martedì 20 ottobre 2009

Il Cambio dello yuan e i suoi paradossi Il Velino 20 Ottobre

Roma, 20 ott (Velino) - Il fine settimana scorsa un centinaio di testate americane hanno pubblicato un editoriale di Floyd Norris sull’esigenza che la Cina riveda profondamente la propria politica in materia di tasso di cambio, in pratica agganciato al dollaro Usa (nei cui confronti è stato leggermente rivalutato circa un anno e mezzo fa. Norris sottolinea come lo scorso febbraio un dollaro Usa valeva 80 cents di euro e 6,82 yaun e la settimana 67 cents di euro e sempre 6,82 yuan. Senza sganciare lo yaun dal dollaro- sosteneva l’editoriale – inutile pararle di nuove regole – le “global rules” del “Lecce Framework” e simili documenti- poiché gli squilibri sono destinati ad acuirsi (aumento crescente dei conti con l’estero Usa, deprezzamento sempre maggiore del dollaro nei confronti dell’euro) e la comunità internazionale sarà preoccupata da parare questa o quella falla piuttosto che definire un nuovo quadro regolatorio ed internazionale.

Quasi in parallelo l’autorevole Revue de l’OCFE, la rivista dell’istituto francese per lo studio della congiuntura economica, pubblicava non un articolo ma un vero e proprio saggio di Mesteri Sana, Henry Sterdyniak e Antoine Bouveret, tre “teste d’uove” non solamente dell’istituto in questione ma anche della Università Paris XI a Porte Dauphine. Così come l’editoriale di Norris riflette il pensiero dell’Amministrazione (e dell’industria) Usa, il saggio rispecchia un punto di vista ancora non generalmente condiviso ma che sta cominciando a fare strada in Europa. In sintesi, il lavoro, corredato da un’analisi econometrica, disputa la tesi secondo cui la valuta cinese è sotto-prezzata del 15 per cento-20 per cento rispetto a quella americana ed afferma che in una situazione apparentemente di piena occupazione ma in cui questo termine vuol dire 150 milioni di persone che cercano lavoro senza trovarlo, la politica di cambio di Pechino è , dal punto di vista cinese, perfettamente razionale, anzi ottimale. Un punto di vista analogo viene presentato da un economista della Repubblica Popolare Xianoyuan Jiang in un saggio intitolato “La lunga marcia della Cina verso una maggiore apertura al mercato”.

Una politica ottimale per la Cina lo è anche per il resto del mondo? Per rispondere prendiamo spunto da un saggio pubblicato da Angus Maddison (decano degli economisti che studiano contabilità economica nazionale) apparso nel fascicolo di luglio della Review of Income and Wealth. Maddison produce nuove stime del pil cinese e della sua crescita: tra il 1978 ed il 2003 il tasso di crescita è stato del 7,9 per cento , non del 9,6 per cento delle statistiche ufficiali (che esagerano l’andamento della produzione industriale), a parità di potere d’acquisto (utilizzando, quindi, non il tasso di cambio ufficiale ma quello che riflette il costo di simili panieri di beni e servizi con i Paesi Ocse) nel 2005 la Cina era già la seconda maggiore economia del mondo, pari all’80 per cento di quella Usa, non al 50 per cento come affermano le stime della Banca Mondiale. Nello stesso fascicolo della Review of Income and Wealth , una squadra di economisti americani e cinesi stimano i tassi di crescita della produttività del lavoro e del capitale in 33 comparti manifatturieri della Cina tra il 1982 ed il 2000. I messaggi che se ne traggono sono essenzialmente due: a) la principale fonte di aumento della produttività è stata l’accumulazione di capitale non l’incremento della produttività del lavoro; b) dalla seconda metà degli Anni 90 è in atto un processo di decelerazione dell’incremento della produttività.

Tiriamo le somme. Se il pil della Cina è l’80 per cento- non il 50 per cento- di quello Usa, se il suo tasso di crescita è sostenuto ma minacciato da una decelerazione della produttività, una politica del cambio mirata a favorire l’espansione interna (dove ci sono 150 milioni di senza lavoro) non è razionale solamente per Pechino, ma , forse, pure per il resto del mondo in generale e per l’Europa in particolare. Vale la pena, quanto meno, aprire un dibattito senza troppe idee preconcette.

(Giuseppe Pennisi) 20 ott 2009 18:50

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