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Il Partito per la Rifondazione Comunista (Prc) ha dichiarato che, con perfetto stile staliniano, si turerà il naso ma voterà compatto la fiducia che il Governo pone al proprio maxiemendamento alla discussione sul dll sul welfare. Ha anche accennato al prezzo: un riassetto della struttura di Governo (leggasi: Prodi torni a Via Gerusalemme 7 a Bologna) in gennaio.
Come preannunciato su L’Occidentale del 21 novembre si è molto vicini al momento in cui a Prc (i cui sondaggi indicano una contrazione dei voti) conviene rompere al tavolo dove gioca la propria incidenza sui contenuti dell’azione di governo per puntare su quello dove la partita riguarda come massimizzare la propria popolarità nel bacino elettorale degli scontenti.
Le tensioni crescono anche tra le varie “anime” (si diceva un tempo) del neonato Partito Democratico (Pd). Sono più profonde di quelle che appaiano in superficie tra vari gruppuscoli che costituiscono le “correnti” che nella sempreterna tradizione democristiana si sono costituite prima ancora che l’anagrafe della politica rilasciasse il certificato di nascita alla nuova formazione. Ed aggravano quelle già in atto tra Pd, “cosa rossa” (ancora nel travaglio del parto), Udeur e Liberal-Democratici.
In breve, si sono accorti che la finanziaria (quale uscita del Senato) ha in pratica eliminato quel poco che era stato previsto del ddl varato dal Governo il 30 settembre scorso in materia di politica della famiglia. Un brillante saggio di Alberto Alesina e Paolo Giuliano (ambedue dell’università di Harvard), ancora non disponibile in traduzione italiana, ci ricorda, con un’analisi econometrica comparata di 70 Paesi, che la politica della famiglia non è né di destra né di sinistra ma è una determinante essenziale sia della crescita economica sia di una ripartizione equa dei suoi frutti.
Udeur, Liberal-Democratici e molte anime del Pd speravano che il ddl sul welfare riuscisse a recuperare in materia di politica della famiglia quanto tolto in finanziaria ed aggiungerci anche di più (seguendo la traccia di Alesina di cui non solo Lamberto Dini ma anche Sandra Leonardo Mastella, italo-americana e laureata in filosofia sono attenti lettori).
Da dove si ricava la disattenzione (per impiegare un termine elegante) della finanziaria (quale uscita dal Senato) nei confronti della famiglia? Da un documento asettico che non proviene dall’apposizione ma dagli uffici guidati dal “tecnico” Tomaso Padoa- Schioppa (TP)- documento che pare abbia ulteriormente irritato il “politico” VVV (Viceministro Vicenzo Visco): le tabelle della Ragioneria Generale dello Stato (Rgs) in cui si ricostruisce il bilancio di previsione, in termini di cassa (non meramente di competenza) per il 2008: gli interventi della famiglia perdono 700 milioni di euro (rispetto al ddl varato il 30 settembre). Ci rimettono anche (nel confronto tra ddl del 30 settembre e testo approvato dal Senato) la sicurezza, le forze dell’ordine, la sanità, la difesa, i trasporti ed i beni culturali. Ci guadagnano le pensioni e gli incentivi alle imprese. Il patto tra grande sindacato e imprese, specialmente quelle “collaterali” (pochi se ne sono accorti) ha sbaragliato tutti. Ciò non promette nulla di buono nelle numerose deleghe previste nel maxi-emendamento su cui il Governo chiede la fiducia.
Un segnalo è chiaro: Prodi & Co. sanno intonare coretti a cappella sulla famiglia , ma al tavolo del gioco (politico-parlamentare) le portano via risorse. Ne debbono essere consapevoli tutti i parlamentari a cui la non tanto allegra compagnia chiede la fiducia.
Alesina A. , Giuliano P. “The Power of the Family"
mercoledì 28 novembre 2007
martedì 27 novembre 2007
ARMONIZZARE LE VALUTE MA NON HA DA PASSA' IL SUBPRIME
Nel tentativo di giungere ad una “armonizzazione” tra le valute cardine della finanza mondiale la nota stonata si chiama finanza strutturata. Una nota sentita da tutti coloro che nel fine settimana del 17-18 novembre hanno partecipato alle riunioni del Gruppo dei Venti (che include oltre ai Ministri dell’Economia ed i Governatori delle Banche centrali del G7 anche quelli della Cina, del Brasile, dell’India, della Russia e di altri Paesi in via di sviluppo od in transizione dall’economia di piano a quella di mercato) tenutasi a Capetown, nonché a quella dei Capi di Stato dell’Opec , svoltasi a Riyhad. In questi organismi informali si sta tentando di attuare un coordinamento tra Usa, Unione moneria europea e Cina per un’intesa dollaro-euro-yuan. Ma tale strategia deve, al tempo stesso, tenere conto della rapida espansione del mercato mondiale dei capitali e portare ad un riallineamento dei cambi. Ed in tempi come gli attuali, è un percorso in salita. Da un lato, invece, la Cina pare ancora restia ad aumentare il valore internazionale dello yuan, pur gradualmente ma i Paesi del Consiglio per la Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrain, Emirati, Kuwait, Oman, Qatar ) sembrano pronti a rivalutare le loro monete del 20% od a sganciarle dal dollaro Usa: decisioni in proposito potrebbero essere prese alla riunione dei loro Capi di Stato in calendario per il 4-5 dicembre prossimo. La rivalutazione verrebbe accompagnata da una graduale riduzione delle loro riserve in dollari.
Nel frattempo, il ruolo della finanza strutturata (sottolineato da Milano Finanza del 17 novembre) nel consentire ai conti con l’estero Usa di giungere ad un equilibrio contabile accresce gli ostacoli alla strategia. E’ ai rendimenti offerti dalla finanza strutturata americana (rispetto agli impieghi tradizionali) che si sono rivolti sempre di più operatori (inclusi in primo luogo Stati sovrani) che operano (specialmente in portafoglio) o negli Usa o acquistando titoli di matrice americana. Ma la crisi dei Cdo sta rimettendo queste tattiche finanziarie in questione. Alle ritrosie cinesi, si aggiungono i timori ed i tremori europei di avere posto troppa fiducia nei Cdo. Giovedì 23 novembre, a mercati chiusi, l’annuncio che due grandi istituti di credito francesi – il Groupe Banque Populaire e il Groupe Caisse d’Epargne- acquistano un’importante compagnia di assicurazione (la CIFG Holding) dalla banca d’investimento Natixis viene letto, non solo in Europa ma anche in Asia, come una nuova indicazione (dopo la mini-tempesta sulla Northern Rock britannica) che il tormentone dal subprime starebbe arrivando in Europa e potrebbe contagiare anche l’Asia: l’operazione è motivata da far mantenere a CIFG un rating AAA prima di un eventuale declassamento a ragione del peso subprime sui suoi conti. Il Presidente della Bundesbank Axel Weber ha avvertito che gli effetti del subprime sulle compagnie di assicurazioni europee potrebbero rimbalzare al altre componenti del mercato. In aggiunta, la Federal Reserve e la Bce stanno immettendo liquidità, in misura significativamente differente, nei loro mercati (nonostante la liquidità mondiale sia abbondante) per salvaguardare , la prima, gli arbitragisti e la seconda banche particolarmente esposte (tramite loro affiliate nei campi delle assicurazione e della gestione finanziaria). Queste tattiche particolaristiche rendono ancora più difficile dare corpo alla strategia del dollaro, dell’euro e dello yuan prima di una soluzione delle tensioni sui Cdo. Si profila, perciò, turbolenza nei cambi.
