CLT - Opera, a Roma la versione parigina del “Tannhauser” di Wagner
Opera, a Roma la versione parigina del “Tannhauser” di Wagner
Roma, 30 ott (Velino) - Il “Tannhäuser” di Richard Wagner è tornato a Roma, al Teatro dell’Opera, dove è in scena fino al 6 novembre. I comunicati stampa riportano che il rientro avviene dopo 25 anni. Ciò non è esatto. Nel 1984, il Teatro dell’Opera importò da Berna un allestimento di quella che viene considerata la “prima” edizione dell’opera, comunemente chiamata “versione di Dresda”, composta tra il 1843 e il 1845, anno in cui, il 19 ottobre, andò in scena nella capitale della Sassonia. Nel 2001, però, l’Accademia di Santa Cecilia ha presentato un’edizione semi-scenica della “versione di Parigi”, che si vide una sera sola, il 13 marzo delle 1861 all’Opéra, per poi non essere più replicata a causa del tumulto che scatenò. In effetti, tanto la “versione di Dresda” quanto la “versione di Parigi” vennero rimaneggiate più volte prima della pubblicazione, in occasione di varie rappresentazioni in teatri del mondo, in lingua tedesca. La “versione di Parigi”, oggi comunemente rappresentata, venne pubblicata soltanto nel 1888, un lustro dopo la morte del compositore, in una partitura curata meticolosamente dalla seconda moglie del compositore, Cosima. A essere pignoli, la “versione di Parigi” manca dal Teatro dell’Opera di Roma da circa 40 anni, mentre si è vista di recente in diversi teatri italiani (San Carlo, Massimo, La Scala agli Arcimboldi).
Nel 1984, l’esecuzione romana della “versione di Dresda” è stata una vera e propria chicca a ragione della rarità di una rappresentazione del lavoro del 1845, ma la salsa bernese in cui era condita lasciò a desiderare. La vicenda delle due versioni non è un dettaglio erudito per wagneriani incalliti. Le due “Tannhäuser” sono opere profondamente differenti nella concezione drammatica e nella partitura. Tranne poche modifiche (il balletto richiesto dall’Opéra e proposto come “baccanale” all’inizio dell’opera, invece che al secondo atto come da prassi, fu una delle determinanti che innescarono il tumulto), il testo di arie, recitativi, sestetti non è cambiato. “Tannhäuser”, precede “Lohengrin”, ed è un’“opera romantica” in senso stretto, non un “musikdrama. Nel 1842-45, però, Wagner era un buon luterano, fedele alla prima moglie Minna, con cui aveva condiviso molte ristrettezze prima di approdare al “posto” a Dresda, e lavorava per la puritana corte di Sassonia: la vicenda del bel menestrello fuorviato dal piacere della carne, del suo pentimento e del perdono divino era un apologo edificante, con una partitura rigorosamente diatonica in cui vere e propri “canzoni” venivano inserite nel flusso orchestrale.
Nel 1860, invece, non soltanto Wagner era costretto ad aggiungere il balletto, ma conduceva un’esistenza sessuale quanto meno distinta e distante da quella che avrebbe dovuto seguire un buon luterano: aveva abbandonato Minna, dopo averla tradita con varie ninfette e “veline” d’epoca, stava per portare via la moglie al proprio benefattore (l’industriale tessile Wesendock), aveva un ménage à trois con Cosima Litz e il di lei marito (il suo direttore d’orchestra favorito, von Bülow), anzi à quatre perché nel letto di Cosima finiva spesso l’allora giovanissimo Hermann Levi, che qualche anno dopo, dato un “ben servito” a von Bülow, ne avrebbe preso il posto come direttore d’orchestra favorito di casa Wagner. Il tutto accompagnato da un fiume inarrestabile di denaro, proveniente dai suoi benefattori. Chi non ha tempo o voglia di leggersi le monumentali biografie di Wagner (la più nota è in ben sei volumi), trova il tutto in un piacevole libro di 150 pagine appena giunto in libreria: “Richard Wagner. Das Rheingeld, un fiume di denaro” (Zecchini Editore) di Vincenzo Ramon Bisogni. Questa vita complicata si rispecchia a pieno nella “versione di Parigi” del “Tannhäuser”. Venere non è un genio del male da bordello (che il trentenne Wagner frequentava nonostante avesse continui complessi di colpa, dato che voleva essere fedele a Minna), ma una donna appassionata e sinceramente innamorata del menestrello, disposta a tutto pur di tenerlo nel suo letto, nel primo atto, e riportarcelo, nel terzo. La partitura, inoltre, è intrisa di cromatismi, quelli con cui in “Tristan und Isolde” Wagner aveva gettato il germe della musica contemporanea.
Inizialmente, il ritorno di “Tannhäuser” al Teatro dell’Opera nella “versione di Parigi” avrebbe dovuto essere d’importazione: si sarebbe presa la produzione curata da Robert Carsen, contestata all’Opéra di Bastille di Parigi ma applauditissima al Liceu di Barcellona. Molto trasgressiva e molto costosa (90 mimi nudi in scena), portava la vicenda nel mondo disinvolto della Pop Art degli anni ‘70. L’alto costo ha reso l’operazione proibitiva. Si è, quindi, tentato di rinfrescare una vecchia edizione curata da Camillo Parravici, ma l’impresa è apparsa difficile sotto il profilo tecnico. Allora, si è deciso di far tutto in casa propria – decisione comunque da apprezzare dato che il teatro dispone di ottime risorse tecniche -, affidando la regia all’ottuagenario Filippo Crivelli, per la prima volta alle prese con Wagner, le scene al direttore del Dipartimento pertinente Maurizio Varamo e i costumi alla sua controparte Anna Biagiotti. Sulla base delle prove sembra si tratti di uno spettacolo per educande: contrapposizione tra Bene e Male, tra ordine e disordine in una Turingia medioevale pulita, da cartolina illustrata. Più adatto alla moraleggiante “versione di Dresda” che alla peccaminosa “versione di Parigi”. Dal 17 marzo al 2 aprile, il “Tannhäuser” parigino sarà in scena alla Scala in una edizione curata dai catalani de La Fura dels Baus, con la regia di Carlos Padrissa. Probabile che se ne vedranno delle belle. Da fare arrossire lo stesso Carsen.
(Hans Sachs) 30 ott 2009 10:04
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