Roma, 26 ott (Velino) - Il “Simon Boccanegra” di Giuseppe Verdi, in scena a Palermo dal 23 ottobre, si caratterizza per due aspetti che spiegano la buona gestione del Teatro Massimo nel diffondere la “musa bizzarra ed altera”. La replica del 29 ottobre, con inizio alle 18,30, sarà proiettata in diretta e in alta definizione in 100 cinema, in gran misura di piccole dimensioni, di Italia, Francia e Germania dove si potrà vedere al prezzo della normale visione di un film. Parti dello spettacolo verranno trasmesse in prime time il 4 novembre in un programma televisivo de La7 dedicato alle polemiche in corso sulla gestione delle fondazioni lirico-sinfoniche. A queste caratteristiche, va aggiunto un dato: nel 2009, che sta per terminare, il “Massimo” è stato visitato da 160 mila paganti, spesso studenti a ingresso ridotto, nel quadro di un programma mirato sia a rendere il teatro sempre più radicato nella città e in un bacino d’utenza che riguarda l’intera Sicilia occidentale, sia ad attirare melomani dal continente e dall’estero. Il “Massimo” è la testimonianza di come, anche con le regole attuali, ossia a legislazione vigente, un teatro, un tempo noto per i suoi dissesti, può funzionare bene se applica alcuni principi di base per avere produzioni di qualità. Tra questi i più significativi riguardano co-produzioni e ingaggi di una squadra di artisti per diverse opere del loro repertorio al fine di assicurare continuità ai primi e contenere i cachet che l’ente deve pagare per ogni singolo spettacolo. Si tratta di pochi principi che basterebbe includere in un regolamento, che può avere la forma di un decreto ministeriale, di appena una pagina.
Simon Boccanegra è il primo doge di Genova nel periodo storico di transito dal Medioevo al Rinascimento. L’opera è stata una delle più “maledette” tra le “opere maledette” di Verdi. Fu un tonfo alla “prima” alla Fenice nel 1857 e, rimaneggiata nel libretto e nella musica, ebbe esiti modesti nelle riprese a Reggio Emilia, Milano, Napoli e Firenze nel 1858-59. Ripensata, con l’aiuto di Arrigo Boito che rimise mano a parti essenziali del libretto, fu un successo di breve durata quando la versione, adesso corrente, raggiunse La Scala nel 1881. Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, venne dimenticata. Gino Marinuzzi, consapevole che si trattasse di un capolavoro unico nel teatro verdiano ed europeo più in generale, tentò di rilanciarla, a Roma, nel 1934. Da allora, “Boccanegra” ha ripreso un lento cammino, giungendo alla consacrazione internazionale vera e propria all’inizio degli anni ‘70 grazie a due edizioni eccellenti, ma molto differenti: quella di Gianandrea Gavazzeni, tragica, cupa, quasi infernale (ascoltabile in un mirabile cd della Rca, nettamente superiore a una versione sempre curata da Gavazzeni pochi anni prima), e quella di Claudio Abbado, invece, dolce, densa di colori chiari e di volumi leggeri (impareggiabili le evocazioni marine) che in un allestimento di Strehler e Frigerio ha viaggiato a Londra, Parigi, Mosca, Washington e Vienna ed è disponibile in cd e in dvd.
È anche una delle opere più apertamente “politiche” di Verdi. Le diverse versioni di “Boccanegra” e l’epistolario del maestro di Busseto, rivelano come Verdi fosse un partecipante entusiasta al movimento di unità nazionale, ma diventasse progressivamente deluso da una “politica politicante”,come il protagonista del romanzo incompiuto “L’imperio” di Federico De Roberto, sempre più distante dalla sua visione lungimirante. Nella scena-chiave di “Boccanegra”, il doge fa proprio l’appello di Francesco Petrarca di porre fine alle guerre tra le repubbliche di Genova e di Venezia allo scopo di lavorare insieme per un’Italia libera, ma non è compreso né dai patrizi né dai plebei. Ciò innesca l’intrigo che porta alla catarsi finale. “Boccanegra” (i cui temi “politici” in parte verranno ripresi in “Don Carlo” e in “Otello”) svela un rapporto tormentato con la politica analogo a quello con la religione: la visione a lungo raggio della Politica con la “p” maiuscola e i programmi per realizzarla vengono bloccati da una politica con la “p” minuscola ridotta a intrighi.
L’edizione in scena a Palermo, che si vedrà in 100 città, è una co-produzione con Bologna dove ha debuttato circa due anni fa. Regia, scene, costumi e luci (affidati a Giorgio Gallione, Guido Fiorato, Bruno Ciulli) non sono cambiati. È rimasto anche il protagonista (Roberto Frontali). È mutato, però, il maestro concertatore e direttore d’orchestra e gran parte del resto del cast. A Bologna, vennero mossi rilievi critici nei confronti della direzione musicale di Michele Mariotti, allora appena 28enne, lanciato improvvidamente come enfant prodige dai media con un’opera poco adatta ai “bollenti spiriti” e ai “giovanili ardori” di un giovane. I tempi erano concitati e tra cantanti e golfo mistico non c’era la sintonia che ci si sarebbe attesa. A Palermo la bacchetta è affidata a Philippe Auguin: una concertazione puntuale, non stellare, ma più vicina a quella magistrale di Gavazzeni che alla più diffusa di Abbado. Frontali è un buon Boccanegra, con molto esperienza e in grado di supplire con una recitazione di alto livello a qualche stanchezza vocale.
Il suo avversario è Ferruccio Furlanetto, uno Jacopo Fiesco da antologia per la morbidezza del canto anche nelle tonalità più gravi. Amarilli Nizza è la protagonista femminile: a volte “spinge” un po’ troppo, ma affronta con sicurezza l’impervio ruolo. Walter Fraccaro ha perso peso (e il costume lo mostra ancora più snello) quindi è un credibile Gabriele Adorno sulla scena: timbro chiarissimo e volume da riempire il vasto teatro. Una scoperta è Gezim Myshketa, nel ruolo del “cattivo” Paolo Albiani, interpretato, vocalmente e scenicamente, con una capacità che non si vedeva da anni.
(Hans Sachs) 26 ott 2009 15:19
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