òa “exit strategy” dalla crisi internazionale è stata uno dei temi della riunione a porte chiuse tenuta l’8 ed il 9 ottobre alla Farnesina tra il Forum Strategico del Ministro degli Affari Esteri, esponenti dell’Amministrazione Obama (e dei think thank che lavora per il Presidente Usa, quali la Brooking Institution, il Center for American Progress, l’American Enterprise Institute) e la Fondazione Magna Carta. Un resoconto verrà pubblicato nelle sedi appropriate. Preme sottolineare alcuni elementi che emergono sia dalle due giornate sia da analisi recenti su come la “exist strategy” si delinei a tre livelli distinti (anche se interrelatii): internazionale, europeo ed italiano.
A livello internazionale, nonostante il rapido tasso di crescita dei Paesi emergenti – specialmente dei Bric (Brasile, Russia, India, Cina)- l’onere di far da traino spetta agli Usa. Nel 2020, pur nell’ipotesi che i Bric manterranno gli attuali ritmi di sviluppo, il loro pil complessivo sarà la metà di quello americano. Insufficiente, quindi, da essere la locomotiva. Un lavoro econometrico di Ray Fair dell’Università di Yale traccia prospettive inquietanti sull’abilità degli Stati Uniti d’attuare una politica espansionistica a fronte del progressivo deprezzamento del dollaro, di una nuova ondata d’inflazione e d’aumento del rapporto debito totale interno /pil. E’ necessario equilibrismo ancor più che virtuosismo. Ambedue richiedono un supporto attivo da parte dell’Ue.
All’urgenza che l’Europa si svegli l’”Economist” del 10 ottobre dedica la copertina. Più importante di questo appello giornalistico (in cui si ricorda correttamente che l’Ue a 27 è la maggiore economia del mondo), uno studio dell’Università di Francoforte diramato il 9 ottobre dal Center for European PolicyResearch. Nel lavoro, si utilizzano cinque modelli econometrici differenti per studiare gli effetti moltiplicativi di un aumento della spesa pubblica Ue nel 2009-10. I risultati sono che tali effetti potrebbero essere modesti e spiazzare investimenti e consumi privati. I coefficienti per stimare il moltiplicatore, però, sono di alcuni anni fa – quando l’aumento della spesa pubblica riguardavano principalmente il conto capitale non il sostegno dei redditi. Inoltre, un ritardo nella politica espansionistica- potrebbe avere – dice lo studio- effettivi negativi sulla crescita (e quindi sulla “exit strategy”). Da uno dei santuari dell’ortodossia (l’Università di Francoforte) giunge un appello implicito: invece di iniziare procedure d’inflazione e minacciare sanzioni, sospendere in questa fase alcuni vincoli che non permettono all’Ue di fare la propria parte. Tanto più che l’apprezzamento dell’euro e la bassa domanda interna non prospettano preoccupazioni sul lato dell’inflazione.
Per l’Italia – e per la Francia e la Germania (le tre economie dell’Europa continentale la cui crescita è da decenni maggiormente legata all’export)- l’”exit strategy” (ed il contributo a quella Ue ed internazionale) vuol dire accelerare il riassetto strutturale in cui lo sviluppo dipenda di più dalla domanda interna che da quelle di mercati dove i Paesi emergenti acquistano sempre più competitività. Ciò implica non solamente liberalizzazioni ma anche rivedere una politica che negli ultimi dieci anni ha mantenuto stazionari, in termini reali, i redditi medi da lavoro (e comportato una diminuzione di quelli delle fasce più basse) mentre quelli da capitale sono cresciuti del 25% circa. Redditi da lavoro stazionari (od in decremento) incidono negativamente sulla domanda interna, specialmente di beni di consumo durevole di massa . Ciò vuol anche dire contribuire a fare uscire Italia, Ue e mondo dalla crisi un mondo con più ferme certezze. Non solamente, sotto profili tecnici quali quelli della regolazione finanziaria ma soprattutto nei rapporti tra individui, famiglie, imprese e amministrazioni pubbliche. Un’economia, quindi, più legata alla produzione , ai bisogni concreti delle persone.
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