluppo del turismo, l’infomobilità, la gestione delle banche dati pubbliche e territoriali; d) l’attuazione di 12 programmi strategici di ricerca nei settori della salute, farmaceutico e bio-medicale, dei sistemi di manifattura, della motoristica, della cantieristica navale e aeronautica, della ceramica, delle telecomunicazioni, dell’agroalimentare, dei trasporti e della logistica avanzata, dell’ ICT e componentistica elettronica e della microgenerazione energetica; e) la creazione di 12 laboratori di collaborazione pubblico-privata per lo sviluppo della ricerca nel Mezzogiorno nei settori della diagnostica medica, dell’energia solare, dei sistemi avanzati di produzione, dell’e-business, delle bio-tecnologie, della genomica, dei materiali per usi elettronici, della bioinformatica applicata alla genomica, dei nuovi materiali per la mobilità, dell'efficacia dei farmaci, dell’open source del software, dell’analisi della crosta terrestre; f) lo sviluppo di 24 distretti tecnologici, che estendono l’esperienza dei distretti industriali italiani a settori ad alto contenuto tecnologico e potenziale innovativo; g) l’ampliamento e l’uso razionale delle infrastrutture nel settore energetico e idrico; h) settori di rilevanza strategica aventi ricadute tecnologiche nei processi produttivi e nel benessere dei cittadini e in condizione di garantire una migliore tutela ambientale, con particolare attenzione alle fonti energetiche alternative.
Il PICO non è un Piano “chiuso”. Oltre a considerare ciò che già è stato fatto in attuazione della strategia di Lisbona, il PICO ha accolto provvedimenti e progetti di pronta attuazione, che incidono una tantum sulla spesa pubblica e sono capaci di attrarre risorse private, ma resta “aperto” ad accogliere nuovi contributi provenienti delle capacità progettuali del sistema economico e politico italiano ed europeo, anche perché il meccanismo di nuovi finanziamenti pubblici è basato sul gettito derivante dalla cessione di attività reali di proprietà dello Stato, secondo una logica di gestione patrimoniale (asset management), e trova attuazione nelle scelte che su queste disponiblità verranno effettuate dal CIPE. Le risorse finanziarie pubbliche messe al servizio del Piano sono in parte già incorporate negli stanziamenti di cassa previsti in bilancio fino al 2005 e in quelli di competenza previsti per il triennio 2006-2008, nonché nelle dotazioni aggiuntive per la politica di coesione comunitaria e, per la parte aggiuntiva, da fondi provenienti dalla cessione di attività reali dello Stato stimati nell’ordine dell’1% del PIL per il triennio di Piano (equivalenti a 13 mld di euro), di cui 3 mld nel 2006. Più importanti di questi dati quantitativi, che rappresentano ormai un mero documento di storia economica contemporanea, è sulk metodo consultativo del PICO e sui suoi risultati attesi che occorre porre l’accento. L’insieme dei provvedimenti e progetti avrebbero dovuto fare avvicinare le spese in ricerca e sviluppo (R&S) all’obiettivo del 3% del pil indicato dalla Commissione Europea. Più significativa appare invece la stima effettuata sull’impatto macroeconomico derivante dall’attuazione del Piano: l’innalzamento del reddito potenziale attuale è valutato nell’ordine dell’1%, con effetti disinflazionistici strutturali stimati in 30 centesimi di punto e un parallelo rafforzamento del potere di acquisto salariale. Il PICO avrebbe indotto un incremento dell’occupazione nell’ordine dei 200 mila posti di lavoro, con una significativa concentrazione tra i giovani.
Subito dopo la presentazione del PICO si è entrati in campagna elettorale, è cambiata la maggioranza parlamentare, si è avuto la più breve legislatura della storia della Repubblica e, subito dopo nuove elezioni, la nuova maggioranza si è trovata alle prese con la crisi finanziaria ed economica mondiale più grave dal dopoguerra e con emergenze nazionali come il terremoto dell’Abruzzo. Il PICO pare coperto da una coltre d’oblio anche al Dipartimento delle Politiche Comunitarie dove è stato preparato.
Tuttavia, mai come ora, è necessario aggiornarlo, riprendendone metodo ed obiettivi ed adattali alla nuova situazione europea ed internazionale. Ed offrirlo all’UE come proposta italiana per rilanciare la strategia definita dieci anni fa a Lisbona. Evitando che la bella addormentata , con il passare del tempo, diventi vecchia e grinzosa.
Giuseppe Pennisi, Vice Presidente del Comitato Scientifico dell’O.S.E.C.O, è Professore emerito della SSPA; insegna attualmente economia internazionale e politica economica europea all’Università Europea ed all’Università di Malta.
Giuseppe Pennisi
Vi ricordate i “Protocolli di Lisbona” così denominati in quanto formulati ad un Consiglio Straordinario dei Capi di Stato e di Governo dell’UE (allora ancora a 15) tenuto sulle rive del Tago (il Portogallo aveva la Presidenza di turno dell’Unione) nel marzo 2000? I documenti esaminavano la crescita economica verificatasi nelle principali aree della comunità internazionali negli Anni Novanta, giungendo alla conclusione – per mutuare da un libro recente di Mario Baldassarri- che l’Europa era stata “la bella addormentata” in un mondo sempre più caratterizzato dalla “formica cinese”, dalla “cicala americana” e dall’”aquila russa”. La “bella addormentata”, in particolare, non aveva sfruttato (come avrebbe dovuto) le tecnologie della comunicazione e dell’informazione per ridurre drasticamente le distanze di tempo e di spazio ed aumentare competitività e produttività. In campi specifici come la banda larga, la diffusione di Internet, l’innovazione di processo e di prodotto si era rimasti pericolosamente indietro. In questo contesto, ed in questo spirito, il Consiglio Europea varava un piano ambizioso, incentrato sulla tecnologia, mirato a fare diventare entro il 2010 l’Europa l’area più dinamica del mondo.
Siamo alla vigilia del 2010: nella loro ultima tornata di previsioni (diramata il 23 maggio), i 20 maggiori istituti econometrici internazionali (tutti privati, nessuno italiano) anticipano che l’anno prossimo l’UE esporrà una crescita appena dello 0,3%, rispetto all’1,4% degli Usa , allo 0,6% del Giappone, al 2% della Russia, al 7% della Cina ed al 6% dell’India. A fronte di queste cifre, ciò-che-resta-degli-eurocrati di Bruxelles hanno imbarazzo quando si affronta il tema. Cambiano discorso sottolineando la crisi internazionale ed i suoi effetti, da cui però – come affermano le cifre citate – altre aree del mondo stanno uscendo prima e meglio dell’Europa.
La prima fase del programma di Lisbona – lo ha detto il rapporto Koch (dal nome dell’ex- Commissario Europeo Peter Koch) nel 2005 quando è stata effettuata una valutazione del primo lustro d’attuazione dei Protocolli – è stata afflitta da una malattia tipica di Bruxelles: il “mal d’indicatori” (il numero eccessivo di indicatori statistici, spesso di dubbia robustezza, richiesto dalla Commissione alle amministrazioni degli Stati membri al fine di “monitorare” politiche, piani, programmi, progetti e singole misure). E’ stata, quindi, varata una seconda fase che prevedeva una riduzione drastica degli adempimenti burocratici e dei relativi indicatori e la presentazione invece di programmi nazionali basati su 24 linee guida condivise dagli Stati membri dell’UE. Il ruolo della Commissione sarebbe cambiato: da controller a facilitator e coordinator.
L’Italia, infatti, è stata uno dei rari Paesi che ha presentato alla Commissione Europea il “Piano Nazionale per l’Innovazione, la Crescita e l’Occupazione” (il PICO, nel gergo comunitario) entro il termine previsto del 14 ottobre 2005. Lo ha fatto con discrezione, quasi con pudore. La discrezione ed il pudore, però, sono stati tali che la stampa e l’opinione pubblica quasi non si sono accorti del PICO (anche in quanto con la preparazione della campagna elettorale infuriava, ed infuria, la più aspra polemica politica su tutti e su tutto). Si tratta, invece, di documento che va letto, studiato e meditato il quanto, quale sarà il risultato delle elezioni politiche (ed amministrative) della prossima primavera, il PICO indica una strada, per molti aspetti al di sopra delle parti, da percorrere per riavviare il motore del sistema Italiana dopo circa tre lustri in cui la crescita è stata rasoterra e si è stati, a lungo, molto vicini alla stagnazione. I prossimi Consigli europei rappresentano un’occasione per ripartire dal PICO per definire una nuova strategia europea per l’innovazione, la crescita e l’occupazione.
Cosa è il PICO e come ha origine? La “strategia di Lisbona” sotto-intendeva una politica di crescita che avrebbe dovuto equilibrare (o meglio ancora controbilanciare) le politiche della moneta e di bilancio iscritte nel Trattato di Maastricht, prima, e nel “patto di stabilità”, poi – ambedue inerentemente restrittive. Dal 2000, lo sappiamo, l’attenzione è stata rivolta agli indicatori del “patto di stabilità” (comunque di più immediato impatto mediatico e politico) invece che alle strategie di trasformazione economica. Sotto il profilo istituzionale, il PICO italiano è stato definito da un Comitato di sei Ministri, coordinati dal Ministro per le Politiche Comunitarie Giorgio La Malfa. Sotto il profilo tecnico, l’anima ed il motore del PICO è stato Paolo Savona, rientrato per l’occasione nella pubblica amministrazione (nella veste di Capo Dipartimento delle Politiche Comunitarie), dove aveva già rivestito (circa un quarto di secolo fa) la carica di Segretario Generale della Programmazione.
Quale il metodo adottato per mettere a punto, in poche settimane, il PICO? Quali i contenuti? E cosa può maggiormente interessare imprese, famiglie ed individui? Oltre a passare al setaccio i capitoli dei bilanci delle pubbliche amministrazioni (ed i loro cassetti) per individuare i progetti effettivamente pronti e cantierabili nelle aree più incisive per la trasformazione tecnologica, l’allora Capo del Dipartimento delle Politiche Comunitarie, Prof. Paolo Savona ha svolto un vasto giro di consultazioni con le parti sociali (tutte le 37 organizzazioni con le quali il Governo di norma dialoga), con le Regioni e con le autonomie locali, nonché con numerosi economisti, al fine individuare cinque obiettivi che l'Italia considera prioritari: ampliare l'area di libera scelta dei cittadini e delle imprese; incentivare la ricerca scientifica e l'innovazione tecnologica; rafforzare l'istruzione e la formazione del capitale umano, nonché accrescere l'estensione dei relativi benefici alla popolazione, specie ai giovani; adeguare le infrastrutture materiali e immateriali; tutelare l'ambiente. Ciascun obiettivo prevede, nel Piano, una dettagliata ricognizione di programmi e progetti puntuali di intervento che spaziano dall'economico al sociale, al tecnologico, alla politica legislativa, alla qualità della regolazione.
In materia di contenuti, il PICO parte dalla constatazione che l’Italia presenta una preponderanza di imprese di piccole e medie dimensioni . Una categoria (principalmente a conduzione familiare) è vulnerabile alla competizione di prezzo, specialmente dai Paesi a bassi salari e bassa tutela sociale. Un’altra (il “made in Italy” di alta qualità) è vulnerabile alle contraffazioni. Sono, inoltre, presenti dualismi territoriali e settoriali accentuati. Infine, il Paese è caratterizzato da modi di soddisfazione delle esigenze di solidarietà tali da incidere sui bilanci delle pubbliche e delle imprese , già peraltro gravate da eccessiva regolamentazione.
Il PICO si articola in due vaste tipologie di strumenti da attivare: provvedimenti a carattere generale i progetti specifici. I primi riguardano : liberalizzazioni, segnatamente nei settori dei servizi; miglioramento delle prestazioni della pubblica amministrazione; creazione di un contesto normativo favorevole agli investimenti; valorizzazione della piccola e media impresa allo scopo di accrescere l’utilizzazione da parte loro delle tecnologie digitali, piena valorizzazione del capitale umano, creazione o completamento di reti infrastrutturali, un’incisiva attuazione della politica di seconda europea.
I secondi concernono : a) il completamento del progetto Galileo per una rete satellitare europea; b) la partecipazione ai progetti europei Egnos e Sesame per la gestione del traffico aereo; c) la realizzazione di piattaforme informatiche per la tutela della salute, lo sviluppo del turismo, l’infomobilità, la gestione delle banche dati pubbliche e territoriali; d) l’attuazione di 12 programmi strategici di ricerca nei settori della salute, farmaceutico e bio-medicale, dei sistemi di manifattura, della motoristica, della cantieristica navale e aeronautica, della ceramica, delle telecomunicazioni, dell’agroalimentare, dei trasporti e della logistica avanzata, dell’ ICT e componentistica elettronica e della microgenerazione energetica; e) la creazione di 12 laboratori di collaborazione pubblico-privata per lo sviluppo della ricerca nel Mezzogiorno nei settori della diagnostica medica, dell’energia solare, dei sistemi avanzati di produzione, dell’e-business, delle bio-tecnologie, della genomica, dei materiali per usi elettronici, della bioinformatica applicata alla genomica, dei nuovi materiali per la mobilità, dell'efficacia dei farmaci, dell’open source del software, dell’analisi della crosta terrestre; f) lo sviluppo di 24 distretti tecnologici, che estendono l’esperienza dei distretti industriali italiani a settori ad alto contenuto tecnologico e potenziale innovativo; g) l’ampliamento e l’uso razionale delle infrastrutture nel settore energetico e idrico; h) settori di rilevanza strategica aventi ricadute tecnologiche nei processi produttivi e nel benessere dei cittadini e in condizione di garantire una migliore tutela ambientale, con particolare attenzione alle fonti energetiche alternative.
Il PICO non è un Piano “chiuso”. Oltre a considerare ciò che già è stato fatto in attuazione della strategia di Lisbona, il PICO ha accolto provvedimenti e progetti di pronta attuazione, che incidono una tantum sulla spesa pubblica e sono capaci di attrarre risorse private, ma resta “aperto” ad accogliere nuovi contributi provenienti delle capacità progettuali del sistema economico e politico italiano ed europeo, anche perché il meccanismo di nuovi finanziamenti pubblici è basato sul gettito derivante dalla cessione di attività reali di proprietà dello Stato, secondo una logica di gestione patrimoniale (asset management), e trova attuazione nelle scelte che su queste disponiblità verranno effettuate dal CIPE. Le risorse finanziarie pubbliche messe al servizio del Piano sono in parte già incorporate negli stanziamenti di cassa previsti in bilancio fino al 2005 e in quelli di competenza previsti per il triennio 2006-2008, nonché nelle dotazioni aggiuntive per la politica di coesione comunitaria e, per la parte aggiuntiva, da fondi provenienti dalla cessione di attività reali dello Stato stimati nell’ordine dell’1% del PIL per il triennio di Piano (equivalenti a 13 mld di euro), di cui 3 mld nel 2006. Più importanti di questi dati quantitativi, che rappresentano ormai un mero documento di storia economica contemporanea, è sulk metodo consultativo del PICO e sui suoi risultati attesi che occorre porre l’accento. L’insieme dei provvedimenti e progetti avrebbero dovuto fare avvicinare le spese in ricerca e sviluppo (R&S) all’obiettivo del 3% del pil indicato dalla Commissione Europea. Più significativa appare invece la stima effettuata sull’impatto macroeconomico derivante dall’attuazione del Piano: l’innalzamento del reddito potenziale attuale è valutato nell’ordine dell’1%, con effetti disinflazionistici strutturali stimati in 30 centesimi di punto e un parallelo rafforzamento del potere di acquisto salariale. Il PICO avrebbe indotto un incremento dell’occupazione nell’ordine dei 200 mila posti di lavoro, con una significativa concentrazione tra i giovani.
Subito dopo la presentazione del PICO si è entrati in campagna elettorale, è cambiata la maggioranza parlamentare, si è avuto la più breve legislatura della storia della Repubblica e, subito dopo nuove elezioni, la nuova maggioranza si è trovata alle prese con la crisi finanziaria ed economica mondiale più grave dal dopoguerra e con emergenze nazionali come il terremoto dell’Abruzzo. Il PICO pare coperto da una coltre d’oblio anche al Dipartimento delle Politiche Comunitarie dove è stato preparato.
Tuttavia, mai come ora, è necessario aggiornarlo, riprendendone metodo ed obiettivi ed adattali alla nuova situazione europea ed internazionale. Ed offrirlo all’UE come proposta italiana per rilanciare la strategia definita dieci anni fa a Lisbona. Evitando che la bella addormentata , con il passare del tempo, diventi vecchia e grinzosa.
Giuseppe Pennisi, Vice Presidente del Comitato Scientifico dell’O.S.E.C.O, è Professore emerito della SSPA; insegna attualmente economia internazionale e politica economica europea all’Università Europea ed all’Università di Malta.
Janáček’s The Cunning Little Vixen in Florence La Scena Musicale Nov 22
Janáček’s The Cunning Little Vixen in Florence
by Giuseppe Pennisi
Italians are not fond of fairy tales. There is very little Italian literature of that kind, even of high quality fantastic books and novels. The same applies to music theatre. Attempts to develop an Italian “Zauberoper” in the 19th and 20th Century were – by-and-large – doomed to fail. The Japanese, particularly love their fairy tales, with its long literary roots, plus a very rich musical theatre. Leóš Janáček’s The Cunning Little Vixen (Příhody Lišky Bystroušky), a fable set to musical theatre, lands in Florence in a new co-production with the Japanese Saito Kinen Festival, with Japanese conductor Seiji Ozawa as the musical director. Frenchman Laurent Pelly, a rising star of international theatre, is the stage director and the costume designer, whilst the set are entrusted to Barbara De Limburg Stirum. The Orchestra of the Maggio Musicale Fiorentino (one the best in Italy) and an international cast of 13 soloists – to cover nearly 25 different characters - complete the playbill.