Nel frattempo, il ruolo della finanza strutturata (sottolineato da Milano Finanza del 17 novembre) nel consentire ai conti con l’estero Usa di giungere ad un equilibrio contabile accresce gli ostacoli alla strategia. E’ ai rendimenti offerti dalla finanza strutturata americana (rispetto agli impieghi tradizionali) che si sono rivolti sempre di più operatori (inclusi in primo luogo Stati sovrani) che operano (specialmente in portafoglio) o negli Usa o acquistando titoli di matrice americana. Ma la crisi dei Cdo sta rimettendo queste tattiche finanziarie in questione. Alle ritrosie cinesi, si aggiungono i timori ed i tremori europei di avere posto troppa fiducia nei Cdo. Giovedì 23 novembre, a mercati chiusi, l’annuncio che due grandi istituti di credito francesi – il Groupe Banque Populaire e il Groupe Caisse d’Epargne- acquistano un’importante compagnia di assicurazione (la CIFG Holding) dalla banca d’investimento Natixis viene letto, non solo in Europa ma anche in Asia, come una nuova indicazione (dopo la mini-tempesta sulla Northern Rock britannica) che il tormentone dal subprime starebbe arrivando in Europa e potrebbe contagiare anche l’Asia: l’operazione è motivata da far mantenere a CIFG un rating AAA prima di un eventuale declassamento a ragione del peso subprime sui suoi conti. Il Presidente della Bundesbank Axel Weber ha avvertito che gli effetti del subprime sulle compagnie di assicurazioni europee potrebbero rimbalzare al altre componenti del mercato. In aggiunta, la Federal Reserve e la Bce stanno immettendo liquidità, in misura significativamente differente, nei loro mercati (nonostante la liquidità mondiale sia abbondante) per salvaguardare , la prima, gli arbitragisti e la seconda banche particolarmente esposte (tramite loro affiliate nei campi delle assicurazione e della gestione finanziaria). Queste tattiche particolaristiche rendono ancora più difficile dare corpo alla strategia del dollaro, dell’euro e dello yuan prima di una soluzione delle tensioni sui Cdo. Si profila, perciò, turbolenza nei cambi.
lunedì 26 novembre 2007
GUILLAUME TELL
Accademia di Santa CeciliA
GUILLAUME TELL
Opera in quattro atti
Libretto di Etienne de Jouy, Hippolite Bis e Armand Marrat
Musica di Gioacchino Rossini
In primo luogo, occorre complimentarsi con l’Accademia di Santa Cecilia per avere avuto il coraggio di produrre un’edizione quasi integrale dell’ultima e più complessa opera di Gioacchino Rossini, Guillaume Tell . Sono state eliminate le danze del terzo atto ed il terzetto del quarto, nonché effettuati alcuni tagli minori al fine di contenere lo spettacolo entro poco più di quattro ore. E’ una sfida che pochi raccolgono. Negli ultimi venti anni, in Italia si ricordano soltanto le produzioni del del Teatro Filarmonico di Verona nel 1992, diretta di Evelino Pidò, e del Rossini Opera Festival (Rof) del 1995, diretta da Gianluigi Gelmetti (nell’edizione critica, in francese , la più vicina a quella che andò in scena il 3 agosto 1829). Alla Scala, l’opera venne presentata integrale nel 1988 (con la direzione musicale di Riccardo Muti) ma in una nuova versione ritmica italiana di Paolo Cattelan.
A Roma, Guillaume Tell mancava dal 1969 quando venne rappresentata alle Terme di Caracalla in una versione molto tagliata ed in traduzione ritmica in italiano, accorciata pure rispetto alla “versione Calisto Bassi” seguita correntemente (anche nella edizioni di Riccardo Muti al Maggio Fiorentino nel 1972). Alla Scala, nel 1988 la regia di Luca Ronconi sperimentò (peraltro con poco successo) una scenografia con proiezioni. Suggestivo, nonostante i limiti del palcoscenico del Filarmonico di Verona, l’impianto di Luciano Damiani per la produzione del 1992. Al Rof, nel 1995 l’intero Palafestival venne trasformato da Pier Luigi Pizzi in montagne e valli dei cantoni svizzeri; era previsto, data la durata dello spettacolo, un intervallo sufficientemente lungo per una cena organizzata in un parcheggio (trasformato in ristorante all’aperto); si entrava in teatro alle 17,30 e si usciva ben dopo la mezzanotte. Alla Staastoper di Vienna ed altri teatri stranieri si sta affermando la versione integrale dopo circa due secoli in cui ha prevalso l’”edizione Calisto Bassi” in tre atti e con tagli tali da rendere difficile la comprensione di certi passaggi drammaturgici.
Le molteplici difficoltà di un allestimento scenico dell’ultimo capolavoro rossiniano per il teatro vengono risolte, nella produzione dell’Accademia di Santa Cecilia, offrendo un’esecuzione in forma di concerto. Non inferiori alla messa in scena ed alla regia sono i trabocchetti in orchestra (una delle più smaglianti e delle voci (specialmente per il tenore nel ruolo di Arnold e per il soprano in quello di Mathilde, mentre il baritono, che impersona il protagonista, ha una parte vocale lunga ma relativamente facile). Ciò rende particolarmente importante la produzione dell’Accademia di Santa Cecilia, perché dopo il suo trionfo a Parigi l’8 agosto 1929 e la lunga serie di repliche all’Accadémie Royal de Musique (allora Teatro Nazionale dell’Opera) , le difficoltà dell’opera indussero, sino a tempi recenti, alla diffusione di edizioni mutilate (e modificate) in varie lingue. Tagli ci sono – come si è detto- pure nella produzione romana, ma tutto sommato di poco rilievo (anche a ragione del limitato spessore musicale delle danze del terzo atto, una concessione alla prassi dell’epoca).
Rossini aveva 37 anni quando compose Guillaume Tell . Successivamente, entrò in una profonda depressione e, sino alla morte del 1868, non lavorò più a opere liriche, ma unicamente ad alcune rare composizione di musica sacra (lo Stabat Mater e la Petite Messe Solennelle) ed a cameristica (Les Péchés de Vielliesse). Secondo la vulgata corrente, Rossini decise di affrontare Guillaume Tell per mostrare, a sé stesso ed al resto del mondo del teatro in musica, di essere in grado di gareggiare con il grand opéra che allora iniziava a mietere successi in Francia ed altrove e che la successiva lunga depressione sarebbe stata causata essenzialmente dal fatto di riconoscere di non essere più al passo con i tempi (in materia musicale). Il dramma di Schiller sarebbe stato scelto proprio per le opportunità che offriva di fare un grande spettacolo (cambiamenti di scena tali da includere, montagne, valli, laghi in tempesta, balletti, incendi). In effetti, il sottostante libertario e liberale di Guillaume Tell (la liberazione dei cantoni svizzeri dal giogo asburgico grazie ad un eroe tutto di un pezzo) pare poco affine ad un Rossini tendenzialmente conservatore, ove non reazionario, e vicino più ai principi del Congresso di Vienna che a quelli della rivoluzione francese ed ancor meno a quelli del terremoto che nel 1848, poco meno di venti anni dalla prima rappresentazione di Guillaume Tell) avrebbero attraversato mezza Europa.
Prima di recensire l’esecuzione prodotta dall’Accademia di Santa Cecilia, è utile precisare alcuni punti che smentiscono la vulgata corrente. L’”opéra” monumentale (quali la “Vestale” di Gaspare Spontini) già da decenni erano sui palcoscenici dei maggiori teatri francesi in quanto legati alla concezione imperial-napoleonica del teatro in musica. Il grand opéra di Auber e Meyerbeer (intimamente legato alla ricca borghesia dell’industrializzazione nascente) era ancora ai primi passi, in effetti soltamente La Muette de Portici precede (di appena un anno) il debutto del rossiniano Guillaume Tell. Quindi, se Rossini ebbe un modello da sfidare non fu il grand opéra , ma le vera rivoluzione musicale apportata in Europa da Der Friechütz di Carlo Maria von Weber che dopo il trionfale debutto alla Staatsoper di Berlino nel 1821 era approdato , non all’Accademie Royale de Musique, ma al più piccolo Odéon in versione francese (Robin de Bois ou les trois balles); nonostante fosse un adattamento con numerosi tagli, ebbe un successo non previsto (327 repliche) ed recò un vento nuovo (la descrizione della natura, il demoniaco, il protagonismo del coro) che si riallacciava, però, in parte a quanto Rossina aveva sperimentato in La Donna del Lago. Il patriottismo libertario di Tell poco aveva a che fare con i principi di democrazia rappresentativa della rivoluzione francese e, successivamente, del 1848. Rossini era sensibile alle mode, quindi alle ventate di liberazione nazionale (temi allora di successo specialmente in Francia e che pervadono già “Mőise et Pharaon” e “Le Siège de Corinthe”). Alla conclusione dell’opera, il liberatore Tell non è alla guida di qualche forma di processo democratico ma il leader carismatico, e giacobino, del proprio popolo. Il silenzio dopo Tell viene adesso attribuito ad un problema di salute : una malattia venerea contratta in una delle case di tolleranza che il pescarese era uso frequentare sin dall’adolescenza, la conseguente astinenza sessuale per diversi anni e la depressione ad essa inerente proprio in un periodo in cui il gran opéra francese, il melodramma verdiano e il musik drama wagneriano cambiavano profondamente il teatro in musica. Le congetture si reggono su ipotesi e rari indizi (presenti proprio del Guillaume Tell: se Rossini non fosse andato in pensione a 37 anni (con un lauto assegno del Tesoro francese dopo cinque anni di vertenza civile e una sentenza della Cassazione) probabilmente la sua evoluzione sarebbe stata più prossima a quella dell’opera romantica tedesca che al melodramma verdiano e del grand opéra francese.
