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Musica, tra “Festival” e “contro-festival” è il mese di Verdi
Roma, 5 ott (Velino) - Questo mese di ottobre appena cominciato offre quasi in parallelo due festival dedicati a Giuseppe Verdi. Da quando Mauro Meli (sovrintendente) e Yuri Temirkanov (direttore musicale) sono alla guida del Teatro Regio di Parma, hanno cercato di dare una sferzata e di fare diventare la città ducale la “capitale europea della musica”. Meli viene dalla guida di Ferrara Musica, il Lirico di Cagliari e la Scala; Temirkanov da quella della Filarmonica di San Pietroburgo. Hanno tracciato un programma mirato a mettere in scena tutte e 27 le opere di Verdi in edizioni “esemplari” entro il 2013 (secondo centenario dalla nascita del compositore), da mettere poi in un cofanetto dvd da diffondere in tutto il mondo all’insegna di un “made in Parma” che per molti vorrebbe dire “made in Verdi”. Un progetto del genere comporta naturalmente collaborazioni internazionali, tournée e supporto pubblico e privato. L’attuazione del progetto è iniziata circa cinque anni fa. Le collaborazioni internazionali e le tournée non sono mancate.
Il supporto locale è stato vivace e l’amministrazione centrale dello Stato, attraverso Arcus (la S.p.a. del ministero dell’Economia e delle finanze e di quello per i Beni e le attività culturali), ha concesso un finanziamento straordinario che, all’epoca, ha irritato altri teatri. La crisi economica e finanziaria internazionale, però, ha colpito le entrate dell’erario. Ne hanno sofferto, quindi, i fondi per lo spettacolo, la stessa Arcus si trova a corto di risorse e gli sponsor locali fanno fatica a vendere i loro prodotti meccanici e agroalimentari. Il “Festival” con la “F” maiuscola è cominciato il primo ottobre e proseguirà fino al 28 di questo mese, ma ha due sole opere complete in cartellone (“I due Foscari” e “Nabucco”) più diverse in versione “Bignami” e numerosi concerti. La cittadina di Busseto è irritata perché, per la prima volta da decenni, il suo delizioso teatrino non ospita un’opera.
Come se ciò non bastasse, da sabato scorso fino al 16 ottobre al Teatro Comunale di Firenze è in corso un “contro-festival” verdiano: le tre opere “popolari” (“Rigoletto”, “Trovatore”, “Traviata”) presentate in repertorio si possono vedere in tre giorni. Affidate a unico regista, Franco Ripa di Meana noto per allestimenti a basso costo ma densi di idee, schierano tre maestri concertatori di rango (Stefano Ranzani, Massimo Zanetti, Andrea Callegari), un cast internazionale di livello (Alberto Gazale, Desirée Rancatore, Stuart Neill, Kristine Lewis, Andrea Rost, Franco Vassallo, Saimur Pirgu) e prezzi popolari (dai 50 ai 20 euro). Infine, il colpo basso: l’intera operazione viene portata a Reggio Emilia, in pura terra verdiana, nell’elegante Teatro Romolo Valli. La manifestazione di Parma è stata aperta nella cattedrale dalla “Messa da Requiem”. Avrebbe dovuto dirigerla Temirkanov ma, ammalato, è stato sostituito da Lorin Maazel che ha avuto il tempo di fare solo una prova di assestamento nel pomeriggio del giorno del concerto.
La “Messa da Requiem”, grandissimo capolavoro tra i tanti del Maestro di Busseto, non ha nulla di religioso. E’ un grande melodramma laico di riflessione sulla morte: il ventottesimo, se lo si aggiunge ai 27 appositamente concepiti per la scena lirica, oppure il ventiseiesimo se si li conta in ordine cronologico di composizione e rappresentazione. Come molte figure del Risorgimento (Manzoni, Rosmini e pochi altri rappresentano eccezioni), Verdi era ateo, un ateo tormentato, e tale è rimasto per tutta la vita. Lo testimoniano non solo i suoi carteggi, disponibili anche in edizioni abbreviate, ma soprattutto le sue opere, specialmente quelle degli anni più prossimi al “Requiem”. In “Don Carlos” e in “Aida” la religione è rappresentata come opprimente e spietata nei confronti di tutti, anche del potere politico: puro esercizio di potenza da parte del “Grande Inquisitore” nella prima opera e della classe dei sacerdoti nella seconda. Ne “La forza del destino”, che pur si svolge tra chiostri e conventi, la presenza di Dio è confinata nell’ultima scena dell’edizione approntata per l’Italia. In “Falstaff”, l’addio alla vita è una fuga in cui si sogghigna che “tutto il mondo è una burla”.