On opening night (November 8, 2009), the fable enchanted, indeed enthralled, the Florentine audience and European critics reviewers. There was considerable interest in Seiji Ozawa, as he has reduced his conducting duties to a comparatively small number of fully staged operas every year. There was also interest in Laurent Pelly’s stage direction, especially after the semi-flop of his Traviata in Santa Fé and Turin – the entire plot was set in the Parisian Père-Lachaise grave yard. The Cunning Little Vixen has been seldom staged in Italy, even though in the last ten years the opera was seen at the Spoleto Festival, La Scala and La Fenice.
The opera was based on a novel published by installments on a Brnò’s daily paper, as a set of cartoons giving life to both human and animal characters. The cartoons compare and confront two different worlds: the gritty, petty and hypocritical lower middle class of a small town and the healthy and generous animals of a nearby woods. There, the animals – first of all the cunning little vixen – live in full freedom and nature regenerates itself. The action does not have a dramatic development (like Jenufa, Kat’ia or Makropoulos) but is made up of number of episodes welded into a coherent structure by the music – mostly by a continuous forest’s murmur. In the middle of the third act, the vixen is shot by the gamekeeper, but with a real coup de theatre, in the final scene of the opera she seems to appear again in full bloom and with her very cunning eyes. In short, the forces of nature are stronger that than of mankind; sensual and physical love are at the root of such a strength. An optimistic outcome of Janáček’s meditation on death and rebirth, which is the dominant theme of his three last operas. In his Janáček’s biography, his friend Adolf E. Vaseck recalls that, at the composer’s request, at his funeral service, the Orchestra of the Brnò National Opera played the end of The Cunning Little Vixen as an anthem to the eternity of nature.
Seiji Ozawa chooses the meditation on death and rebirth as the key element of his musical direction. His baton strikes the right balance between melancholic Slavic melody and Richard Strauss’s pagan and pantheistic symphonic approach. He also draws up front Debussy’s influence on The Cunning Little Vixen orchestration - Janáček knew both La Mer and Pelléas quite well. The Orchestra of the Maggio Musicale Fiorentino provided the right tinta in both the forest and the urban setting.
Pelly’s stage direction and costumes and Barbara De Limburg Stirum’s sets are visionnaire - viz a blown up vision of a naturalistic staging. The forest is lush and at the same time almost somber.
In the excellent international cast, two singers stand out: Isabel Bayrakdarian, the sexy and sensual cunning vixen, and Quinn Kelsey, the brash albeit reflective gamekeeper.
THE PLAYBILL
THE CUNNING LITTLE VIXEN
Leóš Janàček
text and music
Seiji Ozawa conductor
Laurent Pelly stage director and customs designer
Barbara de Limburg Stirum sets
Lionel Hoche choreography
Peter van Praet lighting
Quinn Kelsey
The Gamekeeper
Judith Christin
His Wife, The Owl
Dennis Petersen
The Schoolmaster,The Mosquito
Kevin Langan
The Priest, The Badger
Gustáv Belácek
Harašta, a tramp
Federico Lepre
Pásek, The Innkeeper
Marcella Polidori
Páskova, His Wife
Isabel Bayrakdarian
Bystrouška, the Cunning Little Vixen
Lauren Curnow
The Fox
Eleonora Bravi
Bystrouška as a Child
Elena Mascii
Frantík
Riccardo Zurlo
Pepík
Marie Lenormand
Lapák, the Dog
Mayumi Kuroki
The Cock
Gregorio Spotti
The Grasshopper
The Hen
Elena Cavini
Gabriella Cecchi
Laura Lensi
Delia Palmieri
Sarina Rausa
Maria Rosaria Rossini
Maria Livia Sponton
Nadia Sturlese
The other animals of the wood
Carlotta Favino
Elena Mascii
Eleonora Bravi
Alessia Marchiani
Riccardo Zurlo
Pietro Achatz Antonelli
The little foxes
Leone Barilli
Paola Fazioli
Kristina Grigorova
Margherita Mana
Gaia Mazzeranghi
Christine Vezzani
Judith Vincent
Paolo Arcangeli
Michelangelo Chelucci
Cristiano Colangelo
Antonio Guadagno
Zhani Lukaj
Pierangelo Preziosa
Orchestra and Chorus of the Maggio
Musicale Fiorentino
Piero Monti Chorusmaster
Soloists of MaggioDanza
The Children Chorus of Florencee
Marisol Carballo Chorusmaster
by Giuseppe Pennisi
Italians are not fond of fairy tales. There is very little Italian literature of that kind, even of high quality fantastic books and novels. The same applies to music theatre. Attempts to develop an Italian “Zauberoper” in the 19th and 20th Century were – by-and-large – doomed to fail. The Japanese, particularly love their fairy tales, with its long literary roots, plus a very rich musical theatre. Leóš Janáček’s The Cunning Little Vixen (Příhody Lišky Bystroušky), a fable set to musical theatre, lands in Florence in a new co-production with the Japanese Saito Kinen Festival, with Japanese conductor Seiji Ozawa as the musical director. Frenchman Laurent Pelly, a rising star of international theatre, is the stage director and the costume designer, whilst the set are entrusted to Barbara De Limburg Stirum. The Orchestra of the Maggio Musicale Fiorentino (one the best in Italy) and an international cast of 13 soloists – to cover nearly 25 different characters - complete the playbill.
On opening night (November 8, 2009), the fable enchanted, indeed enthralled, the Florentine audience and European critics reviewers. There was considerable interest in Seiji Ozawa, as he has reduced his conducting duties to a comparatively small number of fully staged operas every year. There was also interest in Laurent Pelly’s stage direction, especially after the semi-flop of his Traviata in Santa Fé and Turin – the entire plot was set in the Parisian Père-Lachaise grave yard. The Cunning Little Vixen has been seldom staged in Italy, even though in the last ten years the opera was seen at the Spoleto Festival, La Scala and La Fenice.
The opera was based on a novel published by installments on a Brnò’s daily paper, as a set of cartoons giving life to both human and animal characters. The cartoons compare and confront two different worlds: the gritty, petty and hypocritical lower middle class of a small town and the healthy and generous animals of a nearby woods. There, the animals – first of all the cunning little vixen – live in full freedom and nature regenerates itself. The action does not have a dramatic development (like Jenufa, Kat’ia or Makropoulos) but is made up of number of episodes welded into a coherent structure by the music – mostly by a continuous forest’s murmur. In the middle of the third act, the vixen is shot by the gamekeeper, but with a real coup de theatre, in the final scene of the opera she seems to appear again in full bloom and with her very cunning eyes. In short, the forces of nature are stronger that than of mankind; sensual and physical love are at the root of such a strength. An optimistic outcome of Janáček’s meditation on death and rebirth, which is the dominant theme of his three last operas. In his Janáček’s biography, his friend Adolf E. Vaseck recalls that, at the composer’s request, at his funeral service, the Orchestra of the Brnò National Opera played the end of The Cunning Little Vixen as an anthem to the eternity of nature.
Seiji Ozawa chooses the meditation on death and rebirth as the key element of his musical direction. His baton strikes the right balance between melancholic Slavic melody and Richard Strauss’s pagan and pantheistic symphonic approach. He also draws up front Debussy’s influence on The Cunning Little Vixen orchestration - Janáček knew both La Mer and Pelléas quite well. The Orchestra of the Maggio Musicale Fiorentino provided the right tinta in both the forest and the urban setting.
Pelly’s stage direction and costumes and Barbara De Limburg Stirum’s sets are visionnaire - viz a blown up vision of a naturalistic staging. The forest is lush and at the same time almost somber.
In the excellent international cast, two singers stand out: Isabel Bayrakdarian, the sexy and sensual cunning vixen, and Quinn Kelsey, the brash albeit reflective gamekeeper.
THE PLAYBILL
THE CUNNING LITTLE VIXEN
Leóš Janàček
text and music
Seiji Ozawa conductor
Laurent Pelly stage director and customs designer
Barbara de Limburg Stirum sets
Lionel Hoche choreography
Peter van Praet lighting
Quinn Kelsey
The Gamekeeper
Judith Christin
His Wife, The Owl
Dennis Petersen
The Schoolmaster,The Mosquito
Kevin Langan
The Priest, The Badger
Gustáv Belácek
Harašta, a tramp
Federico Lepre
Pásek, The Innkeeper
Marcella Polidori
Páskova, His Wife
Isabel Bayrakdarian
Bystrouška, the Cunning Little Vixen
Lauren Curnow
The Fox
Eleonora Bravi
Bystrouška as a Child
Elena Mascii
Frantík
Riccardo Zurlo
Pepík
Marie Lenormand
Lapák, the Dog
Mayumi Kuroki
The Cock
Gregorio Spotti
The Grasshopper
The Hen
Elena Cavini
Gabriella Cecchi
Laura Lensi
Delia Palmieri
Sarina Rausa
Maria Rosaria Rossini
Maria Livia Sponton
Nadia Sturlese
The other animals of the wood
Carlotta Favino
Elena Mascii
Eleonora Bravi
Alessia Marchiani
Riccardo Zurlo
Pietro Achatz Antonelli
The little foxes
Leone Barilli
Paola Fazioli
Kristina Grigorova
Margherita Mana
Gaia Mazzeranghi
Christine Vezzani
Judith Vincent
Paolo Arcangeli
Michelangelo Chelucci
Cristiano Colangelo
Antonio Guadagno
Zhani Lukaj
Pierangelo Preziosa
Orchestra and Chorus of the Maggio
Musicale Fiorentino
Piero Monti Chorusmaster
Soloists of MaggioDanza
The Children Chorus of Florencee
Marisol Carballo Chorusmaster
venerdì 20 novembre 2009
Musica contemporanea, a Roma il Festival di Nuova Consonanza Il Velino 20 Novembre
Musica contemporanea, a Roma il Festival di Nuova Consonanza
Roma, 20 nov (Velino) - Con il 46esimo Festival di Nuova Consonanza si chiude il 2009 di musica colta contemporanea a Roma. La Capitale, nell’anno che sta per terminare, ha dedicato a questo genere artistico più ore di Berlino e adesso assieme a Parigi rappresentano le tre capitali europee del pentagramma contemporaneo e della sperimentazione. L’Accademia di Francia ha ospitato l’inaugurazione, mercoledì scorso, omaggiando Gérard Grisey a dieci anni dalla scomparsa, con il duo Claude Delangle al sassofono, e suo figlio Rémi Delangle, al clarinetto. Il concerto è stato il primo dei dieci appuntamenti che compongono la nuova edizione dello storico festival romano, quest’anno incentrato sul tema “La musica da vedere”. Divisa in due parti, la manifestazione, che si avvale del contributo e del sostegno del ministero per i Beni e le attività Culturali - Direzione Generale dello Spettacolo dal vivo, e del Comune di Roma - assessorato alle Politiche culturali, presenta una prima serie di concerti fino al 2 dicembre dedicati al rapporto fra musica e nuove tecnologie; la seconda parte, dal 9 al 21 dicembre giorno della conclusione del Festival, indagherà le possibili relazioni della musica con altri linguaggi. Come in ogni edizione, all’interno dell’evento sarà ospitata la finale del concorso di composizione “Franco Evangelisti”, che per il 2009 accoglierà le partiture per voce ed elettronica e un workshop di composizione che quest’anno è affidato a Salvatore Sciarrino. Sarà proprio Sciarrino a chiudere il Festival con un “Portrait” nel quale si eseguiranno suoi lavori dal 1975 ad oggi, con una prima esecuzione assoluta per voce e strumenti dal titolo “L’Altro Giardino”.
Appuntamento atteso e sempre molto seguito da qualche edizione a questa parte, è la Festa d’autunno, una vera e propria maratona musicale a Villa Aurelia, bellissima sede dell’American Academy of Rome, che la ospiterà domani dalle 16,30 alle 23. Titolo della giornata “Crossing sounds”. Si aprirà con “Multipla” di Ennio Morricone e proseguirà con una serie di concerti, presentazioni di libri, esposizione dell’archivio storico di Nuova Consonanza nelle diverse sale della villa e del giardino dell’Accademia. Ci sarà anche un omaggio alle poesie di Mirella Thau Coen ispirate a Morricone, Petrassi, Scelsi, Bortolotti e Guaccero. Il concerto serale ospiterà “Performing sounds” con la prima italiana, dopo il debutto londinese, dello spettacolo audio-visuale “Lucrezio” ispirato al De Rerum Naturae. Da sottolineare la partecipazione straordinaria del newyorkese Don Byron, uno dei maggiori clarinettisti e sassofonisti contemporanei, ospite dell’American Academy in quanto vincitore del prestigioso “Samuel Barber Rome Prize for Composition”. I due appuntamenti successivi del Festival di Nuova Consonanza sono dedicati alla musica e all’elettronica: mercoledì 25 novembre alle ore 21 alla Sala Casella (via Flaminia 118) è la volta di “Electroshop”, da un’idea di Anna Troisi e Antonino Chiaramonte prodotto in collaborazione con la University of Plymouth (Gran Bretagna). L’altro evento si terrà il 2 dicembre, sempre alla Sala Casella, con il titolo “Pianoforte & Electronics” della pianista argentina Nora Garcia e la regia del suono di Gustavo Adolfo Del Gado.
La seconda parte del Festival di Nuova Consonanza, dal 9 al 21 dicembre, si compone di sei concerti volti a indagare le possibili relazioni della musica con altri linguaggi. Una novità per la manifestazione è il teatro musicale da camera contemporaneo con due omaggi a Pier Paolo Pasolini (“Dicevo di te Pier Paolo” e “La mia Eternità”) su testi di Elsa De Giorgi, musica di Enrico Marocchini e “Ormond Brasil 10” tratto da “Der Tunnel” di Friedrich Dürrematt, musica di Fabio Cifariello Ciardi. Altro appuntamento di rilievo “Animali e Bestie” con Anna Proclemer, sul palco insieme al pianista Antonio Sardi de Letto e la musica di Fabrizio de Rossi Re. Inoltre, El Cimarron Ensemble interpreterà “Memoirs of Elagabalus” opera in un atto e cinque scene con la musica di Stefano Taglietti. Nella seconda parte della serata, “Storia di Giona” per baritono-basso, flauto, chitarra e percussione, ultimo lavoro di Luca Lombardi compositore romano dal linguaggio musicale fortemente connotato e completamente immerso nella contemporaneità. “Storia di Giona” debutterà in prima assoluta ad Hallein (Salisburgo) il prossimo 8 dicembre e sarà presentata subito dopo da Nuova Consonanza in prima rappresentazione italiana. Il rapporto fra suono e immagine sarà infine il tema di un “Viaggio con foto - Suoni romani” del Duo Alterno (Tiziana Scaldaletti soprano e Riccardo Piacentini pianoforte) dove alcune “fotografie sonore” ci restituiscono il paesaggio sonoro di Roma.
(Hans Sachs) 20 nov 2009
Roma, 20 nov (Velino) - Con il 46esimo Festival di Nuova Consonanza si chiude il 2009 di musica colta contemporanea a Roma. La Capitale, nell’anno che sta per terminare, ha dedicato a questo genere artistico più ore di Berlino e adesso assieme a Parigi rappresentano le tre capitali europee del pentagramma contemporaneo e della sperimentazione. L’Accademia di Francia ha ospitato l’inaugurazione, mercoledì scorso, omaggiando Gérard Grisey a dieci anni dalla scomparsa, con il duo Claude Delangle al sassofono, e suo figlio Rémi Delangle, al clarinetto. Il concerto è stato il primo dei dieci appuntamenti che compongono la nuova edizione dello storico festival romano, quest’anno incentrato sul tema “La musica da vedere”. Divisa in due parti, la manifestazione, che si avvale del contributo e del sostegno del ministero per i Beni e le attività Culturali - Direzione Generale dello Spettacolo dal vivo, e del Comune di Roma - assessorato alle Politiche culturali, presenta una prima serie di concerti fino al 2 dicembre dedicati al rapporto fra musica e nuove tecnologie; la seconda parte, dal 9 al 21 dicembre giorno della conclusione del Festival, indagherà le possibili relazioni della musica con altri linguaggi. Come in ogni edizione, all’interno dell’evento sarà ospitata la finale del concorso di composizione “Franco Evangelisti”, che per il 2009 accoglierà le partiture per voce ed elettronica e un workshop di composizione che quest’anno è affidato a Salvatore Sciarrino. Sarà proprio Sciarrino a chiudere il Festival con un “Portrait” nel quale si eseguiranno suoi lavori dal 1975 ad oggi, con una prima esecuzione assoluta per voce e strumenti dal titolo “L’Altro Giardino”.