Un’ultima notazioni: delle tante opere tratte da drammi di Schiller da compositori dell’Ottocento, Guillaume Tel è quella più fedele all’originale per la scena drammatica, non musicale. Questa è un’altra delle determinanti della sua complessità. Il lavoro di Schiller, infatti, ha tre temi paralleli: a) il conflitto personale tra Tell ed il Governatore austriaco Gesler; b) la rivolta dei contadini e pescatori svizzeri contro gli assurgici; c) la tensione tra patriottismo e amore nel rapporto tra uno dei leader della rivolta ed una aristocratica asburgica. Il tutto, poi, si svolge in tre differenti cantoni (Url, Sxwyz e Unterwalden) , comportando frequenti movimenti di spazio.
Veniamo adesso alle specifiche dell’esecuzione romana. In primo luogo, Antonio Pappano ha dato ha lettura pittorica, quasi visiva, della partitura: anche senza scene e costumi, dall’orchestra emergono i colori dei picchi nevosi delle Alpi, delle vallate verdi, dei ruscelli azzurri, dei laghi grigi in quanto in tempesta. E’ in questo immenso affresco che viene immerso il dramma politico e personale dei personaggi. Curati i singoli strumenti: dai clarinetti ai fagotti alle arpe (così cruciali nella partitura del Tell) . E’ questa ricchezza pittorica che rende Guillaume Tell così vicino all’opera romantica tedesca, non solo Weber, ma anche Marschner , Hoffmann e del primo Wagner. Una lettura marcatamente differente a quelle di Gelmetti, Pidò e Muti e che lo avvicina all’interpretazione di Gardelli all’inizio degli Anni 70. Il trionfo della libertà è – come indica Rossini nella scrittura orchestrale (ancor più che nei versi del libretti)- il trionfo sgargiante della natura, della purezza dell’aria nelle valli, dopo la tempesta e dopo la catarsi.
Il coro, univoco e multanime anche quando canta monodicamente (altro contatto con l’opera romantica tedesca) è, con l’orchestra, l’altro protagonista effettivo di Guillaume Tell . Le altre edizioni che ho visto (od ascoltato in disco) non colgono tale rilievo perché non dispongono del coro dell’Accademia di Santa Cecilia guidato da Norbert Balatsch. I lustri che Balatsch ha passato a Bayreuth fanno sì che il coro abbia uno spessore wagneriano e che l’esultanza finale anticipi quella dei Die Meistersinger . Tanto coro quanto orchestra hanno ricevuto applausi a scena aperta e ovazioni al termine dello spettacolo.
Ben superiore alla media il complesso vocale. Trattandosi di opera che richiede ben 11 soliti, ci soffermiamo soltanto su alcuni. In primo luogo, sulla vera scoperta della serata, il giovane tenore di agilità americano John Osborn nel ruolo di Arnold. Ha una parte terrificante densa di “do” e di “sì naturale”, nonché sempre tesa verso l’alto. Dopo un primo atto in cui è parso tentennante, forse a ragione delle vaste dimensioni dell’auditorium (mentre è abituato a sale di dimensioni più piccole, e più adatte alla vocalità rossiniana), ha sfoderato i propri mezzi nel duetto e nel terzetto del secondo atto per poi colmare la Sala Santa Cecilia di agilità (e di volume) in “Asile héréditaire” all’inizio del quarto atto che ha ricevuto dal pubblico circa cinque minuti di applausi.
Bella, affascinante e vocalmente perfetta Norah Amsellem, anche lei americana ma già nota in Italia per una strepitosa La Traviata con cui venne inaugurata tre anni fa la stagione del Comunale di Bologna. E’ un soprano lirico puro del timbro chiarissimo, dal fraseggio perfetto e da un registro molto esteso. Dolcissima nel Sombre forêt , diventa sempre più imperiosa (e regale) nel confronto con il Gesler di Darren Jeffrey, serio professionista britannico. Occorre ricordare che nell’affresco rossiniano Arnold e Mathilde sono i soli personaggi che hanno un vero sviluppo psicologico, tormentati tra amore e lealtà ai loro rispettivi status personali. Gli altri nove o sono caratterizzazioni (lo stesso Gesler) o personaggi tutti di un pezzo, privi di sfumature.
E’ questo il caso di protagonista Guillaume Tell : ha un’aria importante Soi, immobile ed è quasi sempre in scena ma è personaggio unidimensionale sempre teso verso il fare il bene e la liberazione della Patria oppressa. Michele Pertusi lo ha impersonato più volte (pure nella edizione del Rof del 1995): non ha perso autorevolezza, anche se la sua voce è meno cristallina di quanto non fosse 12 anni fa. Tra i tanti altri solisti, si devono menzionare almeno Ellie Dehn , Jenny a tutto tondo, e Laura Polverelli, Edwige appassionata. Alex Esposito conferma di essere un baritono di classe, Jérôme Varnier è una promessa da seguire con attenzione.
Del trionfo si è detto. I lettori che lo desiderano possono ascoltare la diretta il 28 novembre alle 19,30 su Radio3.
LA LOCANDINA
GUILLAUME TELL
Opera in quattro atti
Libretto di Etienne de Jouy, Hippolite Bis e Armand Marrat
Musica di Gioacchino Rossini
Guillaume………………………………………..Michele Pertusi
Arnold John Osborn
Mathilde…………………………………………Norah Amsellem
Jemmy…………………………………………..Elly Dehn
Walter…………………………………………..Alex Esposito
Edwige…………………………………………Laura Polverelli
Melchtal………………………………………..Frédéric Caton
Gesler………………………………………….Darren Jeffrey
Rodolphe…………………………………….. Vicent Ordonneau
Lethold……………………………………….Jérôme Varnier
Pécheur……………………………… Celso Albelo
Un Chasseur………………………………...Davide Malvestio
Orchestra e Coro dell’Accademia di Santa Cecilia
Direttore del Coro Norbert Balatsch
Direzione Musicale . Antonio Pappano
Roma, Parco della Musica , 24 Novembre 2004
Giuseppe Pennisi
GUILLAUME TELL
Opera in quattro atti
Libretto di Etienne de Jouy, Hippolite Bis e Armand Marrat
Musica di Gioacchino Rossini
In primo luogo, occorre complimentarsi con l’Accademia di Santa Cecilia per avere avuto il coraggio di produrre un’edizione quasi integrale dell’ultima e più complessa opera di Gioacchino Rossini, Guillaume Tell . Sono state eliminate le danze del terzo atto ed il terzetto del quarto, nonché effettuati alcuni tagli minori al fine di contenere lo spettacolo entro poco più di quattro ore. E’ una sfida che pochi raccolgono. Negli ultimi venti anni, in Italia si ricordano soltanto le produzioni del del Teatro Filarmonico di Verona nel 1992, diretta di Evelino Pidò, e del Rossini Opera Festival (Rof) del 1995, diretta da Gianluigi Gelmetti (nell’edizione critica, in francese , la più vicina a quella che andò in scena il 3 agosto 1829). Alla Scala, l’opera venne presentata integrale nel 1988 (con la direzione musicale di Riccardo Muti) ma in una nuova versione ritmica italiana di Paolo Cattelan.
