Il Teatro Comunale di Bologna ha inaugurato la stagione 2007-2008 con “Simon Boccanegra”, una delle opere “maledette” di Giuseppe Verdi. Fu un tonfo alla “prima” a La Fenice nel 1857; rimaneggiata, ebbe esiti modesti a Reggio Emilia, Milano, Napoli e Firenze nel 1858-59. Riconcepita, con l’aiuto di Arrigo Boito, fu un successo di breve durata quando la versione adesso corrente raggiunse La Scala nel 1881. Dal 1934, quando venne rilanciata a Roma, è giunta gradualmente alla consacrazione internazionale all’inizio degli Anni 70 grazie a due edizioni molto differenti: quella di Gianandrea Gavazzeni, tragica, cupa, quasi infernale e quella di Claudio Abbado, densa di colori chiari e di volumi leggeri (impareggiabili le evocazioni marine). La “maledizione” è da imputarsi non solo ad un libretto intricatissimo ma anche e soprattutto ad una partitura bifronte, rivolta lanciata verso l’avvenire (l’impiego dei fagotti e del clarinetto basso sarebbero stati impensabili se Verdi non avesse ascoltato la musica di Wagner),pur se rivolta ancora verso il passato. Ciò rende particolarmente difficile la direzione musicale del lavoro.
L’intreccio è un sofferto apologo. Nella Genova del Duecento, il venticinquenne Simone, uomo del mare, entra in politica nella speranza di sposare, tramite l’ascesa sociale, la donna amata, una patrizia. Diventa Doge ma la sua donna muore e la loro figlia viene rapita. Per un quarto di secolo esercita il potere diventando sempre più solo e più lontano (anche dal mare). Quando ritrova la figlia e scopre affetto paterno per il giovane di cui lei è innamorata, il potere lo annienta, proprio mentre sta per riavvicinarsi definitivamente al suo mare. A questo dramma “privato”, se ne affianca uno “pubblico”: l’appello alla fine delle guerre tra Genova e Venezia ed il sogno di un’Italia unita innescano i tradimenti e la catarsi finale, illuminata, però, dalla speranza che il giovane genero potrà proseguire il cammino tracciato.
Il nuovo allestimento (a Bologna e Reggio Emilia sino al 25 novembre ed a Palermo la prossima stagione) è in una Genova in bianco e nero (con il blu del mare nel fondale) ispirata ad incisione tedesca dell’ultimo scorcio del Quattrocento. Elementi scenici essenziali contrassegnano i vari ambienti. Grande attenzione per la direzione musicale affidata a Michele Mariotti, 28nne enfant prodige. La lettura della partitura è puntuale, ma tetra e monocorde; non si avverte né la brezza marina (che pervade la scrittura orchestrale) né i momenti di maggiore intensità lirica (il primo quadro del primo atto). Non vengono colti gli slanci verso l’avvenire (che caratterizzano l’orchestra più che gli aspetti vocali). In effetti, prima di dirigere “Boccanegra” si dovrebbe affrontare non solo Rossini e Donizetti ma anche il Novecento “storico” (Puccini, Malipiero, Korngold, Zemlisky). La stoffa, però, c’è; con cura Mariotti potrà crescere bene.
Tra le voci primeggiano i colori scuri: Roberto Frontali e Giacomo Prestia (rispettivamente Boccanegra ed il suo rivale Fiesco) forniscono una prova di tutto rispetto, mentre Marco Vratonga (il diabolico Albiani) scivola nel bozzettismo. Di livello Carmen Giannattasio (Maria, figlia di Boccanegra) anche se alla “prima” tendeva a sforzare le note alte. Dopo una prima parte deludente (timbro opaco, volume modesto), Giuseppe Gipali (Gabriele, fidanzato di Maria), ha trovato vigore nella seconda. Soprattutto si avverte meno di quanto si dovrebbe che il colore chiaro di Maria e Gabriele dovrebbe giustapporsi ad una vocalità dominata dai baritoni e dai bassi. Lo spettacolo viene trasmesso live in 50 sale cinematografiche il 18 novembre.
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