Appuntamento atteso e sempre molto seguito da qualche edizione a questa parte, è la Festa d’autunno, una vera e propria maratona musicale a Villa Aurelia, bellissima sede dell’American Academy of Rome, che la ospiterà domani dalle 16,30 alle 23. Titolo della giornata “Crossing sounds”. Si aprirà con “Multipla” di Ennio Morricone e proseguirà con una serie di concerti, presentazioni di libri, esposizione dell’archivio storico di Nuova Consonanza nelle diverse sale della villa e del giardino dell’Accademia. Ci sarà anche un omaggio alle poesie di Mirella Thau Coen ispirate a Morricone, Petrassi, Scelsi, Bortolotti e Guaccero. Il concerto serale ospiterà “Performing sounds” con la prima italiana, dopo il debutto londinese, dello spettacolo audio-visuale “Lucrezio” ispirato al De Rerum Naturae. Da sottolineare la partecipazione straordinaria del newyorkese Don Byron, uno dei maggiori clarinettisti e sassofonisti contemporanei, ospite dell’American Academy in quanto vincitore del prestigioso “Samuel Barber Rome Prize for Composition”. I due appuntamenti successivi del Festival di Nuova Consonanza sono dedicati alla musica e all’elettronica: mercoledì 25 novembre alle ore 21 alla Sala Casella (via Flaminia 118) è la volta di “Electroshop”, da un’idea di Anna Troisi e Antonino Chiaramonte prodotto in collaborazione con la University of Plymouth (Gran Bretagna). L’altro evento si terrà il 2 dicembre, sempre alla Sala Casella, con il titolo “Pianoforte & Electronics” della pianista argentina Nora Garcia e la regia del suono di Gustavo Adolfo Del Gado.
La seconda parte del Festival di Nuova Consonanza, dal 9 al 21 dicembre, si compone di sei concerti volti a indagare le possibili relazioni della musica con altri linguaggi. Una novità per la manifestazione è il teatro musicale da camera contemporaneo con due omaggi a Pier Paolo Pasolini (“Dicevo di te Pier Paolo” e “La mia Eternità”) su testi di Elsa De Giorgi, musica di Enrico Marocchini e “Ormond Brasil 10” tratto da “Der Tunnel” di Friedrich Dürrematt, musica di Fabio Cifariello Ciardi. Altro appuntamento di rilievo “Animali e Bestie” con Anna Proclemer, sul palco insieme al pianista Antonio Sardi de Letto e la musica di Fabrizio de Rossi Re. Inoltre, El Cimarron Ensemble interpreterà “Memoirs of Elagabalus” opera in un atto e cinque scene con la musica di Stefano Taglietti. Nella seconda parte della serata, “Storia di Giona” per baritono-basso, flauto, chitarra e percussione, ultimo lavoro di Luca Lombardi compositore romano dal linguaggio musicale fortemente connotato e completamente immerso nella contemporaneità. “Storia di Giona” debutterà in prima assoluta ad Hallein (Salisburgo) il prossimo 8 dicembre e sarà presentata subito dopo da Nuova Consonanza in prima rappresentazione italiana. Il rapporto fra suono e immagine sarà infine il tema di un “Viaggio con foto - Suoni romani” del Duo Alterno (Tiziana Scaldaletti soprano e Riccardo Piacentini pianoforte) dove alcune “fotografie sonore” ci restituiscono il paesaggio sonoro di Roma.
(Hans Sachs) 20 nov 2009
E' allarme debito e lavoro. La ripresa c'è ma bisogna accelerarla, L'Occidentale 20 novembre
Gli ultimi dati dell’Ocse e dei 20 centri internazionali di analisi econometrica -tutti privati, nessuno italiano, colloquialmente chiamati “il gruppo del consensus”- forniscono un quadro poco entusiasmante della ripresa di cui si vedono i primi spiragli.
Specialmente preoccupanti le previsioni Ocse:” la disoccupazione italiana salirà all'8,5% nel 2010 e all'8,7% nel 2011; il Pil italiano calera' del 4,8% quest'anno per poi tornare a crescere dell'1,1% il prossimo e dell'1,5% nel 2011; l'attività ha ripreso nel terzo trimestre, con il miglioramento delle condizioni finanziarie che ha ''aiutato a ricostituire la fiducia e spingere la domanda interna', ma ''sia il timing sia la forza della ripresa sono incerte''; salirà il debito pubblico italiano che nel 2011 sarà' al 120% con un deficit che resterà sopra il 5%.
In sintesi, secondo Château de la Muette (l’elegante sede parigina dell’Ocse), "sforzi significativi di consolidamento fiscale saranno dunque necessari (all’Italia) dal 2011 in poi, quando la crescita riprenderà'''. Più ottimistiche, almeno ad una prima lettura, la analisi del “consensus”. La nota riassuntiva precisa che “la recessione nell’area dell’euro è terminata poiché nei tre mesi conclusisi il 30 settembre, Il Pil della zona è aumentato dell0 0,4%”. “La crescita è stata sostenuta soprattutto in Germania (0,7%), ma anche Francia ed Italia hanno fatto la loro parte, con una crescita rispettivamente dello 0,3% e dello 0,6%, mentre le economia di Spagna e Grecia hanno continuato a contrarsi”. Una lettura attenta dei dati – i 20 modelli econometrici sono tutti della famiglia dello strumento neo-keynesiano sviluppato dal Premio Nobel Lawrence Klein, anche se hanno specifiche differenti l’uno dall’altro- non induce certo a stare allegri. Per l’Italia prevedono mediamente una crescita dello 0,8% rispetto all’1,2% della media dell’area dell’euro ed un aumento di coloro che cercano lavoro senza trovarlo analogo a quanto profetizzato a Château de la Muette.
Questo contesto generale suggerisce che la priorità del Governo e del Parlamento deve essere l’accelerazione della ripresa - obiettivo sul quale dovrebbero convergere le differenti “scuole di pensiero” (un tempo le si chiamava “anime” ) di cui è composta la maggioranza. Il nodo è come farlo, tenendo presente che la politica della moneta è ormai competenza del Sistema europeo di banche centrali (Sebc) guidato dalla Banca centrale europea (Bce) e che la finanza pubblica deve essere orientata a tornare a rispettare il “patto di crescita e stabilità”.
In primo luogo, occorre notare che, a ragione della recessione mondiale, 20 dei 27 Paesi dell’Ue e quasi tutti i Paesi dell’area dell’euro sono al di fuori dei limiti posti dal “patto”, specialmente in tema di indebitamento netto della Pa. Oggi, neanche gli interpreti più rigorosi dei trattati si sentono vincolati al “patto” (si veda la politica espansionista della Germania). Al tempo stesso, però, occorre rientrare con prudenza nei binari poiché ne va della credibilità dell’unione monetaria. Le stime Ocse e “consensus” pongono al 5% il rapporto tra indebitamento netto della Pa e Pil in Italia (invece del 3% posto come limite massimo dal “patto”).
E’ auspicabile non solo che il tetto non venga ulteriormente superato ma si rientri nell’alveo. Ciò comporta un interrogativo: ove si volesse o dovesse agire ulteriormente sulla politica di bilancio è preferibile aumentare la spesa o ridurre la pressione tributaria? Alberto Alesina e Silvia Ardagna hanno diramato in questi giorni a Harvard un paper (l’Harvard Institute of Economics Research Paper N. 2180) – in corso di pubblicazione – in cui si passano in rassegna una cinquantina di episodi di politica di accelerazione della crescita nei Paesi Ocse tra il 1970 ed il 2007: la riduzione del carico fiscale risulta più efficiente e più efficace dell’incremento della spesa pubblica. E’ un’indicazione chiara per Governo e Parlamento.
C’è anche spazio, però, per misure che non riguardano i conti pubblici. Alcuni mesi fa un lavoro econometrico del servizio studi della Bce avvertiva che le liberalizzazioni dei servizi potrebbero portare in Italia ad un aumento del Pil dell’11% su cinque anni di cui almeno la metà nei primi tre anni. Il 19 novembre il CEPR ha diramato uno studio condotto da una squadra di economisti italiani (il Discussion Paper N. 7470) da cui si evince che una più marcata azione antitrust nei confronti di posizioni dominanti grandi e piccole – la base empirica dell’analisi sono 22 comparti in 12 Paesi Ocse - darebbe un impulso alla produttività totale dei fattori di produzione e, quindi, alla crescita. Un invito questo alle varie autorità di settore, specialmente pregnante in momento in cui si discute sul futuro della rete di telecomunicazioni.
Specialmente preoccupanti le previsioni Ocse:” la disoccupazione italiana salirà all'8,5% nel 2010 e all'8,7% nel 2011; il Pil italiano calera' del 4,8% quest'anno per poi tornare a crescere dell'1,1% il prossimo e dell'1,5% nel 2011; l'attività ha ripreso nel terzo trimestre, con il miglioramento delle condizioni finanziarie che ha ''aiutato a ricostituire la fiducia e spingere la domanda interna', ma ''sia il timing sia la forza della ripresa sono incerte''; salirà il debito pubblico italiano che nel 2011 sarà' al 120% con un deficit che resterà sopra il 5%.
In sintesi, secondo Château de la Muette (l’elegante sede parigina dell’Ocse), "sforzi significativi di consolidamento fiscale saranno dunque necessari (all’Italia) dal 2011 in poi, quando la crescita riprenderà'''. Più ottimistiche, almeno ad una prima lettura, la analisi del “consensus”. La nota riassuntiva precisa che “la recessione nell’area dell’euro è terminata poiché nei tre mesi conclusisi il 30 settembre, Il Pil della zona è aumentato dell0 0,4%”. “La crescita è stata sostenuta soprattutto in Germania (0,7%), ma anche Francia ed Italia hanno fatto la loro parte, con una crescita rispettivamente dello 0,3% e dello 0,6%, mentre le economia di Spagna e Grecia hanno continuato a contrarsi”. Una lettura attenta dei dati – i 20 modelli econometrici sono tutti della famiglia dello strumento neo-keynesiano sviluppato dal Premio Nobel Lawrence Klein, anche se hanno specifiche differenti l’uno dall’altro- non induce certo a stare allegri. Per l’Italia prevedono mediamente una crescita dello 0,8% rispetto all’1,2% della media dell’area dell’euro ed un aumento di coloro che cercano lavoro senza trovarlo analogo a quanto profetizzato a Château de la Muette.
Questo contesto generale suggerisce che la priorità del Governo e del Parlamento deve essere l’accelerazione della ripresa - obiettivo sul quale dovrebbero convergere le differenti “scuole di pensiero” (un tempo le si chiamava “anime” ) di cui è composta la maggioranza. Il nodo è come farlo, tenendo presente che la politica della moneta è ormai competenza del Sistema europeo di banche centrali (Sebc) guidato dalla Banca centrale europea (Bce) e che la finanza pubblica deve essere orientata a tornare a rispettare il “patto di crescita e stabilità”.
In primo luogo, occorre notare che, a ragione della recessione mondiale, 20 dei 27 Paesi dell’Ue e quasi tutti i Paesi dell’area dell’euro sono al di fuori dei limiti posti dal “patto”, specialmente in tema di indebitamento netto della Pa. Oggi, neanche gli interpreti più rigorosi dei trattati si sentono vincolati al “patto” (si veda la politica espansionista della Germania). Al tempo stesso, però, occorre rientrare con prudenza nei binari poiché ne va della credibilità dell’unione monetaria. Le stime Ocse e “consensus” pongono al 5% il rapporto tra indebitamento netto della Pa e Pil in Italia (invece del 3% posto come limite massimo dal “patto”).
E’ auspicabile non solo che il tetto non venga ulteriormente superato ma si rientri nell’alveo. Ciò comporta un interrogativo: ove si volesse o dovesse agire ulteriormente sulla politica di bilancio è preferibile aumentare la spesa o ridurre la pressione tributaria? Alberto Alesina e Silvia Ardagna hanno diramato in questi giorni a Harvard un paper (l’Harvard Institute of Economics Research Paper N. 2180) – in corso di pubblicazione – in cui si passano in rassegna una cinquantina di episodi di politica di accelerazione della crescita nei Paesi Ocse tra il 1970 ed il 2007: la riduzione del carico fiscale risulta più efficiente e più efficace dell’incremento della spesa pubblica. E’ un’indicazione chiara per Governo e Parlamento.
C’è anche spazio, però, per misure che non riguardano i conti pubblici. Alcuni mesi fa un lavoro econometrico del servizio studi della Bce avvertiva che le liberalizzazioni dei servizi potrebbero portare in Italia ad un aumento del Pil dell’11% su cinque anni di cui almeno la metà nei primi tre anni. Il 19 novembre il CEPR ha diramato uno studio condotto da una squadra di economisti italiani (il Discussion Paper N. 7470) da cui si evince che una più marcata azione antitrust nei confronti di posizioni dominanti grandi e piccole – la base empirica dell’analisi sono 22 comparti in 12 Paesi Ocse - darebbe un impulso alla produttività totale dei fattori di produzione e, quindi, alla crescita. Un invito questo alle varie autorità di settore, specialmente pregnante in momento in cui si discute sul futuro della rete di telecomunicazioni.
mercoledì 18 novembre 2009
Come i russi vedono la crisi finanziaria II Il Velino 18 novembre
Electronic copy available at: http://ssrn.com/abstract=1503579
Financial crisis of 2008-2009 and
other financial crises: how to cope
with them?
Andrey Artemenkov,
Member of the Standards and Methodology Committee
at RF National Valuation Council,
Senior Economist, The Russian Society of Appraisers
artemenkov@rambler.ru
http://ssrn.com/author=806294
Department of Economic Measurements,
The State University of Management
April 2009
Financial crisis of 2008-2009 and
other financial crises: how to cope
with them?
Andrey Artemenkov,
Member of the Standards and Methodology Committee
at RF National Valuation Council,
Senior Economist, The Russian Society of Appraisers
artemenkov@rambler.ru
http://ssrn.com/author=806294
Department of Economic Measurements,
The State University of Management
April 2009
Come i russi vedono la crisi finanziaria Il Velino 18 novembre
Roma, 18 nov (Velino) - Sulla stampa italiana, ed internazionale, pochi anzi pochissimi si sono interessati a come i russi vedono la crisi finanziaria e le possibili exit strategy. È un errore poiché, a mio avviso, la Federazione Russa rappresenta, con l’Italia, la Francia, la Germania, l’Egitto e la Turchia l’Esagono che, dopo il superamento della crisi, potrà essere il fulcro della crescita in Europa e nel Bacino del Mediterraneo. Per questo motivo mi sono rivolto al mio collega ed amico Andrei Igorrevitch, Artemenko, titolare della cattedra di politica economica e finanziaria alla Scuola superiore della pubblica amministrazione della Federazione, per saperne di più. Artemenko mi ha inviato le dispositive che utilizza per insegnare la tematica ai dirigenti dell’amministrazione centrale – quelli maggiormente in contatto sia con gli argomenti del caso sia con le loro controparti europee ed americane.
Mi è parso utile, in questa rubrica, non dare la mia opinione personale ma riassumere la diapositive di Artemenko, il quale parte dall’assunto che la crisi finanziaria non è la determinante di quella dell’economia reale ma, al contrario, la finanza è saltata a ragione della contrazione delle attività reali. Le sfasature tra economia reale ed economia finanziaria derivano dal fatto che mentre la prima ha le caratteristiche cicliche analizzati da Keynes - ed approfondite da Minski (più volte citato da Artemenko) -, la seconda comporta l’espansione del credito totale interno ad interesse composto - a ritmi superiori in ogni caso rispetto a quelli dell’economia reale, specialmente in fase di recessione. Nonostante la sfasatura tra economia reale ed economia finanziaria ci sono periodi anche lunghi di calma relativa - quelli caratterizzati dalla “grande moderazione” di Minski- ma il giorno della resa dei conti non può essere posposto indefinitivamente. Il sottosistema monetario finisce, per auto sostenersi, nell’area dell’economia “virtuale” (la Borsa), che – avverte Artemenko – i proponenti della teoria dell’efficienza dei mercati finanziari considerano uno specchio fedele dell’economia reale. “Ne è, invece, un miraggio ingannatore” e “uno strumento per gonfiare rendimenti di breve periodo”, mentre nel lungo periodo crea inflazione non produzione reale di beni e servizi e la associa a scarsa utilizzazione delle risorse, quindi a disoccupazione. A questo punto, “una manovra keynesiana impostata e gestita con acume” è l’unico rimedio per rimettere in moto il sistema.
Ciò non è, però, sufficiente. Una discrepanza analoga si ha tra economia monetaria e consumi, come dimostrato dall’espansione di credito al consumo, anche nei confronti di soggetti non in grado di fare fronte ad ammortamenti ed interessi. Per controbatterla, occorrono misure keynesiane rivolte direttamente ai consumatori, coniugate con controlli sui prezzi del tipo di quelli più volte proposti da Galbraith. “In questo contesto è da considerarsi positivamente il rilancio del piano di Chicago per la riforma del sistema monetario internazionale” - di tassi di cambio che rispecchino le parità interne di potere d’acquisto e di una moneta internazionale (come il Bancor di keynesiana memoria).
In breve, il settore monetario e il settore dell’economia dovrebbero essere gestiti in modo da evitare persistenti disparità tra i due. Il settore monetario, inoltre, dovrebbe essere “servente” di quello reale e “dovrebbe, democraticamente, rendere conto alle esigenze dell’economia reale, della produzione e dell’occupazione”. I vincoli allo sviluppo dovrebbero essere le risorse reali ed umane, non la situazione monetaria. “In questo contesto aver passato il testimone dal G7 al G20 è un segnale positivo a ragione della maggiore attenzione all’economia reale da parte di molti Paesi del G20 sino ad ora esclusi dal G7”.