A Roma, Guillaume Tell mancava dal 1969 quando venne rappresentata alle Terme di Caracalla in una versione molto tagliata ed in traduzione ritmica in italiano, accorciata pure rispetto alla “versione Calisto Bassi” seguita correntemente (anche nella edizioni di Riccardo Muti al Maggio Fiorentino nel 1972). Alla Scala, nel 1988 la regia di Luca Ronconi sperimentò (peraltro con poco successo) una scenografia con proiezioni. Suggestivo, nonostante i limiti del palcoscenico del Filarmonico di Verona, l’impianto di Luciano Damiani per la produzione del 1992. Al Rof, nel 1995 l’intero Palafestival venne trasformato da Pier Luigi Pizzi in montagne e valli dei cantoni svizzeri; era previsto, data la durata dello spettacolo, un intervallo sufficientemente lungo per una cena organizzata in un parcheggio (trasformato in ristorante all’aperto); si entrava in teatro alle 17,30 e si usciva ben dopo la mezzanotte. Alla Staastoper di Vienna ed altri teatri stranieri si sta affermando la versione integrale dopo circa due secoli in cui ha prevalso l’”edizione Calisto Bassi” in tre atti e con tagli tali da rendere difficile la comprensione di certi passaggi drammaturgici.
Le molteplici difficoltà di un allestimento scenico dell’ultimo capolavoro rossiniano per il teatro vengono risolte, nella produzione dell’Accademia di Santa Cecilia, offrendo un’esecuzione in forma di concerto. Non inferiori alla messa in scena ed alla regia sono i trabocchetti in orchestra (una delle più smaglianti e delle voci (specialmente per il tenore nel ruolo di Arnold e per il soprano in quello di Mathilde, mentre il baritono, che impersona il protagonista, ha una parte vocale lunga ma relativamente facile). Ciò rende particolarmente importante la produzione dell’Accademia di Santa Cecilia, perché dopo il suo trionfo a Parigi l’8 agosto 1929 e la lunga serie di repliche all’Accadémie Royal de Musique (allora Teatro Nazionale dell’Opera) , le difficoltà dell’opera indussero, sino a tempi recenti, alla diffusione di edizioni mutilate (e modificate) in varie lingue. Tagli ci sono – come si è detto- pure nella produzione romana, ma tutto sommato di poco rilievo (anche a ragione del limitato spessore musicale delle danze del terzo atto, una concessione alla prassi dell’epoca).
Rossini aveva 37 anni quando compose Guillaume Tell . Successivamente, entrò in una profonda depressione e, sino alla morte del 1868, non lavorò più a opere liriche, ma unicamente ad alcune rare composizione di musica sacra (lo Stabat Mater e la Petite Messe Solennelle) ed a cameristica (Les Péchés de Vielliesse). Secondo la vulgata corrente, Rossini decise di affrontare Guillaume Tell per mostrare, a sé stesso ed al resto del mondo del teatro in musica, di essere in grado di gareggiare con il grand opéra che allora iniziava a mietere successi in Francia ed altrove e che la successiva lunga depressione sarebbe stata causata essenzialmente dal fatto di riconoscere di non essere più al passo con i tempi (in materia musicale). Il dramma di Schiller sarebbe stato scelto proprio per le opportunità che offriva di fare un grande spettacolo (cambiamenti di scena tali da includere, montagne, valli, laghi in tempesta, balletti, incendi). In effetti, il sottostante libertario e liberale di Guillaume Tell (la liberazione dei cantoni svizzeri dal giogo asburgico grazie ad un eroe tutto di un pezzo) pare poco affine ad un Rossini tendenzialmente conservatore, ove non reazionario, e vicino più ai principi del Congresso di Vienna che a quelli della rivoluzione francese ed ancor meno a quelli del terremoto che nel 1848, poco meno di venti anni dalla prima rappresentazione di Guillaume Tell) avrebbero attraversato mezza Europa.
Prima di recensire l’esecuzione prodotta dall’Accademia di Santa Cecilia, è utile precisare alcuni punti che smentiscono la vulgata corrente. L’”opéra” monumentale (quali la “Vestale” di Gaspare Spontini) già da decenni erano sui palcoscenici dei maggiori teatri francesi in quanto legati alla concezione imperial-napoleonica del teatro in musica. Il grand opéra di Auber e Meyerbeer (intimamente legato alla ricca borghesia dell’industrializzazione nascente) era ancora ai primi passi, in effetti soltamente La Muette de Portici precede (di appena un anno) il debutto del rossiniano Guillaume Tell. Quindi, se Rossini ebbe un modello da sfidare non fu il grand opéra , ma le vera rivoluzione musicale apportata in Europa da Der Friechütz di Carlo Maria von Weber che dopo il trionfale debutto alla Staatsoper di Berlino nel 1821 era approdato , non all’Accademie Royale de Musique, ma al più piccolo Odéon in versione francese (Robin de Bois ou les trois balles); nonostante fosse un adattamento con numerosi tagli, ebbe un successo non previsto (327 repliche) ed recò un vento nuovo (la descrizione della natura, il demoniaco, il protagonismo del coro) che si riallacciava, però, in parte a quanto Rossina aveva sperimentato in La Donna del Lago. Il patriottismo libertario di Tell poco aveva a che fare con i principi di democrazia rappresentativa della rivoluzione francese e, successivamente, del 1848. Rossini era sensibile alle mode, quindi alle ventate di liberazione nazionale (temi allora di successo specialmente in Francia e che pervadono già “Mőise et Pharaon” e “Le Siège de Corinthe”). Alla conclusione dell’opera, il liberatore Tell non è alla guida di qualche forma di processo democratico ma il leader carismatico, e giacobino, del proprio popolo. Il silenzio dopo Tell viene adesso attribuito ad un problema di salute : una malattia venerea contratta in una delle case di tolleranza che il pescarese era uso frequentare sin dall’adolescenza, la conseguente astinenza sessuale per diversi anni e la depressione ad essa inerente proprio in un periodo in cui il gran opéra francese, il melodramma verdiano e il musik drama wagneriano cambiavano profondamente il teatro in musica. Le congetture si reggono su ipotesi e rari indizi (presenti proprio del Guillaume Tell: se Rossini non fosse andato in pensione a 37 anni (con un lauto assegno del Tesoro francese dopo cinque anni di vertenza civile e una sentenza della Cassazione) probabilmente la sua evoluzione sarebbe stata più prossima a quella dell’opera romantica tedesca che al melodramma verdiano e del grand opéra francese.
Un’ultima notazioni: delle tante opere tratte da drammi di Schiller da compositori dell’Ottocento, Guillaume Tel è quella più fedele all’originale per la scena drammatica, non musicale. Questa è un’altra delle determinanti della sua complessità. Il lavoro di Schiller, infatti, ha tre temi paralleli: a) il conflitto personale tra Tell ed il Governatore austriaco Gesler; b) la rivolta dei contadini e pescatori svizzeri contro gli assurgici; c) la tensione tra patriottismo e amore nel rapporto tra uno dei leader della rivolta ed una aristocratica asburgica. Il tutto, poi, si svolge in tre differenti cantoni (Url, Sxwyz e Unterwalden) , comportando frequenti movimenti di spazio.
Veniamo adesso alle specifiche dell’esecuzione romana. In primo luogo, Antonio Pappano ha dato ha lettura pittorica, quasi visiva, della partitura: anche senza scene e costumi, dall’orchestra emergono i colori dei picchi nevosi delle Alpi, delle vallate verdi, dei ruscelli azzurri, dei laghi grigi in quanto in tempesta. E’ in questo immenso affresco che viene immerso il dramma politico e personale dei personaggi. Curati i singoli strumenti: dai clarinetti ai fagotti alle arpe (così cruciali nella partitura del Tell) . E’ questa ricchezza pittorica che rende Guillaume Tell così vicino all’opera romantica tedesca, non solo Weber, ma anche Marschner , Hoffmann e del primo Wagner. Una lettura marcatamente differente a quelle di Gelmetti, Pidò e Muti e che lo avvicina all’interpretazione di Gardelli all’inizio degli Anni 70. Il trionfo della libertà è – come indica Rossini nella scrittura orchestrale (ancor più che nei versi del libretti)- il trionfo sgargiante della natura, della purezza dell’aria nelle valli, dopo la tempesta e dopo la catarsi.
Il coro, univoco e multanime anche quando canta monodicamente (altro contatto con l’opera romantica tedesca) è, con l’orchestra, l’altro protagonista effettivo di Guillaume Tell . Le altre edizioni che ho visto (od ascoltato in disco) non colgono tale rilievo perché non dispongono del coro dell’Accademia di Santa Cecilia guidato da Norbert Balatsch. I lustri che Balatsch ha passato a Bayreuth fanno sì che il coro abbia uno spessore wagneriano e che l’esultanza finale anticipi quella dei Die Meistersinger . Tanto coro quanto orchestra hanno ricevuto applausi a scena aperta e ovazioni al termine dello spettacolo.