Affermare e anzi ribadire la natura puramente laica del “Requiem”, composto per ricordare Manzoni, non significa sminuirne il valore. E’ un grande capolavoro la cui parte centrale (quel “Dies Irae” articolato come un immesso atto d’opera) evoca la violenza e la vastità del suono di una vita intensamente vissuta e la cui conclusione (la dolcissima “Lacrimosa”) è una meditazione sulla fragilità umana di fronte al cosmo. La grandezza, tanto più tragica quanto più immanente, del “Requiem” appare nelle sue dimensioni se lo si raffronta con i “quattro pezzi sacri”, tanto eleganti nei loro equilibri da parere quasi artificiali. Quello del “Requiem” è un Verdi che ha già composto “Aida”, di cui si avvertono echi specialmente nei passaggi per il mezzo-soprano, e che ha metabolizzato la lezione del “Lohengrin” ascoltato tre anni prima a Bologna.
Maazel ha guidato in modo impeccabile l’orchestra e Martino Faggiani il coro, vero e proprio quinto protagonista del dramma. Il tenore Francesco Meli ha ispessito in questi ultimi anni la voce mantenendo un timbro chiarissimo: forse sarà lui il Bergonzi di domani. Daniela Barcellona si è rivelata ancora una volta vera e propria forza della natura con un bellissimo fraseggio e grande abilità negli acuti e nel raggiungere tonalità basse. Alexaneder Vinogradov è un bravo basso di scuola russa, con tutti i pregi e i difetti che ciò comporta. Poco adatta alla parte Svetla Vassileva: negli ultimi anni si è avventurata in ruolo distanti dalla sua vocalità (specialmente “Traviata” che ha cantato spesso) e se ne avvertono gli esiti. Ha una voce piccola , non riesce a raggiungere tonalità gravi e spinge eccessivamente sugli acuti. L’avere accanto Daniela Barcellona non le ha giovato.
“I due Foscari” è l’opera più breve e una delle meno rappresentate di Verdi, anche se la scorsa stagione si è vista per numerose repliche alla Scala, ignorata addirittura per circa mezzo secolo, sino a quando non venne “riscoperta” da Carlo Maria Giulini per una delle memorabili esecuzioni della Rai. Venne ripresa sotto l’egida di Francesco Siciliani per il “Maggio Fiorentino” e definitivamente rilanciata da Bruno Bartoletti a Roma nel 1968 in un allestimento magico che approdò al Metropolitan e preparò il vero e proprio “revival”. E’ opera cupa, tratta da un poema ancor più cupo di Byron. In scena non avviene nulla in quanto tutto accade prima e i fatti di rilievo che succedono durante i tre atti si verificano, in gran misura, dietro le quinte. Ha solo tre personaggi di rilievo e dato che segue quasi le regole dell’unità aristotelica (tutto in un giorno, nel Palazzo Ducale e dintorni), anche lo sviluppo psicologico dei protagonisti è limitato.
Ildebrando Pizzetti, che ne adorava lo spartito e ne promosse la rappresentazione scenica del 1968, ne vedeva un dramma in musica modernissimo. In effetti, anche se “I due Foscari” appartiene agli “anni di galera” di Verdi (e come tale venne eseguita nella versione concertata da Maurizio Arena nell’edizione discografica Nuova Era del 1984), è una tragedia lirica, per alcuni aspetti agganciata alla prima metà dell’Ottocento e per altri già rivolta alla fine del secolo, se non già al Novecento: pezzi chiusi, naturalmente, ma pochi; intercalati da brevi intermezzi; enfasi sul declamato; un continuo orchestrale denso di mezze tinte, pur nella cupezza generale dell’opera. Non è solo una tavolozza di “Simon Boccanegra”, uno dei lavori più sentiti da Verdi che ci lavorò per quasi tre lustri, nonché tra i più commoventi. È un piccolo, scarno capolavoro imperniato sull’amor filiale, tema centrale della vita e dell’opera di Verdi. E questo ne spiega il successo degli ultimi anni.
Parma ne ha presentata una produzione di livello, nata a Bilbao e curata da Joseph Franconi Lee (regia) e William Orlandi (scene). I tre atti vengono eseguiti con un solo intervallo, in una scena unica in color legno e con vari praticabili, che, con ritmo cinematografico, ci portano nei vari ambienti di Palazzo Ducale e ci mostrano squarci della Piazzetta San Marco e del Canal Grande. Le toghe rosse del Consiglio dei Dieci e l’oro degli abiti del Doge si stagliano sul legno della scena unica e sul grigio o nero degli altri costumi. Puntuale e serrata la concertazione di Donato Renzetti. Ottimo il coro guidato da Martino Faggiani. A circa 68 anni, Leo Nucci (Francesco Foscari) domina la scena drammaticamente e vocalmente. Di grande spessore Tatiana Serjan nel terribile e difficilissimo ruolo di Lucrezia Contarini. Roberto De Biasio è un efficace Jacopo Foscari, ma al termine dell’opera risultava affaticato da una parte anche essa terrificante.
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