Queste idee sono meno confuse di quel che sembrano. C’è una buona dose di interventismo pubblico (keynesianismo, temperato da controlli sui prezzi) unito a nostalgie di un’economia monetaria internazionale agganciata a materie prime o a beni preziosi come l’oro. Nonché una dose di sfiducia nei confronti di banche centrali, rating agenzie e finanza in generale. Un mondo, quindi, distante da quello che ci circonda. Dato che è ciò che viene insegnato ai dirigenti russi, è bene esserne consapevoli.
(Giuseppe Pennisi) 18 nov 2009 11:11
• La Russia e la crisi, le dipositive di Artemenko
Mi è parso utile, in questa rubrica, non dare la mia opinione personale ma riassumere la diapositive di Artemenko, il quale parte dall’assunto che la crisi finanziaria non è la determinante di quella dell’economia reale ma, al contrario, la finanza è saltata a ragione della contrazione delle attività reali. Le sfasature tra economia reale ed economia finanziaria derivano dal fatto che mentre la prima ha le caratteristiche cicliche analizzati da Keynes - ed approfondite da Minski (più volte citato da Artemenko) -, la seconda comporta l’espansione del credito totale interno ad interesse composto - a ritmi superiori in ogni caso rispetto a quelli dell’economia reale, specialmente in fase di recessione. Nonostante la sfasatura tra economia reale ed economia finanziaria ci sono periodi anche lunghi di calma relativa - quelli caratterizzati dalla “grande moderazione” di Minski- ma il giorno della resa dei conti non può essere posposto indefinitivamente. Il sottosistema monetario finisce, per auto sostenersi, nell’area dell’economia “virtuale” (la Borsa), che – avverte Artemenko – i proponenti della teoria dell’efficienza dei mercati finanziari considerano uno specchio fedele dell’economia reale. “Ne è, invece, un miraggio ingannatore” e “uno strumento per gonfiare rendimenti di breve periodo”, mentre nel lungo periodo crea inflazione non produzione reale di beni e servizi e la associa a scarsa utilizzazione delle risorse, quindi a disoccupazione. A questo punto, “una manovra keynesiana impostata e gestita con acume” è l’unico rimedio per rimettere in moto il sistema.
Ciò non è, però, sufficiente. Una discrepanza analoga si ha tra economia monetaria e consumi, come dimostrato dall’espansione di credito al consumo, anche nei confronti di soggetti non in grado di fare fronte ad ammortamenti ed interessi. Per controbatterla, occorrono misure keynesiane rivolte direttamente ai consumatori, coniugate con controlli sui prezzi del tipo di quelli più volte proposti da Galbraith. “In questo contesto è da considerarsi positivamente il rilancio del piano di Chicago per la riforma del sistema monetario internazionale” - di tassi di cambio che rispecchino le parità interne di potere d’acquisto e di una moneta internazionale (come il Bancor di keynesiana memoria).
In breve, il settore monetario e il settore dell’economia dovrebbero essere gestiti in modo da evitare persistenti disparità tra i due. Il settore monetario, inoltre, dovrebbe essere “servente” di quello reale e “dovrebbe, democraticamente, rendere conto alle esigenze dell’economia reale, della produzione e dell’occupazione”. I vincoli allo sviluppo dovrebbero essere le risorse reali ed umane, non la situazione monetaria. “In questo contesto aver passato il testimone dal G7 al G20 è un segnale positivo a ragione della maggiore attenzione all’economia reale da parte di molti Paesi del G20 sino ad ora esclusi dal G7”.
Queste idee sono meno confuse di quel che sembrano. C’è una buona dose di interventismo pubblico (keynesianismo, temperato da controlli sui prezzi) unito a nostalgie di un’economia monetaria internazionale agganciata a materie prime o a beni preziosi come l’oro. Nonché una dose di sfiducia nei confronti di banche centrali, rating agenzie e finanza in generale. Un mondo, quindi, distante da quello che ci circonda. Dato che è ciò che viene insegnato ai dirigenti russi, è bene esserne consapevoli.
(Giuseppe Pennisi) 18 nov 2009 11:11
• La Russia e la crisi, le dipositive di Artemenko
LA SCENA DRITTA Il Foglio 18 novembre
Le polemiche sul Fondo Unico per lo Spettacolo (Fus) , di cui alla lettera del Ministro Sando Bondi a “Il Foglio” del 13 novembre, devono essere poste nel contesto appropriato. Non solamente il Paese sta cominciando ad intravedere l’uscita da una gravissima crisi economica, ma l’amministrazione dei beni culturali ha una capacità di spesa limitata. Pure nel campo dominato dalla musa più bizzarra e più altera, e quindi, più costosa (così un musicologo tedesco definì la lirica) nella stessa Italia degli sprechi non mancano esempi virtuosi.
Lasciamo ad altra sede l’analisi dei “barlumi” di ripresa e, quindi, di aumento delle entrate (con conseguente possibilità di incremento della spesa pubblica, la cui voce principale – le pensioni – sta viaggiando verso il 18-20 percento del Pil, togliendo spazio ad altri campi d’intervento). Pur ipotizzando che le risorse siano disponibili, negli ultimi 15 anni (quale che fosse il Ministro ed il Governo), la capacità di spesa del Ministro dei Beni Culturali ha raramente superato la metà delle disponibilità. Nonostante lo scorso maggio, il Consiglio Superiore per i Beni Culturali abbia espresso una raccomandazione unanime sulle misure da adottare per aumentarla, i dati dell’ultimo rendiconto suggeriscono che alla fine del 2009 i resti effettivi di cassa supereranno il 55% delle disponibilità. Il Tesoro sarà tormentato dal dubbio se prevedere uno stanziamento qualsiasi per il 2010. Il nodo è amministrativo, anche in base alle “leggi Bassanini” degli Anni 90. Aumentare la capacità di spesa è pure essenziale allo scopo d’ invogliare i privati a fornire contributi liberali: un’apposita commissione ha formulato proposte a metà gennaio 2008.
Veniamo adesso agli esempi “virtuosi” nel campo della musa che assorbe oltre la metà del Fus. Una rappresentazione lirica in Italia (artisti, masse orchestrali e corali , amministrazione) ha un costo pari al 170% della media di quella che era l’Ue a 15 – si andrebbe ad oltre il 250% rispetto l’Ue a 27. E’ la punta di un iceberg che dovrebbe fare riflettere chi ha avuto responsabilità nel settore.
A fronte di questo iceberg dovrebbero spiccare ancora di più i teatri nazionali che, dopo grandi crisi (ad esempio, La Scala, il Massimo di Palermo, il Lirico di Cagliari, - l’elenco non ha la pretesa di essere esaustivo), sono riusciti a presentarsi per anni consecutivi con conti in ordine, con produzioni di qualità, con aumento del pubblico anche straniero, con masse artistiche motivate e disciplinate. Dovrebbero fare riflettere le “buone prassi” attuate da circuiti regionali per co-produrre (tra loro ed anche con teatri esteri), per valorizzare giovani talenti (non solo nostrani), per contenere i cachet (che in Italia raggiungono il triplo di quelli praticati a Vienna e Monaco ed i quadruplo di quelli del Metropolitan di New York). Ai circuiti “toscano”, “emiliano” e “lombardo”, si è aggiunto di recente un circuito “veneto” (Padova, Bassano, Rovigo) che con regie innovative e scoperte di artisti (quali la giovanissima, bellissima e bravissima Kristin Lewis del lontano Kansas). Meritevoli pure i tentativi della Fondazione Pergolesi-Spontini a Jesi (bilanci sempre in pareggio o in attivo) di attivare un circuito analogo nelle Marche; hanno avuto risultati incompleti (a ragione di localismi) ma è in queste settimane in giro (Jesi, Fermo, Udine, Ravenna) un godibilissimo “Barbiere” rossiniano (al costo complessivo di € 80.000 a recita) cantato da giovani coreani, americani, russi, e italiani (in gran parte provenienti dall’Accademia del ROF) con una regia felliniana di Damiano Michelietto ed un apparato scenico composto solo da una ventina di sedie, una dozzina di ombrelli, una scala, e qualche pallone.
Questi comportamenti virtuosi si basano su prassi simili: co-produzioni e competizione. Anche a regole attuali, la musa bizzarra e altera, e le altre muse delle arti sceniche, potrebbe ridurre costi, aumentare qualità ed espandere la produzione con tre piccole clausole: a) almeno il 70% degli spettacoli in co-produzione; b) ingaggi più lunghi per gli artisti ma cachet non superiori alla media dell’Ue a 15; c) una premialità a chi presenta consuntivi finanziari ed artistici migliori sulla base del giudizio di una commissione internazionale non di chiara, ma di chiarissima fama (per evitare giochi di bottega).
Lasciamo ad altra sede l’analisi dei “barlumi” di ripresa e, quindi, di aumento delle entrate (con conseguente possibilità di incremento della spesa pubblica, la cui voce principale – le pensioni – sta viaggiando verso il 18-20 percento del Pil, togliendo spazio ad altri campi d’intervento). Pur ipotizzando che le risorse siano disponibili, negli ultimi 15 anni (quale che fosse il Ministro ed il Governo), la capacità di spesa del Ministro dei Beni Culturali ha raramente superato la metà delle disponibilità. Nonostante lo scorso maggio, il Consiglio Superiore per i Beni Culturali abbia espresso una raccomandazione unanime sulle misure da adottare per aumentarla, i dati dell’ultimo rendiconto suggeriscono che alla fine del 2009 i resti effettivi di cassa supereranno il 55% delle disponibilità. Il Tesoro sarà tormentato dal dubbio se prevedere uno stanziamento qualsiasi per il 2010. Il nodo è amministrativo, anche in base alle “leggi Bassanini” degli Anni 90. Aumentare la capacità di spesa è pure essenziale allo scopo d’ invogliare i privati a fornire contributi liberali: un’apposita commissione ha formulato proposte a metà gennaio 2008.
Veniamo adesso agli esempi “virtuosi” nel campo della musa che assorbe oltre la metà del Fus. Una rappresentazione lirica in Italia (artisti, masse orchestrali e corali , amministrazione) ha un costo pari al 170% della media di quella che era l’Ue a 15 – si andrebbe ad oltre il 250% rispetto l’Ue a 27. E’ la punta di un iceberg che dovrebbe fare riflettere chi ha avuto responsabilità nel settore.
A fronte di questo iceberg dovrebbero spiccare ancora di più i teatri nazionali che, dopo grandi crisi (ad esempio, La Scala, il Massimo di Palermo, il Lirico di Cagliari, - l’elenco non ha la pretesa di essere esaustivo), sono riusciti a presentarsi per anni consecutivi con conti in ordine, con produzioni di qualità, con aumento del pubblico anche straniero, con masse artistiche motivate e disciplinate. Dovrebbero fare riflettere le “buone prassi” attuate da circuiti regionali per co-produrre (tra loro ed anche con teatri esteri), per valorizzare giovani talenti (non solo nostrani), per contenere i cachet (che in Italia raggiungono il triplo di quelli praticati a Vienna e Monaco ed i quadruplo di quelli del Metropolitan di New York). Ai circuiti “toscano”, “emiliano” e “lombardo”, si è aggiunto di recente un circuito “veneto” (Padova, Bassano, Rovigo) che con regie innovative e scoperte di artisti (quali la giovanissima, bellissima e bravissima Kristin Lewis del lontano Kansas). Meritevoli pure i tentativi della Fondazione Pergolesi-Spontini a Jesi (bilanci sempre in pareggio o in attivo) di attivare un circuito analogo nelle Marche; hanno avuto risultati incompleti (a ragione di localismi) ma è in queste settimane in giro (Jesi, Fermo, Udine, Ravenna) un godibilissimo “Barbiere” rossiniano (al costo complessivo di € 80.000 a recita) cantato da giovani coreani, americani, russi, e italiani (in gran parte provenienti dall’Accademia del ROF) con una regia felliniana di Damiano Michelietto ed un apparato scenico composto solo da una ventina di sedie, una dozzina di ombrelli, una scala, e qualche pallone.
Questi comportamenti virtuosi si basano su prassi simili: co-produzioni e competizione. Anche a regole attuali, la musa bizzarra e altera, e le altre muse delle arti sceniche, potrebbe ridurre costi, aumentare qualità ed espandere la produzione con tre piccole clausole: a) almeno il 70% degli spettacoli in co-produzione; b) ingaggi più lunghi per gli artisti ma cachet non superiori alla media dell’Ue a 15; c) una premialità a chi presenta consuntivi finanziari ed artistici migliori sulla base del giudizio di una commissione internazionale non di chiara, ma di chiarissima fama (per evitare giochi di bottega).
LA BELLEZZA TI FA RICCO Il Tempo del 18 novembre
“Non è bello quel che è bello ma è bello quel che piace”. “Beauty is in the eye of the beholder”. Questi due proverbi , uno in italiano ed uno in inglese, sintetizzano quanto sia difficile (ove non impossibile) dare un valore ad un “bene intangibile” quale la bellezza, come ben sa chi opera nel campo dei beni artistici e culturali.
Negli ultimi vent’anni metodi e tecniche per la stima del bello sono state applicate anche al valore della avvenenza fisica, con particolare attenzione al significato che può avere nel mercato del lavoro in termini di assunzioni e carriera (quindi di reddito). Molto importanti a riguardo gli studi condotti dagli economisti Hamermesh e Biddle negli Anni 90. Le analisi prendono l’avvio da cosa vuole dire avvenenza fisica in Paesi industriali ad economia di mercato ai giorni d’oggi; ha senza dubbio caratteristiche molto differenti da quella che aveva all’epoca di Rubbens od in alcune regioni del mondo dove, per ragioni culturale, il bello maschile e femminile viene associato ad essere particolarmente bene in carne. La definizione viene ricavata dai due economisti da analisi delle preferenze dei consumatori condotte in Canada: “bello” vuol dire snello, slanciato.
Una prima verifica empirica riguarda una coorte di lavoratori dipendenti in una grande impresa , la cui carriera retributiva viene seguita per tre lustri. Il risultato è che in effetti i maschi “belli” hanno un vantaggio statistico sui maschi “non belli”. Per le donne, invece, non c‘è differenziale apprezzabile, ma quelle “belle” invece tendono a lasciare il mercato del lavoro (oppure a dare meno peso alla carriera retributiva) in quanto sposano uomini “belli”. La grande impresa, però, segue una serie di complesse regole interne che possono falsare il funzionamento del mercato del lavoro nel suo interno. Un’ulteriore analisi di Hamermesh e Biddle riguarda il valore dell’avvenenza fisica in un mercato, quello dei giuristi, in cui si ha lavoro sia dipendente sia autonomo. Una coorte viene seguita, ancora una volta, per tre lustri (sulla base delle fotografie del giorno della laurea). Non c’è differenza per genere nelle carriere tra “belli” e “non belli”. I “belli”, però, tendono ad andare alla professione libera, mentre i “non belli” ad optare per il lavoro dipendente, specialmente nella pubblica amministrazione.
Un lavoro più recente non utilizza come parametro il reddito da lavoro ma prende in esame un vasto campione d’insegnanti e correla avvenenza con i risultati dei loro allievi all’esame di stato (computerizzato e corretto , in via centralizzata dal lettore ottico); in breve, gli studenti di docenti maschi e belli sono quelli che hanno gli esiti migliori.
E nel mercato della politica? Il tema è oggetto di un saggio nell’ultimo fascicolo della rivista scientifica “Kyklos”. E’ curato da economisti di Oxford e dell’Università Nazionale dell’Australia. Si basa sugli esiti delle elezioni federali in Australia nel 2004. I risultati sono statisticamente “robusti”: i candidate “belli” hanno un margine tra un punto percentuale e due punti percentuali di elettori rispetto ai “non belli” (in un sistema uninominale ciò può assicurare la vittoria). Al margine, la bellezza conta di più per i candidati uomini che per le candidate donne.
Questo spiega la crescita del business del “wellness”.
Negli ultimi vent’anni metodi e tecniche per la stima del bello sono state applicate anche al valore della avvenenza fisica, con particolare attenzione al significato che può avere nel mercato del lavoro in termini di assunzioni e carriera (quindi di reddito). Molto importanti a riguardo gli studi condotti dagli economisti Hamermesh e Biddle negli Anni 90. Le analisi prendono l’avvio da cosa vuole dire avvenenza fisica in Paesi industriali ad economia di mercato ai giorni d’oggi; ha senza dubbio caratteristiche molto differenti da quella che aveva all’epoca di Rubbens od in alcune regioni del mondo dove, per ragioni culturale, il bello maschile e femminile viene associato ad essere particolarmente bene in carne. La definizione viene ricavata dai due economisti da analisi delle preferenze dei consumatori condotte in Canada: “bello” vuol dire snello, slanciato.