Ben superiore alla media il complesso vocale. Trattandosi di opera che richiede ben 11 soliti, ci soffermiamo soltanto su alcuni. In primo luogo, sulla vera scoperta della serata, il giovane tenore di agilità americano John Osborn nel ruolo di Arnold. Ha una parte terrificante densa di “do” e di “sì naturale”, nonché sempre tesa verso l’alto. Dopo un primo atto in cui è parso tentennante, forse a ragione delle vaste dimensioni dell’auditorium (mentre è abituato a sale di dimensioni più piccole, e più adatte alla vocalità rossiniana), ha sfoderato i propri mezzi nel duetto e nel terzetto del secondo atto per poi colmare la Sala Santa Cecilia di agilità (e di volume) in “Asile héréditaire” all’inizio del quarto atto che ha ricevuto dal pubblico circa cinque minuti di applausi.
Bella, affascinante e vocalmente perfetta Norah Amsellem, anche lei americana ma già nota in Italia per una strepitosa La Traviata con cui venne inaugurata tre anni fa la stagione del Comunale di Bologna. E’ un soprano lirico puro del timbro chiarissimo, dal fraseggio perfetto e da un registro molto esteso. Dolcissima nel Sombre forêt , diventa sempre più imperiosa (e regale) nel confronto con il Gesler di Darren Jeffrey, serio professionista britannico. Occorre ricordare che nell’affresco rossiniano Arnold e Mathilde sono i soli personaggi che hanno un vero sviluppo psicologico, tormentati tra amore e lealtà ai loro rispettivi status personali. Gli altri nove o sono caratterizzazioni (lo stesso Gesler) o personaggi tutti di un pezzo, privi di sfumature.
E’ questo il caso di protagonista Guillaume Tell : ha un’aria importante Soi, immobile ed è quasi sempre in scena ma è personaggio unidimensionale sempre teso verso il fare il bene e la liberazione della Patria oppressa. Michele Pertusi lo ha impersonato più volte (pure nella edizione del Rof del 1995): non ha perso autorevolezza, anche se la sua voce è meno cristallina di quanto non fosse 12 anni fa. Tra i tanti altri solisti, si devono menzionare almeno Ellie Dehn , Jenny a tutto tondo, e Laura Polverelli, Edwige appassionata. Alex Esposito conferma di essere un baritono di classe, Jérôme Varnier è una promessa da seguire con attenzione.
Del trionfo si è detto. I lettori che lo desiderano possono ascoltare la diretta il 28 novembre alle 19,30 su Radio3.
LA LOCANDINA
GUILLAUME TELL
Opera in quattro atti
Libretto di Etienne de Jouy, Hippolite Bis e Armand Marrat
Musica di Gioacchino Rossini
Guillaume………………………………………..Michele Pertusi
Arnold John Osborn
Mathilde…………………………………………Norah Amsellem
Jemmy…………………………………………..Elly Dehn
Walter…………………………………………..Alex Esposito
Edwige…………………………………………Laura Polverelli
Melchtal………………………………………..Frédéric Caton
Gesler………………………………………….Darren Jeffrey
Rodolphe…………………………………….. Vicent Ordonneau
Lethold……………………………………….Jérôme Varnier
Pécheur……………………………… Celso Albelo
Un Chasseur………………………………...Davide Malvestio
Orchestra e Coro dell’Accademia di Santa Cecilia
Direttore del Coro Norbert Balatsch
Direzione Musicale . Antonio Pappano
Roma, Parco della Musica , 24 Novembre 2004
Giuseppe Pennisi
SULLE TENSIONI DEL WELFARE SI STAGLIA IL FANTASMA DEI SUBPRIME
Questa è la settimana cruciale per la tenuta del Governo a ragione delle profonde differenze di ottica (all’interno della maggioranza) su come risolvere i problemi connessi al ddl sul welfare. Come mostrato su L’Occidentale del 21 e del 23 novembre non solo il Governo è spaccato ma all’ala sinistra-reazionaria (nel senso etimologico di chi desidera il ritorno al passato) converrebbe rompere: avrebbe vantaggio a massimizzare (con un costo minimo) la propria popolarità nei confronti del proprio elettorato e a prendersi una fetta di quello potenziale del PD. In termini tecnici, una mossa da minimax.
Sulle tensioni note (previdenza, mercato del lavoro) se ne staglia (da alcuni giorni, in effetti dal fine settimana), una nuova: il fantasma del subprime. La posizione ufficiale è rassicurante: per i mutui “made in Italy” le insolvenze sono soltanto all’1%, nonostante il mercato dei prestiti alle famiglie per prestiti per l’acquisto di abitazioni sia dominato da contratti a tasso variabile (94% nel 2004, 75% nel 2006) poiché le banche avrebbero scoraggiato il tasso fisso (aggiungendo alti costi amministrativi) quando gli interessi erano rasoterra. Nonostante i tassi abbiamo registrato un doppio aumento (Bce e Eurolibor) ed molti contraenti (prima di formazione finanziaria) hanno oggettive difficoltà a comprendere alcune caratteristiche dei mutui, quali il rimborso (upfront) degli interessi (prima, quindi, dell’ammortamento). Tuttavia, le banche sono restie ad iniziare procedure di recupero dell’immobile a ragione dei tempi lunghi che normalmente comportano (da 5 ai 10 anni rispetto ai 10 mesi in Olanda).
Tuttavia, giovedì 23 novembre, a mercati chiusi, l’annuncio che due grandi istituti di credito francesi – il Groupe Banque Populaire e il Groupe Caisse d’Epargne- acquistano un’importante compagnia di assicurazione (la CIFG Holding) dalla banca d’investimento Natixis indica che la tormente dal subprime sta arrivando in Europa:l’acquisto è motivato da far mantenere a CIFG un rating AAA, prima che le agenzie la declassassero a ragione del peso eccessivo della finanza strutturata (di bassa qualità) nei suoi conti. Il Presidente della Bundesbank Axel Weber ha avvertito che gli effetti del subprime sulle compagnie di assicurazioni europee potrebbero rimbalzare al altre componenti del mercato. In Germania, si è già andati al salvataggio di due aziende del settore. Nubi forti si vedono in Gran Bretagna.
Quale il nesso tra questi sviluppi relativi al mercato finanziario e il ddl sul welfare. Un’analisi del servizio studi della Banca Italia, mette in risalto come, nonostante la vasta diffusione della proprietà immobiliare nel nostro Paese, il 20% delle famiglie italiane è in condizioni di vero disagio associate alla casa (difficoltà a pagare il fitto, a far fronte alle rate dei mutui). Alcune Regioni (Liguria, Toscana, Emilia-Romagna) stanno cercando di alleviarlo con fondi speciali per contenere le insolvenze. Questo 20% è, in atto od in potenza, parte importante del bacino elettorale della sinistra-reazionaria. Che , di conseguenza, sarà indotta ad irrigidirsi sul ddl.
Riferimenti
Paiella M., Pozzolo A:F. "Choosing Between Fixed and Adjustable Rate Mortgages" Bank of Italy Occasional Paper
D’Alessio G., Gambacorta R. Home Affordability in Italy"
Bank of Italy Occasional Paper No. 9
Sulle tensioni note (previdenza, mercato del lavoro) se ne staglia (da alcuni giorni, in effetti dal fine settimana), una nuova: il fantasma del subprime. La posizione ufficiale è rassicurante: per i mutui “made in Italy” le insolvenze sono soltanto all’1%, nonostante il mercato dei prestiti alle famiglie per prestiti per l’acquisto di abitazioni sia dominato da contratti a tasso variabile (94% nel 2004, 75% nel 2006) poiché le banche avrebbero scoraggiato il tasso fisso (aggiungendo alti costi amministrativi) quando gli interessi erano rasoterra. Nonostante i tassi abbiamo registrato un doppio aumento (Bce e Eurolibor) ed molti contraenti (prima di formazione finanziaria) hanno oggettive difficoltà a comprendere alcune caratteristiche dei mutui, quali il rimborso (upfront) degli interessi (prima, quindi, dell’ammortamento). Tuttavia, le banche sono restie ad iniziare procedure di recupero dell’immobile a ragione dei tempi lunghi che normalmente comportano (da 5 ai 10 anni rispetto ai 10 mesi in Olanda).