Una prima verifica empirica riguarda una coorte di lavoratori dipendenti in una grande impresa , la cui carriera retributiva viene seguita per tre lustri. Il risultato è che in effetti i maschi “belli” hanno un vantaggio statistico sui maschi “non belli”. Per le donne, invece, non c‘è differenziale apprezzabile, ma quelle “belle” invece tendono a lasciare il mercato del lavoro (oppure a dare meno peso alla carriera retributiva) in quanto sposano uomini “belli”. La grande impresa, però, segue una serie di complesse regole interne che possono falsare il funzionamento del mercato del lavoro nel suo interno. Un’ulteriore analisi di Hamermesh e Biddle riguarda il valore dell’avvenenza fisica in un mercato, quello dei giuristi, in cui si ha lavoro sia dipendente sia autonomo. Una coorte viene seguita, ancora una volta, per tre lustri (sulla base delle fotografie del giorno della laurea). Non c’è differenza per genere nelle carriere tra “belli” e “non belli”. I “belli”, però, tendono ad andare alla professione libera, mentre i “non belli” ad optare per il lavoro dipendente, specialmente nella pubblica amministrazione.
Un lavoro più recente non utilizza come parametro il reddito da lavoro ma prende in esame un vasto campione d’insegnanti e correla avvenenza con i risultati dei loro allievi all’esame di stato (computerizzato e corretto , in via centralizzata dal lettore ottico); in breve, gli studenti di docenti maschi e belli sono quelli che hanno gli esiti migliori.
E nel mercato della politica? Il tema è oggetto di un saggio nell’ultimo fascicolo della rivista scientifica “Kyklos”. E’ curato da economisti di Oxford e dell’Università Nazionale dell’Australia. Si basa sugli esiti delle elezioni federali in Australia nel 2004. I risultati sono statisticamente “robusti”: i candidate “belli” hanno un margine tra un punto percentuale e due punti percentuali di elettori rispetto ai “non belli” (in un sistema uninominale ciò può assicurare la vittoria). Al margine, la bellezza conta di più per i candidati uomini che per le candidate donne.
Questo spiega la crescita del business del “wellness”.
lunedì 16 novembre 2009
Tra riforma del sistema finanziario internazionale e scenari globali Ffwebmagazine 16 novembre
Barack Obama e Hu Jintao
Tra riforma del sistema finanziario internazionale e scenari globali
Ma un G2 fra Usa e Cina
metterebbe all'angolo l'Europa
di Giuseppe Pennisi È possibile cominciare a tirare un consuntivo preliminare del tour del presidente degli Stati Uniti in Asia. Gli elementi importanti sono due: un intesa molto al ribasso (rispetto alla attese, probabilmente eccessive, di alcuni) in materia di ambiente e clima (siamo alla vigilia della Conferenza di Copenhagen); un accordo implicito molto più sostanziale in materia di tasso di cambio (la moneta cinese verrà rivalutata gradualmente, ma leggermente, rispetto a quella Usa pur restando agganciata al “greenback” ). Questi due elementi suggeriscono che forse sta nascendo un G2 (Usa-Cina) che farà da superdirettorio in seno al G20, mettendo sostanzialmente in un angolo l’Europa?Per rispondere, vale la pena prendere l’avvio dal G20 tenuto poche settimane fa a Pittsburgh. Mentre i Grandi del G20 si congratulavano a vicenda, all’interno della delegazione Usa, si diceva che quello raggiunto è un equilibrio di Nash (dal nome del Premio Nobel, reso noto grazie al film A Beautiful Mind, che ha teorizzato equilibri dinamici, e quindi instabili). In seno alle delegazioni europee, invece, si faceva riferimento a una commedia settecentesca messa in musica da Antonio Salieri (Prima le parole, poi la musica), in altri termini se si potessero redigere le nuove regole mondiali sulla finanza (le parole) se non si fosse in precedenza risolto il nodo degli squilibri finanziari mondiali e dei tassi di cambio, specialmente del dollaro, di cui si teme un tracollo (la musica). Le due battute esprimono, in modo differente, lo stesso dilemma: è possibile un profondo riassetto delle regole in una fase in cui c è la minaccia di una tempesta valutaria? Nonostante gli appelli del segretario al Tesoro Usa a favore di un dollaro forte, l’Amministrazione Obama continua a seguire ancora la politica del benign neglect (trascuratezza voluta) nei confronti del valore internazionale del dollaro, nonostante, con un debito totale interno (famiglie, imprese, settore pubblico) pari a tre volte il Pil il prossimo scossone finanziario potrebbe venire dall’estero (un dollaro a picco che provochi un ondata di sfiducia nonostante il quadro macro-economico paia migliorare). Il rapporto di cambio con la moneta unica europea si pone a 1,5 dollari per euro – livello che secondo il maggiore istituto di analisi economica tedesca (Diw Berlin) rappresenta il livello di soglia oltre il quale la sofferenza dell’export diventa eccessiva. In parallelo, uno studio ancora inedito di un giovane economista bolognese (ma di ruolo a Los Angeles) , Piero Cinquegrana, circola al ministero delle Finanze tedesco; nel lavoro, viene dimostrata la stabilità delle relazioni monetarie Usa-Cina nel lungo periodo. In aggiunta, le ultime stime di Angus Maddison, un economista che ha dedicato tutta la propria vita allo studio della contabilità economica nazionale, sostiene che in termini di parità di potere d’acquisto il Pil della Cina è pari all’80% di quello Usa (non al 50% come valutato dalla Banca Mondiale). Un rallentamento della crescita della Cina (inevitabile in caso di rivalutazione dello yuan) frenerebbe, quindi, l’intera economia mondiale, in una fase, per di più, delicatissima.Ciò, unitamente alle alte riserve in dollari Usa presso la Banca centrale cinese, spiega perché gli Usa non insistano più perché Pechino riveda le loro politiche valutarie e chiedono, invece, aiuto all’ Ue perché insista affinché l’Asia acceleri la propria crescita interna. Nell’Ue, però, nonostante la discesa in campo di Angela Merkel (più verbale che sostanziale) a favore del Lecce Framework , ossia del programma in gran misura italiano per modificare le regole della finanza internazionale, aumentano gli scetticismi sulla possibilità di effettuare cambiamenti radicali sino a quanto non si è definito un percorso per uscire dal crescente disavanzo dei conti con l estero Usa. Con schiettezza, il ministro francese dell’Economia e delle Finanze, Christine Lagarde, ha affermato: «Abbiamo portato a casa quello che volevamo, ovvero vincoli alle retribuzioni dei supermanager della finanza in linea con quelli ora in vigore in Francia». La schiettezza minimizza quanto si è raggiunto in altre aree: rilancio del negoziato sugli scambi, la via per modificare (entro il 2011) i regolamenti Basilea II, la priorità alle politiche di crescita e l’ampliamento del direttorio mondiale a tutti i 20.Resta, però, il dilemma: si possono cambiare le regole mentre si pone mano al riassetto degli squilibri? A cui se ne aggiunge un altro: con tanti temi sul tappeto, un accordo a 20 è praticamente impossibile da raggiungere. Lo dimostra matematicamente un lavoro di Paul R. Masson e John C. Pattison della Joseph Rotman School of Management (si può chiedere a paul.masson@rotman.utoronto.ca, oppure a johnpattison@rogers.com ), il cui sunto troneggia sulla scrivania di Obama alla vigilia del G20. In tal senso, un eventuale G2 (che darebbe all’Europa un ruolo di comprimario nel processo decisionale mondiale) è figlio del G20.L’Europa stessa, però, sta facendo molto poco per darsi un ruolo maggiore: il confuso negoziato sulle nomine europee (presidente del Consiglio Ue per i prossimi due anni e mezzo, Alto rappresentante per la Politica estera e vice presidente della Commissione per i prossimi cinque anni), la bagarre sulle poltrone europee al Fondo monetario e in Banca mondale, la disorientante strategia mediterranea e quella nei confronti dell ex-Urss, stanno dando al resto del G20 l’idea che la sigla Ue sia poco più di un sito web e di alcune tonnellate di carta intestata.16 novembre 2009
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Tra riforma del sistema finanziario internazionale e scenari globali
Ma un G2 fra Usa e Cina
metterebbe all'angolo l'Europa
di Giuseppe Pennisi È possibile cominciare a tirare un consuntivo preliminare del tour del presidente degli Stati Uniti in Asia. Gli elementi importanti sono due: un intesa molto al ribasso (rispetto alla attese, probabilmente eccessive, di alcuni) in materia di ambiente e clima (siamo alla vigilia della Conferenza di Copenhagen); un accordo implicito molto più sostanziale in materia di tasso di cambio (la moneta cinese verrà rivalutata gradualmente, ma leggermente, rispetto a quella Usa pur restando agganciata al “greenback” ). Questi due elementi suggeriscono che forse sta nascendo un G2 (Usa-Cina) che farà da superdirettorio in seno al G20, mettendo sostanzialmente in un angolo l’Europa?Per rispondere, vale la pena prendere l’avvio dal G20 tenuto poche settimane fa a Pittsburgh. Mentre i Grandi del G20 si congratulavano a vicenda, all’interno della delegazione Usa, si diceva che quello raggiunto è un equilibrio di Nash (dal nome del Premio Nobel, reso noto grazie al film A Beautiful Mind, che ha teorizzato equilibri dinamici, e quindi instabili). In seno alle delegazioni europee, invece, si faceva riferimento a una commedia settecentesca messa in musica da Antonio Salieri (Prima le parole, poi la musica), in altri termini se si potessero redigere le nuove regole mondiali sulla finanza (le parole) se non si fosse in precedenza risolto il nodo degli squilibri finanziari mondiali e dei tassi di cambio, specialmente del dollaro, di cui si teme un tracollo (la musica). Le due battute esprimono, in modo differente, lo stesso dilemma: è possibile un profondo riassetto delle regole in una fase in cui c è la minaccia di una tempesta valutaria? Nonostante gli appelli del segretario al Tesoro Usa a favore di un dollaro forte, l’Amministrazione Obama continua a seguire ancora la politica del benign neglect (trascuratezza voluta) nei confronti del valore internazionale del dollaro, nonostante, con un debito totale interno (famiglie, imprese, settore pubblico) pari a tre volte il Pil il prossimo scossone finanziario potrebbe venire dall’estero (un dollaro a picco che provochi un ondata di sfiducia nonostante il quadro macro-economico paia migliorare). Il rapporto di cambio con la moneta unica europea si pone a 1,5 dollari per euro – livello che secondo il maggiore istituto di analisi economica tedesca (Diw Berlin) rappresenta il livello di soglia oltre il quale la sofferenza dell’export diventa eccessiva. In parallelo, uno studio ancora inedito di un giovane economista bolognese (ma di ruolo a Los Angeles) , Piero Cinquegrana, circola al ministero delle Finanze tedesco; nel lavoro, viene dimostrata la stabilità delle relazioni monetarie Usa-Cina nel lungo periodo. In aggiunta, le ultime stime di Angus Maddison, un economista che ha dedicato tutta la propria vita allo studio della contabilità economica nazionale, sostiene che in termini di parità di potere d’acquisto il Pil della Cina è pari all’80% di quello Usa (non al 50% come valutato dalla Banca Mondiale). Un rallentamento della crescita della Cina (inevitabile in caso di rivalutazione dello yuan) frenerebbe, quindi, l’intera economia mondiale, in una fase, per di più, delicatissima.Ciò, unitamente alle alte riserve in dollari Usa presso la Banca centrale cinese, spiega perché gli Usa non insistano più perché Pechino riveda le loro politiche valutarie e chiedono, invece, aiuto all’ Ue perché insista affinché l’Asia acceleri la propria crescita interna. Nell’Ue, però, nonostante la discesa in campo di Angela Merkel (più verbale che sostanziale) a favore del Lecce Framework , ossia del programma in gran misura italiano per modificare le regole della finanza internazionale, aumentano gli scetticismi sulla possibilità di effettuare cambiamenti radicali sino a quanto non si è definito un percorso per uscire dal crescente disavanzo dei conti con l estero Usa. Con schiettezza, il ministro francese dell’Economia e delle Finanze, Christine Lagarde, ha affermato: «Abbiamo portato a casa quello che volevamo, ovvero vincoli alle retribuzioni dei supermanager della finanza in linea con quelli ora in vigore in Francia». La schiettezza minimizza quanto si è raggiunto in altre aree: rilancio del negoziato sugli scambi, la via per modificare (entro il 2011) i regolamenti Basilea II, la priorità alle politiche di crescita e l’ampliamento del direttorio mondiale a tutti i 20.Resta, però, il dilemma: si possono cambiare le regole mentre si pone mano al riassetto degli squilibri? A cui se ne aggiunge un altro: con tanti temi sul tappeto, un accordo a 20 è praticamente impossibile da raggiungere. Lo dimostra matematicamente un lavoro di Paul R. Masson e John C. Pattison della Joseph Rotman School of Management (si può chiedere a paul.masson@rotman.utoronto.ca, oppure a johnpattison@rogers.com ), il cui sunto troneggia sulla scrivania di Obama alla vigilia del G20. In tal senso, un eventuale G2 (che darebbe all’Europa un ruolo di comprimario nel processo decisionale mondiale) è figlio del G20.L’Europa stessa, però, sta facendo molto poco per darsi un ruolo maggiore: il confuso negoziato sulle nomine europee (presidente del Consiglio Ue per i prossimi due anni e mezzo, Alto rappresentante per la Politica estera e vice presidente della Commissione per i prossimi cinque anni), la bagarre sulle poltrone europee al Fondo monetario e in Banca mondale, la disorientante strategia mediterranea e quella nei confronti dell ex-Urss, stanno dando al resto del G20 l’idea che la sigla Ue sia poco più di un sito web e di alcune tonnellate di carta intestata.16 novembre 2009
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CLT - Fus, una polemica che un “Barbiere” potrebbe appianare Il Velino 16 novembre
Roma, 16 nov (Velino) - Mentre infuria la polemica tra il ministro per i Beni e le attività culturali, Sandro Bondi e i vari comitati spesso autoproclamatisi vestali delle arti sceniche sul presente e sul futuro del Fus, si suggerisce tanto al titolare del Collegio Romano quanto agli altri di fare un breve viaggio per andare a vedere e ad ascoltare il rossiniano “Barbiere di Siviglia” che ha debuttato a Jesi il 12 novembre e che sino a metà gennaio sarà in tournée nelle Marche, in Friuli e in Romagna per poi approdare, forse, in Toscana e altrove. E’ un “Barbiere” che va lontano, pare che arriverà pure in Puglia e che siano interessati impresari giapponesi e americani, e che viene da lontano. L’allestimento è del Maggio Musicale Fiorentino che nell’estate 2005 lo utilizzò come banco di prova della Scuola di Musica di Fiesole, affidandolo a quello che allora era poco più che un giovanotto alle prime armi con la regia: Damiano Michieletto, enfant prodige ora conteso in tutta Europa e “Premio Abbiati” per la “Gazza Ladra” messa in scena al Rossini Opera Festival del 2008. All’epoca non c’era un euro (o quasi) per scene e costumi; però la materia grigia fa spesso supplenza al finanziamento e anzi scatta quando i soldi sono pochi. Con 16 sedie, una scala blu, una mezza dozzina di ombrelli e alcuni palloni (sul palcoscenico altro non c’è), Michieletto utilizzò la metafora di un viaggio in treno, in seconda o terza classe di un regionale, di un circo felliniano (Don Basilio è vestito da serpente, Figaro da volpe, Don Bartolo da cane e il Conte da arricchito) per fare ridere per circa tre ore, passando da una gag all’altra e chiedendo ai giovani cantanti di essere non solo attori ma anche atleti.
L’edizione, ora in giro per mezza Italia, è una “ripresa” di quella del 2005. Non è necessario realizzare sempre nuovi allestimenti (alcuni di quelli di Zeffirelli vengono replicato al Metropolitan di New York da 45 anni e quello di Shenk del “Rosenkavalier” di Richard Strauss si è replicato a Vienna e Monaco per più di 50 anni e il pubblico insiste perché si torni a quella produzione). Non è neanche necessario che gli allestimenti siano costosi e richiedano ogni volta schiere di scenografi e sarti: devono invece essere efficaci. Tedeschi, francesi e britannici sono diventati maestri di quella che un tempo era una “professione” molto italiana: saper divertire il pubblico se si tratta di un’opera buffa; commuoverlo nel caso di un dramma e via discorrendo. Proprio con “Il Barbiere”, il Rossini Opera Festival (ROF) ha toppato due volte budget. La prima volta al ROF del 1992, con un’edizione firmata da Squarzina ambientata nell’aula di anatomia dell’Archiginnasio di Bologna. La seconda, firmata Ronconi, ambientata in un’enorme casa-prigione. Nessuna delle due edizioni rispecchiava l’allegria della partitura.
Mettendo a confronto le diverse epoche, possiamo dire che il “Barbiere” dei “junior” (l’attuale), diverte più di quello dei “senior” (le edizioni passate). Naturalmente, sotto il profilo musicale il ROF “senior” ha messo in campo nel 2005 un cast stellare: Juan Diego Florez, Bruno de Simone, Dalinor Janis, Natale De Carolis e Joyce Di Donato, con la direzione musicale di Daniele Gatti: uno spettacolo da ascoltare chiudendo gli occhi. Nel “Barbiere” “junior”, la concertazione di Giampaolo Maria Bisanti è diligente, il corso decoroso. Si alternano due cast. In uno di essi, il tenore Francesco Marsiglia esibiva un’enfasi sul registro di centro poco adatta al ruolo, tanto che l’impervia aria “Cessa di più resistere” è stata tagliata. Il suo alter ego, Enea Scala, pare abbia una tessitura più consona al ruolo (ma l’impervia aria resta tagliata). Ci sono tre scoperte: il 23enne, Kim Jootaek perfetto pure nella dizione nei panni di Figaro; il 24enne Alexey Yakimov , un Don Basilio esilarante e dalle impeccabili tonalità gravi; la poco più che ventenne Charlotte Doobs che dal Vermont regala una deliziosa Rosina (con un leggero accento Usa). Una conferma: il “senior” Roberto Abbondanza, spesso relegato in ruoli da comprimario, nel ruolo di Don Bartolo.