Tuttavia, giovedì 23 novembre, a mercati chiusi, l’annuncio che due grandi istituti di credito francesi – il Groupe Banque Populaire e il Groupe Caisse d’Epargne- acquistano un’importante compagnia di assicurazione (la CIFG Holding) dalla banca d’investimento Natixis indica che la tormente dal subprime sta arrivando in Europa:l’acquisto è motivato da far mantenere a CIFG un rating AAA, prima che le agenzie la declassassero a ragione del peso eccessivo della finanza strutturata (di bassa qualità) nei suoi conti. Il Presidente della Bundesbank Axel Weber ha avvertito che gli effetti del subprime sulle compagnie di assicurazioni europee potrebbero rimbalzare al altre componenti del mercato. In Germania, si è già andati al salvataggio di due aziende del settore. Nubi forti si vedono in Gran Bretagna.
Quale il nesso tra questi sviluppi relativi al mercato finanziario e il ddl sul welfare. Un’analisi del servizio studi della Banca Italia, mette in risalto come, nonostante la vasta diffusione della proprietà immobiliare nel nostro Paese, il 20% delle famiglie italiane è in condizioni di vero disagio associate alla casa (difficoltà a pagare il fitto, a far fronte alle rate dei mutui). Alcune Regioni (Liguria, Toscana, Emilia-Romagna) stanno cercando di alleviarlo con fondi speciali per contenere le insolvenze. Questo 20% è, in atto od in potenza, parte importante del bacino elettorale della sinistra-reazionaria. Che , di conseguenza, sarà indotta ad irrigidirsi sul ddl.
Riferimenti
Paiella M., Pozzolo A:F. "Choosing Between Fixed and Adjustable Rate Mortgages" Bank of Italy Occasional Paper
D’Alessio G., Gambacorta R. Home Affordability in Italy"
Bank of Italy Occasional Paper No. 9
ROMA ATTENTA: MILANO TI SCIPPA LA LIRICA
C’è chi pensa che la musa bizzarra e altera, ossia la lirica, sia parruccona e polverosa. Nacque in Italia, però, dove fu un’attività commerciale (e redditizia) per oltre un secolo. Un record vantato in Europa unicamente dalla Gran Bretagna nel Settecento ma oggi prassi negli Usa, in Asia e in Australia – oggi terre di esportazione per i nostri teatri. Le 13 fondazioni lirico sinfoniche hanno 3,5 milioni di spettatori ed oltre 70.000 abbonati l’anno; aggiungendo la settantina di “teatri di tradizione” e la quarantina di festival, si giunge ad oltre 5 milioni di spettatori. Un comparto di tutto rispetto; il sostegno pubblico è giustificato dal fatto che la tecnologia fissa (caratteristica di molte arti dal vivo) non consente di catturare i benefici del progresso tecnico in termini di riduzione dei costi.
Anche se la legge finanziaria ha aumentato il Fondo unico per lo spettacolo (Fus) da 444,301 milioni di euro nel 2007 al 536,814 milioni di euro nel 2008 - complessivamente restiamo al sotto dell’apporto pubblico in altri Paesi europei – in Austria i quattro teatri d’opera di Vienna ed il Festival di Salisburgo ricevono un contributo “federale” pari a tre volte il contributo del Fus alle 14 fondazioni lirico sinfoniche italiane. Sul 50% del Fus destinato alla lirica è in atto una battaglia che sta per danneggiare Roma.
Iniziata con un micro-sciopero al Massimo di Palermo si è estesa alla Scala dove si minaccia di far saltare la tradizionale inaugurazione per Sant’Ambrogio. E’ stato annunciato uno sciopero nazionale con azioni decentrate per annullare “le prime”: a Roma domani salta l’attesa “prima” de “Mosé in Egitto” di Rossini. Il nodo sono i contratti integrativi per orchestre e maestranze. Da un lato, la normativa prevede che gli integrativi vengano negoziati dopo la definizione del contratto nazionale. Da un altro, se le richieste dei sindacati (in particolare di quelli scaligeri) venissero accolte, assorbirebbero l’incremento del Fus (non lasciando nulla all’ampliamento delle attività artistiche). Già parte dello stanziamento del Fus è stato dirottato ad operazioni di salvataggio di due fondazioni che, in base alle norme in vigore, dovrebbero stare per essere messe in liquidazione. All’insegna del “quanto più ti indebiti tanto più paga Pantalone”, la sinistra ha dato un pessimo esempio a chi fatica per far quadrare i conti.
Da oltre cinque anni la fondazione lirica romana (e l’Accademia di Santa Cecilia) presentano consuntivi in attivo, aumentando rappresentazioni e presenze di pubblico pagante, anche giovane. Rischiano di essere non premiate (come meriterebbero) ma penalizzate se passa la linea proposta dalla Scala (e molto ascoltata al Collegio Romano) secondo cui il tempio milanese (e le sue maestranze) dovrebbero avere un trattamento speciale (come l’Opéra di Paragi ed i Teatri Reali di Londra, Madrid ed altrove).A spese degli altri. Campidoglio, muoviti: per una soluzione equa si guarda a te.
Anche se la legge finanziaria ha aumentato il Fondo unico per lo spettacolo (Fus) da 444,301 milioni di euro nel 2007 al 536,814 milioni di euro nel 2008 - complessivamente restiamo al sotto dell’apporto pubblico in altri Paesi europei – in Austria i quattro teatri d’opera di Vienna ed il Festival di Salisburgo ricevono un contributo “federale” pari a tre volte il contributo del Fus alle 14 fondazioni lirico sinfoniche italiane. Sul 50% del Fus destinato alla lirica è in atto una battaglia che sta per danneggiare Roma.
Iniziata con un micro-sciopero al Massimo di Palermo si è estesa alla Scala dove si minaccia di far saltare la tradizionale inaugurazione per Sant’Ambrogio. E’ stato annunciato uno sciopero nazionale con azioni decentrate per annullare “le prime”: a Roma domani salta l’attesa “prima” de “Mosé in Egitto” di Rossini. Il nodo sono i contratti integrativi per orchestre e maestranze. Da un lato, la normativa prevede che gli integrativi vengano negoziati dopo la definizione del contratto nazionale. Da un altro, se le richieste dei sindacati (in particolare di quelli scaligeri) venissero accolte, assorbirebbero l’incremento del Fus (non lasciando nulla all’ampliamento delle attività artistiche). Già parte dello stanziamento del Fus è stato dirottato ad operazioni di salvataggio di due fondazioni che, in base alle norme in vigore, dovrebbero stare per essere messe in liquidazione. All’insegna del “quanto più ti indebiti tanto più paga Pantalone”, la sinistra ha dato un pessimo esempio a chi fatica per far quadrare i conti.
Da oltre cinque anni la fondazione lirica romana (e l’Accademia di Santa Cecilia) presentano consuntivi in attivo, aumentando rappresentazioni e presenze di pubblico pagante, anche giovane. Rischiano di essere non premiate (come meriterebbero) ma penalizzate se passa la linea proposta dalla Scala (e molto ascoltata al Collegio Romano) secondo cui il tempio milanese (e le sue maestranze) dovrebbero avere un trattamento speciale (come l’Opéra di Paragi ed i Teatri Reali di Londra, Madrid ed altrove).A spese degli altri. Campidoglio, muoviti: per una soluzione equa si guarda a te.
domenica 25 novembre 2007
D’ALEMA SFIDA LA FINANZA DEL MEDITERRANEO
Nelle loro colazioni al Circolo del Ministero Affari Esteri (Mae), molti diplomatici lamentano lo scarso peso, vero o presunto, dell’Italia sulla scena internazionale. Il loro Ministro Massimo D’Alema, consapevole che una politica mondialistica sarebbe futile per una potenza di medie dimensioni, sta concentrando la propria attenzione sul Vicino Oriente. Nella convinzione che nell’area l’Italia abbia la capacità di incidere ma anche per impedire che la regione diventi preda della Francia (il cui Presidente Nicolas Sarkozy è attivissimo). Tra i lavori che lo ha convinto a tale scelta, uno snello quaderno dell’Istituto Affari Internazionali “Il Golfo e l’Ue: rapporti economici e sicurezza”.