Lo spettacolo è a basso costo (anche se non sono stati forniti dati puntuali). In ogni caso, da dieci anni la Fondazione lirica di Jesi chiude i bilanci in pareggio o con leggeri attivi ed è la sola in Italia con la certificazione di qualità Uni En Iso 9001:2008 da parte dell’ente terzo di certificazione TÜV nel settembre 2009. Ha anche un vasto programma di formazione. In breve è su esperienze virtuose che occorre puntare. Lasciando a casa i piagnistei.
(Hans Sachs) 16 nov 2009 14:33
L’edizione, ora in giro per mezza Italia, è una “ripresa” di quella del 2005. Non è necessario realizzare sempre nuovi allestimenti (alcuni di quelli di Zeffirelli vengono replicato al Metropolitan di New York da 45 anni e quello di Shenk del “Rosenkavalier” di Richard Strauss si è replicato a Vienna e Monaco per più di 50 anni e il pubblico insiste perché si torni a quella produzione). Non è neanche necessario che gli allestimenti siano costosi e richiedano ogni volta schiere di scenografi e sarti: devono invece essere efficaci. Tedeschi, francesi e britannici sono diventati maestri di quella che un tempo era una “professione” molto italiana: saper divertire il pubblico se si tratta di un’opera buffa; commuoverlo nel caso di un dramma e via discorrendo. Proprio con “Il Barbiere”, il Rossini Opera Festival (ROF) ha toppato due volte budget. La prima volta al ROF del 1992, con un’edizione firmata da Squarzina ambientata nell’aula di anatomia dell’Archiginnasio di Bologna. La seconda, firmata Ronconi, ambientata in un’enorme casa-prigione. Nessuna delle due edizioni rispecchiava l’allegria della partitura.
Mettendo a confronto le diverse epoche, possiamo dire che il “Barbiere” dei “junior” (l’attuale), diverte più di quello dei “senior” (le edizioni passate). Naturalmente, sotto il profilo musicale il ROF “senior” ha messo in campo nel 2005 un cast stellare: Juan Diego Florez, Bruno de Simone, Dalinor Janis, Natale De Carolis e Joyce Di Donato, con la direzione musicale di Daniele Gatti: uno spettacolo da ascoltare chiudendo gli occhi. Nel “Barbiere” “junior”, la concertazione di Giampaolo Maria Bisanti è diligente, il corso decoroso. Si alternano due cast. In uno di essi, il tenore Francesco Marsiglia esibiva un’enfasi sul registro di centro poco adatta al ruolo, tanto che l’impervia aria “Cessa di più resistere” è stata tagliata. Il suo alter ego, Enea Scala, pare abbia una tessitura più consona al ruolo (ma l’impervia aria resta tagliata). Ci sono tre scoperte: il 23enne, Kim Jootaek perfetto pure nella dizione nei panni di Figaro; il 24enne Alexey Yakimov , un Don Basilio esilarante e dalle impeccabili tonalità gravi; la poco più che ventenne Charlotte Doobs che dal Vermont regala una deliziosa Rosina (con un leggero accento Usa). Una conferma: il “senior” Roberto Abbondanza, spesso relegato in ruoli da comprimario, nel ruolo di Don Bartolo.
Lo spettacolo è a basso costo (anche se non sono stati forniti dati puntuali). In ogni caso, da dieci anni la Fondazione lirica di Jesi chiude i bilanci in pareggio o con leggeri attivi ed è la sola in Italia con la certificazione di qualità Uni En Iso 9001:2008 da parte dell’ente terzo di certificazione TÜV nel settembre 2009. Ha anche un vasto programma di formazione. In breve è su esperienze virtuose che occorre puntare. Lasciando a casa i piagnistei.
(Hans Sachs) 16 nov 2009 14:33
domenica 15 novembre 2009
SE LA FEDE MUOVE LE BORSE Il Tempo 15 novembre
Nel dibattito sulla sentenza delle Corte di Strasburgo a proposito dell’affissione del Crocefisso nelle scuole, non sono state esaminate le dimensioni economiche e finanziarie. La dimensione “economica” è il nesso tra religiosità , da un lato, e benessere e crescita, dall’altro. Per dimensione finanziaria, i rapporti tra religiosità e mercati, ossia Borse.
I primi sono stati analizzati sin dagli inizi dell’economia classica nel lontano XVIII secolo, ma solo di recente sono stati effettuati studi quantitativi . Ne ho compiuto, un paio di anni fa, una rassegna su un periodico specializzato. Le conclusioni , e gli aggiornamenti della letteratura, forniscono utili indicazioni. Un aspetto di fondo è come si quantizza la “religiosità”. La convenzione è di calcolarla in termini di “partecipazione alle funzioni religiose” da parte della popolazione che, al censimento, dichiara di appartenere ad una Fede od ad un’altra. Gran parte delle analisi spiegano almeno metà del tasso di crescita di lungo periodo degli Stati Uniti con la determinante “religione” (inculcata dall’asilo: occorre “appartenere” ad una Fede quale che sia per essere un “buon americano”).
Un’analisi dell’Università di Chicago, considerata la roccaforte del liberismo (e del laicismo) – lo IZA Discussion Paper N. 4279 – passa in rassegna oltre 200 studi micro-economici su Fede, famiglia e capitale umano. Pure giungendo ad individuare molte lacune nelle nostre conoscenze, specialmente sulle implicazioni di nuove definizione di “famiglia” (famiglie “multiple” a ragione di divorzi, famiglie con partner dello stesso genere), conclude che il capitale umano nasce e cresce meglio nelle famiglie dove c’è Fede.
Di recente, questi studi sono stati arricchiti da ricerche di economisti europei, non appartenenti a confessioni specifiche (cattolici, calvinisti, luterani). Un bel lavoro del Max Planck Institut, giunge ad alcune “considerazioni provvisorie”: il Cristianesimo (in tutte le sue guise) e l’Islam favoriscono l’imprenditorialità, mentre altre Fedi (in particolare l’Induismo) la inibiscono. Tra imprenditorialità e Borsa non mancano nessi. Da economista che si è dilettato con il Corano e che ha molto lavorato in Paesi islamici, aggiungo che i nessi tra Islam ed imprenditorialità sono complessi, specialmente poiché i precetti del Corano sulle successioni e sulla proprietà sono stati interpretati, per secoli, come freni alla formazione del capitalismo ed all’istituzione di società a responsabilità limitata.
Interessante, un lavoro (ancora in forma provvisoria) della Università di Canterbury : le Borse dei Paesi a cultura e religione mussulmana presentano un’anomalia nel mese del Ramadan (quello in cui si digiuna e si prega). Un’analisi delle Borse di 14 Paesi mussulmani nel periodo 1989-2007 , conclude che nel Ramadan domina il Toro e i mercati sono meno volatili. La spiegazione : “le preci portano ad investimenti meglio meditati ed ad un maggior senso di solidarietà”.
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I primi sono stati analizzati sin dagli inizi dell’economia classica nel lontano XVIII secolo, ma solo di recente sono stati effettuati studi quantitativi . Ne ho compiuto, un paio di anni fa, una rassegna su un periodico specializzato. Le conclusioni , e gli aggiornamenti della letteratura, forniscono utili indicazioni. Un aspetto di fondo è come si quantizza la “religiosità”. La convenzione è di calcolarla in termini di “partecipazione alle funzioni religiose” da parte della popolazione che, al censimento, dichiara di appartenere ad una Fede od ad un’altra. Gran parte delle analisi spiegano almeno metà del tasso di crescita di lungo periodo degli Stati Uniti con la determinante “religione” (inculcata dall’asilo: occorre “appartenere” ad una Fede quale che sia per essere un “buon americano”).
Un’analisi dell’Università di Chicago, considerata la roccaforte del liberismo (e del laicismo) – lo IZA Discussion Paper N. 4279 – passa in rassegna oltre 200 studi micro-economici su Fede, famiglia e capitale umano. Pure giungendo ad individuare molte lacune nelle nostre conoscenze, specialmente sulle implicazioni di nuove definizione di “famiglia” (famiglie “multiple” a ragione di divorzi, famiglie con partner dello stesso genere), conclude che il capitale umano nasce e cresce meglio nelle famiglie dove c’è Fede.
Di recente, questi studi sono stati arricchiti da ricerche di economisti europei, non appartenenti a confessioni specifiche (cattolici, calvinisti, luterani). Un bel lavoro del Max Planck Institut, giunge ad alcune “considerazioni provvisorie”: il Cristianesimo (in tutte le sue guise) e l’Islam favoriscono l’imprenditorialità, mentre altre Fedi (in particolare l’Induismo) la inibiscono. Tra imprenditorialità e Borsa non mancano nessi. Da economista che si è dilettato con il Corano e che ha molto lavorato in Paesi islamici, aggiungo che i nessi tra Islam ed imprenditorialità sono complessi, specialmente poiché i precetti del Corano sulle successioni e sulla proprietà sono stati interpretati, per secoli, come freni alla formazione del capitalismo ed all’istituzione di società a responsabilità limitata.
Interessante, un lavoro (ancora in forma provvisoria) della Università di Canterbury : le Borse dei Paesi a cultura e religione mussulmana presentano un’anomalia nel mese del Ramadan (quello in cui si digiuna e si prega). Un’analisi delle Borse di 14 Paesi mussulmani nel periodo 1989-2007 , conclude che nel Ramadan domina il Toro e i mercati sono meno volatili. La spiegazione : “le preci portano ad investimenti meglio meditati ed ad un maggior senso di solidarietà”.
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sabato 14 novembre 2009
cori e canti gregoriani: torna il festival di musica sacra in Il Velino 13 novembre
Roma, 13 nov (Velino) - Per Platone la musica è la più alta delle filosofie. A introduzione de “La notte dell’Epifania”, William Shakespeare afferma: “se la musica è cibo dell’amore, continua a suonare”. È quale amore è più forte di quello per l’Alto e, quindi, per il proprio prossimo? Al termine del concerto per il suo 80esimo compleanno, Papa Benedetto XVI ha detto: “Sono convinto che la musica sia il linguaggio universale della bellezza, capace di unire tra loro gli uomini di buona volontà su tutta le terra e di portarli ad alzare lo sguardo verso l’Alto e ad aprirsi al Bene e al Bello assoluti, che hanno la loro ultima sorgente in Dio stesso”. Ciò spiega l’attenzione e la priorità che la Santa Sede dà alla musica, naturalmente a quella sacra. Dal 18 al 22 novembre e l’11 dicembre a Roma, nello splendore delle quattro basiliche papali e in quella di Sant’Ignazio in Campo Marzio, si terrà l’ottava edizione del Festival internazionale di musica e arte sacra: otto concerti a ingresso libero per tutti gli appassionati di musica che potranno ascoltare orchestre, cori, direttori e solisti di fama nel ricco repertorio della musica sacra, che spazia dall’antico al contemporaneo. “Il programma di quest'anno ha due centri focali: la polifonia della scuola romana e la musica d'organo - spiega Hans-Albert Courtial, presidente della Fondazione Pro Musica e Arte sacra -. La polifonia, assieme al canto gregoriano, è stata per secoli il grande codice musicale della liturgia latina. ‘È stata’, perché da qualche decennio latita e il suo tesoro risplende in luoghi troppo rari e nascosti. Riportarla in auge non è affatto opera di archeologia musicale ma fa tutt'uno con quella rinascita della celebrazione liturgica che papa Benedetto XVI ha in cima ai suoi propositi di pastore della Chiesa”.
“La Fondazione Pro Musica e Arte Sacra - continua Courtial - ha inoltre ultimato il restauro del grande organo Tamburini della basilica di Sant’Ignazio di Loyola in Campo Marzio. L'ha fatto con il contributo di generosi benefattori, grazie ai quali sia la Fondazione che il Festival operano anche in tempi duri di crisi economica generale”. L’edizione è dedicata a tutti i sacerdoti in occasione dell’Anno Sacerdotale indetto da Benedetto XVI. Evento particolare il ritorno di Domenico Bartolucci a San Pietro il 19 novembre per dirigere il suo Coro Polifonico nel corso di una solenne concelebrazione, momento spirituale che tradizionalmente affianca le proposte musicali del Festival. Come nelle edizioni precedenti, i Wiener Philarmoniker saranno l’orchestra in residence del Festival; nella loro formazione cameristica eseguiranno a Santa Maria Maggiore il 20 novembre, in un programma di altissimo livello con il Quintetto con clarinetto di Mozart e l’Ottetto di Schubert. Il Festival sarà invece inaugurato il 18 novembre dal Coro polifonico della Fondazione Domenico Bartolucci nella Basilica di San Giovanni in Laterano, “inestimabile patrimonio spirituale, artistico e culturale” come lo stesso papa Benedetto XVI l’ha definita, mentre la Polifonia della scuola romana aprirà ufficialmente il Festival.
Giovedì 19 novembre due gli appuntamenti in programma: alle 17, come ormai di consueto, nella Basilica di San Pietro in Vaticano sarà celebrata la Messa solenne, presieduta dal cardinale Angelo Comastri, arciprete della Basilica, accompagnata dalle musiche eseguite dal Coro Polifonico della Fondazione Domenico Bartolucci. Alle 21 il Festival si sposterà nella Basilica di Sant'Ignazio di Loyola in Campo Marzio per festeggiare il completamento del restauro dell’organo Tamburini, grazie ai lavori sostenuti dalla Fondazione Pro Musica e Arte sacra. Costruito nel 1935 dalla Pontificia Fabbrica d’organi Tamburini, l’organo è a tre tastiere e la sua composizione fonica è tipica di un organo novecentesco dove si trovano sia i registri della classica tradizione organaria, necessari al repertorio sette-ottocentesco, sia le timbriche più particolari, che trovano il loro naturale impiego in musiche del Novecento.
Sabato prossimo, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, in programma c’è la prima esecuzione italiana di “Paolo e Fruttuoso”, oratorio in due atti per soli, cori e orchestra di Valentino Miserachs, una monumentale partitura che vedrà impegnati sei solisti, 80 professori d’orchestra e oltre 200 coristi. Domenica 22, giorno in cui si festeggia santa Cecilia, patrona della musica, nella Basilica di Sant’Ignazio concerto dei solisti dell’Orchestra Sinfonica del Bayerischer Rundfunk Monaco e dell’organista Johannes Skudlik, che suonerà sul restaurato organo Tamburini. Chiusura l’11 dicembre con il concerto natalizio a Santa Maria Maggiore dei Wiener Sängerknaben, l’antico coro di voci bianche di Vienna. Il Festival si avvale della collaborazione dell’“Euro Via Festival 2009”, il grande festival europeo d'organo “In cammino per Roma” e, per la prima volta, del “Palatia classic” il Festival internazionale di Musica classica del Palatinato recentemente fondato dal direttore d’orchestra Leo Krämer.
(Hans Sachs) 13 nov 2009 11:34
“La Fondazione Pro Musica e Arte Sacra - continua Courtial - ha inoltre ultimato il restauro del grande organo Tamburini della basilica di Sant’Ignazio di Loyola in Campo Marzio. L'ha fatto con il contributo di generosi benefattori, grazie ai quali sia la Fondazione che il Festival operano anche in tempi duri di crisi economica generale”. L’edizione è dedicata a tutti i sacerdoti in occasione dell’Anno Sacerdotale indetto da Benedetto XVI. Evento particolare il ritorno di Domenico Bartolucci a San Pietro il 19 novembre per dirigere il suo Coro Polifonico nel corso di una solenne concelebrazione, momento spirituale che tradizionalmente affianca le proposte musicali del Festival. Come nelle edizioni precedenti, i Wiener Philarmoniker saranno l’orchestra in residence del Festival; nella loro formazione cameristica eseguiranno a Santa Maria Maggiore il 20 novembre, in un programma di altissimo livello con il Quintetto con clarinetto di Mozart e l’Ottetto di Schubert. Il Festival sarà invece inaugurato il 18 novembre dal Coro polifonico della Fondazione Domenico Bartolucci nella Basilica di San Giovanni in Laterano, “inestimabile patrimonio spirituale, artistico e culturale” come lo stesso papa Benedetto XVI l’ha definita, mentre la Polifonia della scuola romana aprirà ufficialmente il Festival.
Giovedì 19 novembre due gli appuntamenti in programma: alle 17, come ormai di consueto, nella Basilica di San Pietro in Vaticano sarà celebrata la Messa solenne, presieduta dal cardinale Angelo Comastri, arciprete della Basilica, accompagnata dalle musiche eseguite dal Coro Polifonico della Fondazione Domenico Bartolucci. Alle 21 il Festival si sposterà nella Basilica di Sant'Ignazio di Loyola in Campo Marzio per festeggiare il completamento del restauro dell’organo Tamburini, grazie ai lavori sostenuti dalla Fondazione Pro Musica e Arte sacra. Costruito nel 1935 dalla Pontificia Fabbrica d’organi Tamburini, l’organo è a tre tastiere e la sua composizione fonica è tipica di un organo novecentesco dove si trovano sia i registri della classica tradizione organaria, necessari al repertorio sette-ottocentesco, sia le timbriche più particolari, che trovano il loro naturale impiego in musiche del Novecento.
Sabato prossimo, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, in programma c’è la prima esecuzione italiana di “Paolo e Fruttuoso”, oratorio in due atti per soli, cori e orchestra di Valentino Miserachs, una monumentale partitura che vedrà impegnati sei solisti, 80 professori d’orchestra e oltre 200 coristi. Domenica 22, giorno in cui si festeggia santa Cecilia, patrona della musica, nella Basilica di Sant’Ignazio concerto dei solisti dell’Orchestra Sinfonica del Bayerischer Rundfunk Monaco e dell’organista Johannes Skudlik, che suonerà sul restaurato organo Tamburini. Chiusura l’11 dicembre con il concerto natalizio a Santa Maria Maggiore dei Wiener Sängerknaben, l’antico coro di voci bianche di Vienna. Il Festival si avvale della collaborazione dell’“Euro Via Festival 2009”, il grande festival europeo d'organo “In cammino per Roma” e, per la prima volta, del “Palatia classic” il Festival internazionale di Musica classica del Palatinato recentemente fondato dal direttore d’orchestra Leo Krämer.
(Hans Sachs) 13 nov 2009 11:34
Un omaggio ai ragazzi di Kos, dimenticati per troppo tempo in FFwebmagazine del 14 novembre
Uno studio ricostruisce una vicenda per anni "segretata"
Un omaggio ai ragazzi di Kos,
dimenticati per troppo tempo
di Giuseppe Pennisi Ricordate L'arpa birmana , il film diretto da Kon Ichikawa del lontano 1953? Fu nominato all' Oscar al miglior film straniero e partecipò alla 21ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia nel 1956, rivelando l'arte di Ichikawa al pubblico occidentale. Solo per pochissimi voti non vinse il Leone d'oro, che quell'anno la giuria decise di non assegnare. L'opera affrontò il tema della pietà spinta all'estremo, tramite la vicenda di un ufficiale nipponico rimasto dopo la guerra in Birmania per sotterrare, secondo i riti buddisti, i commilitoni morti e spesso lasciati agli avvoltoi o sotterrati in fosse comune.A Latina c’è un ex-ufficiale dell’Esercito (Accademia di Modena) che nel corso della sua carriera ha passato diversi anni all’estero quale rappresentante italiano in un progetto multinazionale. Ora potrebbe godersi serenamente la pensione, ma , letto un libro quanto meno facilone (Il mandolino del Capitano Corelli ) e visto il film di cassetta tratto dal romanzo, ha dedicato le proprie risorse (il trattamento previdenziale) e la propria esistenza a scoprire cosa è davvero successo nell’Egeo nel 1943-44. Il suo nome è Pietro Giovanni Liuzzi, poco noto al grande pubblico ma diventato un’autorità tra gli storici militari. Pur se non è uno storico ed è mosso dalla pietas per i nostri “ragazzi” di quegli anni. Come il protagonista de L'arpa birmana. Il suo primo libro riguarda Cefalonia ed è stato presentato, circa due anni fa, in un seminario della Fondazione Farefuturo.Il secondo (Kos- Una tragedia dimenticata. Settembre 1943-Maggio 1945, Edit@, pp. 240, euro 12) è molto più importante del primo in quanto riguarda una tragedia che è stata, in pratica, “segretata” sino agli anni Cinquanta e di cui anche oggi si preferisce non parlare. E neanche citare: quella dei “dimenticati di Kos”. Chi erano? La loro vicenda è ricostruita da Liuzzi (dopo lungo lavoro d’archivio ed incontri con i pochi testimoni ancora vivi sia in Italia sia nell’Egeo).Ricordiamo i fatti essenziali. Occupare il Dodecaneso è sempre stata un obiettivo strategico di Churchill (non condiviso dal comando Usa a ragione dei rischi); da tempo, egli aveva ordinato l’approntamento di un piano operativo per l’invasione. A ragione del marasma creatosi nelle forze armate italiane dopo la firma dell’armistizio del 8 settembre 1943, Churchill ritenne giunto il momento di agire e dette il via all’operazione “Accolade” il cui scopo era d’utilizzare l’aeroporto di Kos al fine di accorciare i tempi di volo degli aerei della Raf, dislocati al Cairo e a Cipro, per colpire obiettivi nei Balcani e dare copertura aerea alle unità navali nell’Egeo. I movimenti britannici furono rilevati dalla sorveglianza aerea tedesca che attaccò Kos con inusitata sorpresa, nella notte tra il 2 ed il 3 ottobre. Sostenute dall’intensa attività della Luftwaffe, dotate di equipaggiamento e armamento moderno, i tedeschi ebbero il sopravvento sulle scollegate azioni difensive italiane e britanniche. Dopo 38 ore di combattimento, il comando italiano dichiarava la resa alle 14 del 4 ottobre 1943. Mentre gran parte dei britannici raggiunse, con mezzi di fortuna, la Turchia e altri, catturati, vennero trasferiti in Grecia continentale e trattati da prigionieri di guerra secondo quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra,. Tremila italiani, dei 4000 presenti nell’isola, furono ammassati nel Castello di Kos dove subirono, per 20 mesi, malversazioni di ogni tipo.Gli ufficiali italiani erano 148: di loro, 7 passarono con i tedeschi, 28 riuscirono a fuggire in Turchia, 10 ricoverati in ospedale e trasferiti in Germania, 103 fucilati. 66 corpi vennero ritrovati in 8 fosse comuni ma solo 42 furono riconosciuti. Gli altri 37 corpi, da allora, non furono mai cercati sebbene si conoscano i possibili luoghi delle fucilazioni. Perché tanti anni di oblio? Nella vicenda non brillava né il comportamento del governo Badoglio, né quello del governo britannico, né di quello del governo tedesco. I caduti non erano moltissimi: si preferiva ignorare che sollevare fatti veri ma imbarazzanti. Nel dopoguerra, poi, l’Italia allacciava nuove relazioni internazionali e né i tedeschi né i britannici avevano dato una buona prova. Sessantasei anni dopo, è imperativo ricordarsi che tra il sangue dei vinti c’è pure quello di Kos.Un seminario a Farefuturo? Vorrei suggerire sommessamente qualcosa di più: dedicare ai dimenticati di Kos uno dei seminari che il presidente della Camera dei deputati organizza frequentemente alla Sala della Lupa di Montecitorio. Lo meritano i ragazzi di Kos e la pietas di Liuzzi.
14 novembre 2009
Un omaggio ai ragazzi di Kos,
dimenticati per troppo tempo
di Giuseppe Pennisi Ricordate L'arpa birmana , il film diretto da Kon Ichikawa del lontano 1953? Fu nominato all' Oscar al miglior film straniero e partecipò alla 21ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia nel 1956, rivelando l'arte di Ichikawa al pubblico occidentale. Solo per pochissimi voti non vinse il Leone d'oro, che quell'anno la giuria decise di non assegnare. L'opera affrontò il tema della pietà spinta all'estremo, tramite la vicenda di un ufficiale nipponico rimasto dopo la guerra in Birmania per sotterrare, secondo i riti buddisti, i commilitoni morti e spesso lasciati agli avvoltoi o sotterrati in fosse comune.A Latina c’è un ex-ufficiale dell’Esercito (Accademia di Modena) che nel corso della sua carriera ha passato diversi anni all’estero quale rappresentante italiano in un progetto multinazionale. Ora potrebbe godersi serenamente la pensione, ma , letto un libro quanto meno facilone (Il mandolino del Capitano Corelli ) e visto il film di cassetta tratto dal romanzo, ha dedicato le proprie risorse (il trattamento previdenziale) e la propria esistenza a scoprire cosa è davvero successo nell’Egeo nel 1943-44. Il suo nome è Pietro Giovanni Liuzzi, poco noto al grande pubblico ma diventato un’autorità tra gli storici militari. Pur se non è uno storico ed è mosso dalla pietas per i nostri “ragazzi” di quegli anni. Come il protagonista de L'arpa birmana. Il suo primo libro riguarda Cefalonia ed è stato presentato, circa due anni fa, in un seminario della Fondazione Farefuturo.Il secondo (Kos- Una tragedia dimenticata. Settembre 1943-Maggio 1945, Edit@, pp. 240, euro 12) è molto più importante del primo in quanto riguarda una tragedia che è stata, in pratica, “segretata” sino agli anni Cinquanta e di cui anche oggi si preferisce non parlare. E neanche citare: quella dei “dimenticati di Kos”. Chi erano? La loro vicenda è ricostruita da Liuzzi (dopo lungo lavoro d’archivio ed incontri con i pochi testimoni ancora vivi sia in Italia sia nell’Egeo).Ricordiamo i fatti essenziali. Occupare il Dodecaneso è sempre stata un obiettivo strategico di Churchill (non condiviso dal comando Usa a ragione dei rischi); da tempo, egli aveva ordinato l’approntamento di un piano operativo per l’invasione. A ragione del marasma creatosi nelle forze armate italiane dopo la firma dell’armistizio del 8 settembre 1943, Churchill ritenne giunto il momento di agire e dette il via all’operazione “Accolade” il cui scopo era d’utilizzare l’aeroporto di Kos al fine di accorciare i tempi di volo degli aerei della Raf, dislocati al Cairo e a Cipro, per colpire obiettivi nei Balcani e dare copertura aerea alle unità navali nell’Egeo. I movimenti britannici furono rilevati dalla sorveglianza aerea tedesca che attaccò Kos con inusitata sorpresa, nella notte tra il 2 ed il 3 ottobre. Sostenute dall’intensa attività della Luftwaffe, dotate di equipaggiamento e armamento moderno, i tedeschi ebbero il sopravvento sulle scollegate azioni difensive italiane e britanniche. Dopo 38 ore di combattimento, il comando italiano dichiarava la resa alle 14 del 4 ottobre 1943. Mentre gran parte dei britannici raggiunse, con mezzi di fortuna, la Turchia e altri, catturati, vennero trasferiti in Grecia continentale e trattati da prigionieri di guerra secondo quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra,. Tremila italiani, dei 4000 presenti nell’isola, furono ammassati nel Castello di Kos dove subirono, per 20 mesi, malversazioni di ogni tipo.Gli ufficiali italiani erano 148: di loro, 7 passarono con i tedeschi, 28 riuscirono a fuggire in Turchia, 10 ricoverati in ospedale e trasferiti in Germania, 103 fucilati. 66 corpi vennero ritrovati in 8 fosse comuni ma solo 42 furono riconosciuti. Gli altri 37 corpi, da allora, non furono mai cercati sebbene si conoscano i possibili luoghi delle fucilazioni. Perché tanti anni di oblio? Nella vicenda non brillava né il comportamento del governo Badoglio, né quello del governo britannico, né di quello del governo tedesco. I caduti non erano moltissimi: si preferiva ignorare che sollevare fatti veri ma imbarazzanti. Nel dopoguerra, poi, l’Italia allacciava nuove relazioni internazionali e né i tedeschi né i britannici avevano dato una buona prova. Sessantasei anni dopo, è imperativo ricordarsi che tra il sangue dei vinti c’è pure quello di Kos.Un seminario a Farefuturo? Vorrei suggerire sommessamente qualcosa di più: dedicare ai dimenticati di Kos uno dei seminari che il presidente della Camera dei deputati organizza frequentemente alla Sala della Lupa di Montecitorio. Lo meritano i ragazzi di Kos e la pietas di Liuzzi.
14 novembre 2009
The 2009 Parma Verdi Festival in La Scena Musicale 14 Novembre
Maestro Gianandrea Gavazzeni used to say that there is no need for a “Verdi Festival” because almost every day a “Verdi Festival” is being held in more than one of the five continents of the world. As a matter of fact, Parma, the capital of the province where Giuseppe Verdi was born in 1813, has been organizing a top-notch Festival for several decades. It used to take place in early June—that is, strategically after the Maggio Musicale Fiorentino and before the many Summer Opera Festivals (35 in 2009) flooding Italy from late-June to mid-September.
Since 2005, Mauro Meli has been Superintendent of Parma’s Teatro Regio and of the Verdi Festival and he invited Yuri Temirkanov to be the musical director of both organizations. In 2006 a program was undertaken to make Parma “the European music capital” by activating a new auditorium (for symphony and chamber music) and the many precious small theatres in the surrounding towns and even villages (first of all the Teatro Verdi in Busseto, near Le Roncole, the hamlet of only a few homes where Verdi was actually born). International collaborations were developed through co-production and tours. Finally, the Festival was moved from early June to October, Verdi was birth-month. Every day of October in Parma Verdi has a Festival event: a fully staged opera to highlights in concert to screening of films based on Verdi’s work. The whole town has become a part of the Festival, with exhibitions, shows and performances everywhere.
All this activity requires a great deal of financing, and the money had been forthcoming for a few years from the Central and Local Governments, a major State owned company and from local enterprises. But, recently, the economic finance crisis has put a major halt on funding. This year, Meli has had to make do with a much smaller budget, resulting in a lean program (see www.teatroregioparma.org/verdifest/index.htm): only two fully staged operas, the Requiem Mass (considered by many as Verdi’s 27th opera), and concerts and highlights from all the other 25 operas.
This review focuses on the three major events: the Requiem Mass and the fully staged productions of I Due Foscari and Nabucco. The Requiem opened the at the Cathedral. It is well known that Verdi was an atheist as many Italian Risorgimento intellectuals were; their atheism stemmed largely from their opposition to the Papal Kingdom as well as from the goal of having Rome as the capital of a united Italy, not of a Pope’s State. Verdi’s letters reveal that he was a tormented atheist with many doubts about the meaning of existence and the after-life. The Requiem Mass can be considered a melodrama-style search for these deep philosophical answers. Its central part (Dies Irae) is a long operatic act with the tender Lacrimosa, a meditation on human fragility, as a conclusion. Not even the final Libera me solves these doubts. The orchestra was conducted by Lorin Maazel, who had to fly into Parma to replace a suddenly sick Yuri Temirkanov. Even though Maazel had no time for a proper rehearsal, the orchestra and the chorus (under Martino Faggiani’s direction) gave the proper dramatic colour to the score and provided the required support to the soloists. Francesco Meli has thickened his voice in the last few years, but kept a very clear timbre and a pure emission; he might become a Carlo Bergonzi of the future. Daniela Barcellona is a true force of nature; she did balance her powerful voice with an excellent fraseggio and displayed a great skill to ascend to high tonalities with ease and to descend to grave tonalities with the same ease. Alexaneder Vinogradov is a good, but not memorable, Russian bass. Svetla Vassileva seemed not quite apt for the role: in the last few years she has taken roles not fully in line with her specific vocal endowment, with evident effects now. Her volume is small and she has difficulties with the low notes and pushes excessively with the acute. Being next to Barcellona did not help as it exposed her limits.
Much beloved by Verdi’s fans, Leo Nucci (now almost 68 years old) played the protagonist of both I Due Foscari and Nabucco. The latter is a widely performed opera whereas I Due Foscari has the record of being the shortest and one of the least staged Verdi melodrama. It was revived in 1968 in a Rome Teatro dell’Opera production that travelled as far as the Metropolitan Opera in New York. It is a dark opera, based on an even darker poem by Byron, that deals with power intrigues in 15th Century Venice. Jacopo is unfairly condemned to permanent exile by the Council of Ten, the highest governing body in Venice; in spite of Lucrezia’s efforts and pleas, his father cannot overturn the decision; Jacopo commits suicide and Francesco is ousted by his rivals. There are only three characters of dramatic and vocal relevance: the old doge, Francesco Foscari (Leo Nucci), his son Jacopo (Roberto De Biaso) and his daughter-in-law Lucrezia Contarini (Tatiana Serjan). There is almost no action—but a lot of difficult singing—on the stage because nearly the entire plot develops behind the scene.
Joseph Francioni Lee (stage direction) and William Orlandi (stage set) provide an intelligent solution: the three acts are performed with only a short intermission and there is as much action as the libretto provides. The stage direction and the sets are traditional but effective. Nucci and Serjan overrode the rest of the cast in tremendously difficult roles requiring considerable vocal agility and strong volume. De Biaso was good but at the end of the performance appeared clearly tired. Fine, but not exceptional, was Donato Renzetti’s baton.
Only a few words on Nabucco. The Daniele Abbado production is nearly 10 years old and was seen last year in Reggio Emilia (only 50 miles from Parma). It is a late 20th Century blockbuster with Jews in modern attire and the Babylonians in Hollywood-style costumes. Leo Nucci’s receives the lion’s share of the applause, closely followed by Dmitra Theodossiou; they are experienced professionals and know all the tricks to please the audience, even emphasizing certain moments of Verdi’s score. The young Michele Mariotti conducts with a swift allure. This production of Nabucco will be staged in Modena in February 2010 and in Japan next Summer.