Sono i rapporti economici – la “triste scienza” non è mai stata il suo forte- quelli che sta approfondendo- in sana emulazione con Emma Bonino. In primo luogo, si chiede se la liberalizzazione delle Borse ha davvero sprigionato la crescita economica e finanziaria nella regione . Forniscono una risposta Samy Ben Naceur dell’Ihec di Cartagine, Samir Ghazouani dell’Università di Tunisi e Mohamed Omran dell’Istituto di Politica Economica del Fondo monetario arabo in un saggio disponibile su Internet: utilizzando dati sui mercati finanziari di 11 Paesi per il periodo 1979-2005 conclude che, nel breve periodo, gli effetti sulla crescita sono trascurabili (ed in certi casi pure negativi) ma nel lungo periodo promettenti. L’elemento essenziale è che le riforme del mercato interno devono precedere l’apertura delle Borse al resto del mondo. In un altro lavoro, i tre economisti esaminano i nessi tra politica monetaria e le Borse in 8 degli 11 Paesi (la determinante è la disponibilità di dati). Mentre in Bahrain, Oman, Giordania ed Arabia Saudita la politica monetaria (accomodante) pare avere avuto un impatto significativo sulle valorizzazioni dell’azionario, gli effetti sembrano nulli in Tunisia, Marocco ed Egitto. Variegata l’esperienza della Turchia. Il lavoro traccia anche conclusioni provvisorie.
Una spiegazione è offerta in uno studio dell’Università di Lipsia (il Working Paper n. 65, disponibile anche in inglese): molte banche centrali della regione sono debitrici e, quindi, aumentano la liquidità principalmente tramite operazioni sull’estero (ed in valuta estera) per impedire che esse incidano sull’andamento dei prezzi interni e sulla stabilità finanziaria del mercato domestico.
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Sono i rapporti economici – la “triste scienza” non è mai stata il suo forte- quelli che sta approfondendo- in sana emulazione con Emma Bonino. In primo luogo, si chiede se la liberalizzazione delle Borse ha davvero sprigionato la crescita economica e finanziaria nella regione . Forniscono una risposta Samy Ben Naceur dell’Ihec di Cartagine, Samir Ghazouani dell’Università di Tunisi e Mohamed Omran dell’Istituto di Politica Economica del Fondo monetario arabo in un saggio disponibile su Internet: utilizzando dati sui mercati finanziari di 11 Paesi per il periodo 1979-2005 conclude che, nel breve periodo, gli effetti sulla crescita sono trascurabili (ed in certi casi pure negativi) ma nel lungo periodo promettenti. L’elemento essenziale è che le riforme del mercato interno devono precedere l’apertura delle Borse al resto del mondo. In un altro lavoro, i tre economisti esaminano i nessi tra politica monetaria e le Borse in 8 degli 11 Paesi (la determinante è la disponibilità di dati). Mentre in Bahrain, Oman, Giordania ed Arabia Saudita la politica monetaria (accomodante) pare avere avuto un impatto significativo sulle valorizzazioni dell’azionario, gli effetti sembrano nulli in Tunisia, Marocco ed Egitto. Variegata l’esperienza della Turchia. Il lavoro traccia anche conclusioni provvisorie.
Una spiegazione è offerta in uno studio dell’Università di Lipsia (il Working Paper n. 65, disponibile anche in inglese): molte banche centrali della regione sono debitrici e, quindi, aumentano la liquidità principalmente tramite operazioni sull’estero (ed in valuta estera) per impedire che esse incidano sull’andamento dei prezzi interni e sulla stabilità finanziaria del mercato domestico.
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I giovani non si fidano di Veltroni. Meglio il Cavaliere
I primi sondaggi di opinione indicano che il nuovo soggetto politico delineato da Silvio Berlusconi avrebbe, se si votasse oggi, più consensi del PD guidato da Walter Veltroni. Suggeriscono inoltre che sono soprattutto i giovani ad essere attratti dalla nuova formazione. Cerchiamo di approfondire il fenomeno ed esaminarne le determinanti. Una diecina di anni fa un pamphlet parlava di “guerra dei trentenni” perché il welfare (principalmente la normativa sulle pensioni e sul mercato del lavoro) militava apertamente contro di loro. La “guerra” non c’è stata anche poiché il nostro non è un Paese di rivoluzioni ma di jacqueries: buttare dalla finestra il Ministro delle finanze del Lombardo-Veneto austro-ungarico, cercare di distruggere l’automobile del Capo del Dipartimento della Protezione Civile, intento a tentare di mettere ordine nel caos dei rifiuti in Campania. L’aumento della violenza giovanile connessa con il tifo sportivo ha le proprie radici, in parte, nelle jacqueries di elementi di una generazione che si sente, a torto o a ragione, discriminata.
Alcune settimane fa numerosi quotidiani e periodici si sono soffermati su dichiarazioni del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi sulle crescenti differenze di reddito (e di consumo) a svantaggio delle fasce di età più giovani: nessuno, però, ha esaminato l’analisi originale ed integrale su cui si basavano le affermazioni di Draghi e, soprattutto, la ha poste nel contesto di una più vasta ricerca internazionale, di cui il lavoro del servizio studi Bankitalia è parte integrante (pur se si tratta di una serie di studi distinti e non coordinati da un organo collegiale o simili). In primo luogo, l’analisi Bankitalia riguarda i lavoratori di genere maschile (non è chiaro perché non tratti anche delle donne) su un arco di tempo trentennale (dall’inizio degli Anni 70 all’inizio del 21simo secolo) ed integra due fonti di dati: le statistiche Istat e le rilevazioni dell’Istituto di Via Nazionale sui redditi e la ricchezza delle famiglie. Il suo punto centrale non è (come messo in rilievo da molta stampa) l’aumento del “wage gap” (differenza salariale) tra giovani ed anziani (dal 20% all’inizio degli Anni 80 al 35% al volgersi nel nuovo secolo) ma l’individuazione del momento di svolta: il peggioramento avviene all’inizio degli Anni 90 quando le leggi sul lavoro degli Anni 70 cominciano a mordere le nuove generazioni (bambini o neonati quando venne varato lo “Statuto dei Lavoratori”). L’analisi corrobora quella che era soltanto un’intuizione nel pamphlet sulla guerra dei trentenni di dieci anni fa.
C’è, però, molto di più. Una determinante importante – di cui pare non accorgersi il servizio studi di Bankitalia – è esaminata in un lavoro della London School of Economics, della Facoltà di Economia dell’Università di Oslo, dal Center for Econonic Performance, dall’Institute for Fiscal Studies e dal Centre for Economic Policy Research. Tutti istituti distinti e distanti dalle nostre beghe ed intellettualmente vicini al riformismo europeo a sinistra del centro. Il lavoro è di micro-analisi (ossia si basa su indagini di campo), non riguarda soltanto i maschi ma pure le donne ed è relativo agli Usa ed al Regno Unito – non all’Italia. Usa e Regno Unito sono due Paesi in cui la normativa sul lavoro non ha preso la piega che ha avuto da noi negli Anni 70 (ed 80), ma dove c’è un analogo fenomeno di crescente differenziazione dei salari (a svantaggio dei giovani): le conclusioni puntano il dito sulle dimensioni di imprese (le PMI tendono a pagare i giovani peggio) e sull’introduzione delle nuove tecnologie (che non si modernizza paga poco i nuovi entranti nel proprio organico). Quindi, non sono soltanto le rigidità del mercato del lavoro (ed il lungo processo per rimuoverle) all’origine del “gap” ma anche una struttura produttiva fatta di PMI e (soprattutto nel Sud) con un marcato ritardo tecnologico.
Una soluzione è indicata in un lavoro di tre giovani economisti italiani ma pubblicato dall’Istituto Tedesco di Studi sul Lavoro (Iza). E’ un’analisi econometrica del “gap” in 12 Paesi europei. Il miglioramento della qualità e quantità di istruzione – concludono - è una leva efficiente per ridurre il differenziare tra giovani e vecchi. Un’altra soluzione è delineata in un’analisi comparata effettuata da Università tedesche e pubblicata in questi giorni dal National Bureau of Economic Research (Nber) Usa: l’evoluzione demografica (ossia l’invecchiamento della popolazione) produrrà una graduale riduzione dei rendimenti medi nei Paesi delle “pantere grigie” (90 punti di base, ossia circa un punto percentuale, tra il 2005 ed il 2050) ed un flusso di capitali verso i Paesi “giovani”, ma ad esso seguirà un riflusso man mano che le famiglie ridurranno i loro risparmi, con la conseguenza che per i giovani di oggi c’è speranza di un futuro migliore in quanto l’invecchiamento dei loro padri e zii (ed il riflusso di capitali) dovrebbe portare loro buste-paga più pesanti.