THE PLAY BILL
Messa da Requiem
Soprano SVETLA VASSILEVA
Mezzo DANIELA BARCELLONA
Tenor FRANCESCO MELI
Bass ALEXANDER VINOGRADOV
Conductor LORIN MAAZEL
Chorus Mastero MARTINO FAGGIANI
I due Foscari
Francesco Foscari LEO NUCCI,
Jacopo Foscari ROBERTO DE BIASIO
Lucrezia Contarini TATIANA SERJAN
Jacopo Loredano ROBERTO TAGLIAVINI
Barbarigo GREGORY BONFATTI
Pisana MARCELLA POLIDORI
Fante MAURO BUFFOLI
Servant pf the Doge ALESSANDRO BIANCHINI
Conductor DONATO RENZETTI
Stage direction JOSEPH FRANCONI LEE
Stage sets and costumes WILLIAM ORLANDI
Lighting VALERIO ALFIERI
Nabucco
Nabucodonosor LEO NUCCI, GIOVANNI MEONI (18, 24, 28)
Ismaele BRUNO RIBEIRO
Zaccaria RICCARDO ZANELLATO
Abigaille DIMITRA THEODOSSIOU
Fenena ANNA MARIA CHIURI
Il Gran Sacerdote di Belo ALESSANDRO SPINA
Abdallo MAURO BUFFOLI
Anna CRISTINA GIANNELLI
Conductor MICHELE MARIOTTI
Stage Director DANIELE ABBADO
Stage sets and cistumes LUIGI PEREGO
Lighting VALERIO ALFIERI
Chorus Mastero MARTINO FAGGIANI
Labels: festival, Giuseppe Verdi, opera
Since 2005, Mauro Meli has been Superintendent of Parma’s Teatro Regio and of the Verdi Festival and he invited Yuri Temirkanov to be the musical director of both organizations. In 2006 a program was undertaken to make Parma “the European music capital” by activating a new auditorium (for symphony and chamber music) and the many precious small theatres in the surrounding towns and even villages (first of all the Teatro Verdi in Busseto, near Le Roncole, the hamlet of only a few homes where Verdi was actually born). International collaborations were developed through co-production and tours. Finally, the Festival was moved from early June to October, Verdi was birth-month. Every day of October in Parma Verdi has a Festival event: a fully staged opera to highlights in concert to screening of films based on Verdi’s work. The whole town has become a part of the Festival, with exhibitions, shows and performances everywhere.
All this activity requires a great deal of financing, and the money had been forthcoming for a few years from the Central and Local Governments, a major State owned company and from local enterprises. But, recently, the economic finance crisis has put a major halt on funding. This year, Meli has had to make do with a much smaller budget, resulting in a lean program (see www.teatroregioparma.org/verdifest/index.htm): only two fully staged operas, the Requiem Mass (considered by many as Verdi’s 27th opera), and concerts and highlights from all the other 25 operas.
This review focuses on the three major events: the Requiem Mass and the fully staged productions of I Due Foscari and Nabucco. The Requiem opened the at the Cathedral. It is well known that Verdi was an atheist as many Italian Risorgimento intellectuals were; their atheism stemmed largely from their opposition to the Papal Kingdom as well as from the goal of having Rome as the capital of a united Italy, not of a Pope’s State. Verdi’s letters reveal that he was a tormented atheist with many doubts about the meaning of existence and the after-life. The Requiem Mass can be considered a melodrama-style search for these deep philosophical answers. Its central part (Dies Irae) is a long operatic act with the tender Lacrimosa, a meditation on human fragility, as a conclusion. Not even the final Libera me solves these doubts. The orchestra was conducted by Lorin Maazel, who had to fly into Parma to replace a suddenly sick Yuri Temirkanov. Even though Maazel had no time for a proper rehearsal, the orchestra and the chorus (under Martino Faggiani’s direction) gave the proper dramatic colour to the score and provided the required support to the soloists. Francesco Meli has thickened his voice in the last few years, but kept a very clear timbre and a pure emission; he might become a Carlo Bergonzi of the future. Daniela Barcellona is a true force of nature; she did balance her powerful voice with an excellent fraseggio and displayed a great skill to ascend to high tonalities with ease and to descend to grave tonalities with the same ease. Alexaneder Vinogradov is a good, but not memorable, Russian bass. Svetla Vassileva seemed not quite apt for the role: in the last few years she has taken roles not fully in line with her specific vocal endowment, with evident effects now. Her volume is small and she has difficulties with the low notes and pushes excessively with the acute. Being next to Barcellona did not help as it exposed her limits.
Much beloved by Verdi’s fans, Leo Nucci (now almost 68 years old) played the protagonist of both I Due Foscari and Nabucco. The latter is a widely performed opera whereas I Due Foscari has the record of being the shortest and one of the least staged Verdi melodrama. It was revived in 1968 in a Rome Teatro dell’Opera production that travelled as far as the Metropolitan Opera in New York. It is a dark opera, based on an even darker poem by Byron, that deals with power intrigues in 15th Century Venice. Jacopo is unfairly condemned to permanent exile by the Council of Ten, the highest governing body in Venice; in spite of Lucrezia’s efforts and pleas, his father cannot overturn the decision; Jacopo commits suicide and Francesco is ousted by his rivals. There are only three characters of dramatic and vocal relevance: the old doge, Francesco Foscari (Leo Nucci), his son Jacopo (Roberto De Biaso) and his daughter-in-law Lucrezia Contarini (Tatiana Serjan). There is almost no action—but a lot of difficult singing—on the stage because nearly the entire plot develops behind the scene.
Joseph Francioni Lee (stage direction) and William Orlandi (stage set) provide an intelligent solution: the three acts are performed with only a short intermission and there is as much action as the libretto provides. The stage direction and the sets are traditional but effective. Nucci and Serjan overrode the rest of the cast in tremendously difficult roles requiring considerable vocal agility and strong volume. De Biaso was good but at the end of the performance appeared clearly tired. Fine, but not exceptional, was Donato Renzetti’s baton.
Only a few words on Nabucco. The Daniele Abbado production is nearly 10 years old and was seen last year in Reggio Emilia (only 50 miles from Parma). It is a late 20th Century blockbuster with Jews in modern attire and the Babylonians in Hollywood-style costumes. Leo Nucci’s receives the lion’s share of the applause, closely followed by Dmitra Theodossiou; they are experienced professionals and know all the tricks to please the audience, even emphasizing certain moments of Verdi’s score. The young Michele Mariotti conducts with a swift allure. This production of Nabucco will be staged in Modena in February 2010 and in Japan next Summer.
THE PLAY BILL
Messa da Requiem
Soprano SVETLA VASSILEVA
Mezzo DANIELA BARCELLONA
Tenor FRANCESCO MELI
Bass ALEXANDER VINOGRADOV
Conductor LORIN MAAZEL
Chorus Mastero MARTINO FAGGIANI
I due Foscari
Francesco Foscari LEO NUCCI,
Jacopo Foscari ROBERTO DE BIASIO
Lucrezia Contarini TATIANA SERJAN
Jacopo Loredano ROBERTO TAGLIAVINI
Barbarigo GREGORY BONFATTI
Pisana MARCELLA POLIDORI
Fante MAURO BUFFOLI
Servant pf the Doge ALESSANDRO BIANCHINI
Conductor DONATO RENZETTI
Stage direction JOSEPH FRANCONI LEE
Stage sets and costumes WILLIAM ORLANDI
Lighting VALERIO ALFIERI
Nabucco
Nabucodonosor LEO NUCCI, GIOVANNI MEONI (18, 24, 28)
Ismaele BRUNO RIBEIRO
Zaccaria RICCARDO ZANELLATO
Abigaille DIMITRA THEODOSSIOU
Fenena ANNA MARIA CHIURI
Il Gran Sacerdote di Belo ALESSANDRO SPINA
Abdallo MAURO BUFFOLI
Anna CRISTINA GIANNELLI
Conductor MICHELE MARIOTTI
Stage Director DANIELE ABBADO
Stage sets and cistumes LUIGI PEREGO
Lighting VALERIO ALFIERI
Chorus Mastero MARTINO FAGGIANI
Labels: festival, Giuseppe Verdi, opera
giovedì 12 novembre 2009
COSI’ LA SVOLTA DI ANGELA MERKEL SUL FISCO CONDIZIONERA’ TREMONTI Il Foglio 12 novembre
Giuseppe Pennisi
E’ in corso un mutamento di fondo nelle strategie di bilancio (20 su 27 Stati dell’Unione sono sotto procedura d’infrazione del “patto di stabilità”) che caratterizzerà il futuro dell’Europa molto più di quali saranno le scelte in materia di Presidente del Consiglio Europeo e di Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Europea. Il mutamento – è questo l’aspetto più interessante – è pilotata non dal club Med (Grecia, Italia, Portogallo, Spagna) generalmente considerato “lasco” e “creativo” in materia di conti pubblici, ma dalla Germania, considerata da sempre “tutore” del rigore in tema di bilancio e moneta. Per l’esercizio di bilancio, 2010 il Governo di Berlino ha programmato un indebitamento netto della pubblica amministrazione pari al 6,2 percento del Pil (oltre il doppio del limite massimo consentito dal “patto”). Le interpretazioni correnti attribuiscono all’aumento della disoccupazione (causato dalla recessione mondiale) il cambiamento di marcia. Esaminando dati (e lavori ancora inediti) ci si accorge che si tratta di un più profondo mutamento di rotta , tale da sollevare interrogativi sull’unione monetaria e sul futuro delle politiche economiche di altri Paesi (tra cui, ovviamente, l’Italia). Riguarda l’Italia perché se il mutamento di rotta in atto in Germania è effettivo, anche da noi si dovrà mettere meno l’accento sulla domanda estera (cioè sull’export) e più su quella interna (con implicazioni non secondarie per la politica dei prezzi e dei salari).
In sintesi, dai segnali che vengono da Berlino, sembra che la Germania passi da una strategia in cui l’export è stato il traino del Paese ad una in cui , invece, l’enfasi è sul potenziamento della domanda interna. Un libro recente di Paolo Guerrieri e Pier Carlo Padoan documenta come l’intera Ue (e specialmente Paesi come l’Italia) hanno, al pari della Repubblica Federale Tedesca, puntato, per decenni, su una crescita pilotata dall’export. Tuttavia, non è solo la sfida dei mercati emergenti (tesi di Guerrieri e Padoan) a fare ripensare la strategia, ma quanto sta avvenendo sul mercato dei cambi.
Il principale centro di ricerche economiche tedesche, nel DIW Berlin Discussion Paper n. 943 in corso di pubblicazione, conduce un’approfondita analisi empirica della reattività delle esportazioni tedesche al tasso di cambio con il dollaro Usa dal primo trimestre 1995 al quarto trimestre 2008. L’obiettivo è di identificare la soglie oltre la quale “si soffre troppo” e il perimetro entro il quale “si riesce a sopravvivere”. Il procedimento statistico è innovativo e comporta la costruzione di un complesso algoritmo (validato in una serie di seminari internazionali). L’obiettivo è identificare la soglia oltre la quale “si soffre troppo” ed il perimetro entro il quale “si riesce a sopravvivere” . Lo soglia oltre la quale “si soffre troppo” (e le imprese diventano a rischio di “sopravvivenza”) è quella che quella che rappresenta il limite di una crescita economica basata sull’export; una volta raggiunto questo limite , occorre cambiare strada. E’ un limite che né la Germania né l’Ue controllano in quanto determinato dal mercato internazionale . In sintesi il perimetro viene situato tra 1.30 e 1.55 $ per euro e la soglia a 1.55, il livello sfiorato negli ultimi giorni. Una oscillazione di breve periodo od una tendenza a più lungo termine.
Parte della risposta è fornita da una squadra di economisti della Federal Reserve Bank di New York in un saggio pubblicato nel fascicolo di ottobre di Current Issues in Economics and Finance. Il saggio analizza il crescente mercato del “dollar off-shore”, un fenomeno recente e poco studiato che si aggiunto al più noto problema dell’annoso squilibrio della bilancia dei pagamenti Usa: a fronte della crisi e delle restrizioni dei finanziamenti bancari tradizionali, le imprese multinazionali hanno fatto un uso del tutto inconsueto di swaps in dollari; in altri termini, il fiume di denari del piano Paulson è andato in questo modo a finanziare non le imprese Usa ma multinazionali ed ha creato un vasto (e non regolato) mercato off-shore per il dollaro..In breve quali che possano essere le congetture sui movimenti dei cambi a breve termini, analisi come quelle del DIW Berlin e della Federal Reserve Bank di New York hanno convinto i consiglieri economici del nuovo Governo tedesco ad un mutamento di rotta a lungo termine (in favore della domanda interna, piuttosto che di quella internazionale) non solamente ad un cambiamento di marcia, quale un passo più veloce per diminuire il tasso d’aumento della disoccupazione. E’ un cambiamento “dall’alto”: un sondaggio appena pubblicato da Forsa (un istituto indipendente di sondaggi d’opinione) afferma che il 70% dei tedeschi (a ragione del timore atavico dell’inflazione) è, paradossalmente, contrario ad una riduzione della pressione fiscale.
E’ in corso un mutamento di fondo nelle strategie di bilancio (20 su 27 Stati dell’Unione sono sotto procedura d’infrazione del “patto di stabilità”) che caratterizzerà il futuro dell’Europa molto più di quali saranno le scelte in materia di Presidente del Consiglio Europeo e di Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Europea. Il mutamento – è questo l’aspetto più interessante – è pilotata non dal club Med (Grecia, Italia, Portogallo, Spagna) generalmente considerato “lasco” e “creativo” in materia di conti pubblici, ma dalla Germania, considerata da sempre “tutore” del rigore in tema di bilancio e moneta. Per l’esercizio di bilancio, 2010 il Governo di Berlino ha programmato un indebitamento netto della pubblica amministrazione pari al 6,2 percento del Pil (oltre il doppio del limite massimo consentito dal “patto”). Le interpretazioni correnti attribuiscono all’aumento della disoccupazione (causato dalla recessione mondiale) il cambiamento di marcia. Esaminando dati (e lavori ancora inediti) ci si accorge che si tratta di un più profondo mutamento di rotta , tale da sollevare interrogativi sull’unione monetaria e sul futuro delle politiche economiche di altri Paesi (tra cui, ovviamente, l’Italia). Riguarda l’Italia perché se il mutamento di rotta in atto in Germania è effettivo, anche da noi si dovrà mettere meno l’accento sulla domanda estera (cioè sull’export) e più su quella interna (con implicazioni non secondarie per la politica dei prezzi e dei salari).
In sintesi, dai segnali che vengono da Berlino, sembra che la Germania passi da una strategia in cui l’export è stato il traino del Paese ad una in cui , invece, l’enfasi è sul potenziamento della domanda interna. Un libro recente di Paolo Guerrieri e Pier Carlo Padoan documenta come l’intera Ue (e specialmente Paesi come l’Italia) hanno, al pari della Repubblica Federale Tedesca, puntato, per decenni, su una crescita pilotata dall’export. Tuttavia, non è solo la sfida dei mercati emergenti (tesi di Guerrieri e Padoan) a fare ripensare la strategia, ma quanto sta avvenendo sul mercato dei cambi.
Il principale centro di ricerche economiche tedesche, nel DIW Berlin Discussion Paper n. 943 in corso di pubblicazione, conduce un’approfondita analisi empirica della reattività delle esportazioni tedesche al tasso di cambio con il dollaro Usa dal primo trimestre 1995 al quarto trimestre 2008. L’obiettivo è di identificare la soglie oltre la quale “si soffre troppo” e il perimetro entro il quale “si riesce a sopravvivere”. Il procedimento statistico è innovativo e comporta la costruzione di un complesso algoritmo (validato in una serie di seminari internazionali). L’obiettivo è identificare la soglia oltre la quale “si soffre troppo” ed il perimetro entro il quale “si riesce a sopravvivere” . Lo soglia oltre la quale “si soffre troppo” (e le imprese diventano a rischio di “sopravvivenza”) è quella che quella che rappresenta il limite di una crescita economica basata sull’export; una volta raggiunto questo limite , occorre cambiare strada. E’ un limite che né la Germania né l’Ue controllano in quanto determinato dal mercato internazionale . In sintesi il perimetro viene situato tra 1.30 e 1.55 $ per euro e la soglia a 1.55, il livello sfiorato negli ultimi giorni. Una oscillazione di breve periodo od una tendenza a più lungo termine.
Parte della risposta è fornita da una squadra di economisti della Federal Reserve Bank di New York in un saggio pubblicato nel fascicolo di ottobre di Current Issues in Economics and Finance. Il saggio analizza il crescente mercato del “dollar off-shore”, un fenomeno recente e poco studiato che si aggiunto al più noto problema dell’annoso squilibrio della bilancia dei pagamenti Usa: a fronte della crisi e delle restrizioni dei finanziamenti bancari tradizionali, le imprese multinazionali hanno fatto un uso del tutto inconsueto di swaps in dollari; in altri termini, il fiume di denari del piano Paulson è andato in questo modo a finanziare non le imprese Usa ma multinazionali ed ha creato un vasto (e non regolato) mercato off-shore per il dollaro..In breve quali che possano essere le congetture sui movimenti dei cambi a breve termini, analisi come quelle del DIW Berlin e della Federal Reserve Bank di New York hanno convinto i consiglieri economici del nuovo Governo tedesco ad un mutamento di rotta a lungo termine (in favore della domanda interna, piuttosto che di quella internazionale) non solamente ad un cambiamento di marcia, quale un passo più veloce per diminuire il tasso d’aumento della disoccupazione. E’ un cambiamento “dall’alto”: un sondaggio appena pubblicato da Forsa (un istituto indipendente di sondaggi d’opinione) afferma che il 70% dei tedeschi (a ragione del timore atavico dell’inflazione) è, paradossalmente, contrario ad una riduzione della pressione fiscale.
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