Veniamo adesso al contesto italiano di politica economica. In primo luogo (come sottolineato su L’Occidentale del 21 novembre) il ddl sul welfare rappresenta un passo indietro (specialmente in materia di previdenza) che, in particolare nella versione che ha raggiunto l’aula, penalizza i giovani. La finanziaria non contiene virtualmente nulla per incoraggiare la crescita delle dimensioni d’impresa e l’ammodernamento tecnologico. Il coraggioso “Quaderno bianco sulla scuola” dei Ministeri dell’Economia e delle Finanze e del Ministero dell’Istruzione è stato presentato con tanto spolvero da Romano Prodi in persona a fine settembre, ma successivamente lasciato a raccogliere polvere nello scaffale dedicato ai “libri dei sogni”. La disillusione delle giovani generazioni non può che aumentare: quelli che non cadono nelle jacqueries, non fanno la guerra ma scendono in campo politicamente. Sanno anche che, se non cambia rotta, l’Italia ha meno speranza degli altri in termini di riflusso di capitali : lo ricordano periodicamente i rapporti Ice-Prometeia e Unctad sugli investimenti dal’estero.
Riferimenti
Brunello G., Fort M., Weber G. "'For One More Year With You': Changes in Compulsory Schooling, Education and the Distribution of Wages in Europe"
IZA Discussion Paper No. 3102 (scaricabile dal sito istituzionale dell’IZA)
Faggio G., Salvanes K, Van Rennen J “The Evolution of Inequality in Productivity and Wages: PanelData Evidence" NBER Working Paper No. W13351 (scaricabile dal sito istuzionale del NBER)
Ludwig A., Kruegen D., Boersch-Supan “A Demographic Change, Relative Factor Prices, International Capital Flows, and Their Differential Effects on the Welfare of Generations" NBER Working Paper No. W13185 (scaricabile dal sito istituzionale del NBER)
Pennisi G. “La Guerra dei Trentenni- Italia e Nuove Generazioni” Ideazione Editrice, 1997
Rosolia A., Torrini R. “The Generation Gap: Relative Earnings of Young and Old Workers in Italy Banca d’Italia, Temi di discussione n. 639 (scaricabile dal sito istituzionale della Banca d’Italia)
L’accesso ai siti Banca d’Italia, Iza e Nber è normalmente gratuito per studenti, studiosi e giornalisti.
Alcune settimane fa numerosi quotidiani e periodici si sono soffermati su dichiarazioni del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi sulle crescenti differenze di reddito (e di consumo) a svantaggio delle fasce di età più giovani: nessuno, però, ha esaminato l’analisi originale ed integrale su cui si basavano le affermazioni di Draghi e, soprattutto, la ha poste nel contesto di una più vasta ricerca internazionale, di cui il lavoro del servizio studi Bankitalia è parte integrante (pur se si tratta di una serie di studi distinti e non coordinati da un organo collegiale o simili). In primo luogo, l’analisi Bankitalia riguarda i lavoratori di genere maschile (non è chiaro perché non tratti anche delle donne) su un arco di tempo trentennale (dall’inizio degli Anni 70 all’inizio del 21simo secolo) ed integra due fonti di dati: le statistiche Istat e le rilevazioni dell’Istituto di Via Nazionale sui redditi e la ricchezza delle famiglie. Il suo punto centrale non è (come messo in rilievo da molta stampa) l’aumento del “wage gap” (differenza salariale) tra giovani ed anziani (dal 20% all’inizio degli Anni 80 al 35% al volgersi nel nuovo secolo) ma l’individuazione del momento di svolta: il peggioramento avviene all’inizio degli Anni 90 quando le leggi sul lavoro degli Anni 70 cominciano a mordere le nuove generazioni (bambini o neonati quando venne varato lo “Statuto dei Lavoratori”). L’analisi corrobora quella che era soltanto un’intuizione nel pamphlet sulla guerra dei trentenni di dieci anni fa.
C’è, però, molto di più. Una determinante importante – di cui pare non accorgersi il servizio studi di Bankitalia – è esaminata in un lavoro della London School of Economics, della Facoltà di Economia dell’Università di Oslo, dal Center for Econonic Performance, dall’Institute for Fiscal Studies e dal Centre for Economic Policy Research. Tutti istituti distinti e distanti dalle nostre beghe ed intellettualmente vicini al riformismo europeo a sinistra del centro. Il lavoro è di micro-analisi (ossia si basa su indagini di campo), non riguarda soltanto i maschi ma pure le donne ed è relativo agli Usa ed al Regno Unito – non all’Italia. Usa e Regno Unito sono due Paesi in cui la normativa sul lavoro non ha preso la piega che ha avuto da noi negli Anni 70 (ed 80), ma dove c’è un analogo fenomeno di crescente differenziazione dei salari (a svantaggio dei giovani): le conclusioni puntano il dito sulle dimensioni di imprese (le PMI tendono a pagare i giovani peggio) e sull’introduzione delle nuove tecnologie (che non si modernizza paga poco i nuovi entranti nel proprio organico). Quindi, non sono soltanto le rigidità del mercato del lavoro (ed il lungo processo per rimuoverle) all’origine del “gap” ma anche una struttura produttiva fatta di PMI e (soprattutto nel Sud) con un marcato ritardo tecnologico.
Una soluzione è indicata in un lavoro di tre giovani economisti italiani ma pubblicato dall’Istituto Tedesco di Studi sul Lavoro (Iza). E’ un’analisi econometrica del “gap” in 12 Paesi europei. Il miglioramento della qualità e quantità di istruzione – concludono - è una leva efficiente per ridurre il differenziare tra giovani e vecchi. Un’altra soluzione è delineata in un’analisi comparata effettuata da Università tedesche e pubblicata in questi giorni dal National Bureau of Economic Research (Nber) Usa: l’evoluzione demografica (ossia l’invecchiamento della popolazione) produrrà una graduale riduzione dei rendimenti medi nei Paesi delle “pantere grigie” (90 punti di base, ossia circa un punto percentuale, tra il 2005 ed il 2050) ed un flusso di capitali verso i Paesi “giovani”, ma ad esso seguirà un riflusso man mano che le famiglie ridurranno i loro risparmi, con la conseguenza che per i giovani di oggi c’è speranza di un futuro migliore in quanto l’invecchiamento dei loro padri e zii (ed il riflusso di capitali) dovrebbe portare loro buste-paga più pesanti.
Veniamo adesso al contesto italiano di politica economica. In primo luogo (come sottolineato su L’Occidentale del 21 novembre) il ddl sul welfare rappresenta un passo indietro (specialmente in materia di previdenza) che, in particolare nella versione che ha raggiunto l’aula, penalizza i giovani. La finanziaria non contiene virtualmente nulla per incoraggiare la crescita delle dimensioni d’impresa e l’ammodernamento tecnologico. Il coraggioso “Quaderno bianco sulla scuola” dei Ministeri dell’Economia e delle Finanze e del Ministero dell’Istruzione è stato presentato con tanto spolvero da Romano Prodi in persona a fine settembre, ma successivamente lasciato a raccogliere polvere nello scaffale dedicato ai “libri dei sogni”. La disillusione delle giovani generazioni non può che aumentare: quelli che non cadono nelle jacqueries, non fanno la guerra ma scendono in campo politicamente. Sanno anche che, se non cambia rotta, l’Italia ha meno speranza degli altri in termini di riflusso di capitali : lo ricordano periodicamente i rapporti Ice-Prometeia e Unctad sugli investimenti dal’estero.
Riferimenti
Brunello G., Fort M., Weber G. "'For One More Year With You': Changes in Compulsory Schooling, Education and the Distribution of Wages in Europe"
IZA Discussion Paper No. 3102 (scaricabile dal sito istituzionale dell’IZA)
Faggio G., Salvanes K, Van Rennen J “The Evolution of Inequality in Productivity and Wages: PanelData Evidence" NBER Working Paper No. W13351 (scaricabile dal sito istuzionale del NBER)
Ludwig A., Kruegen D., Boersch-Supan “A Demographic Change, Relative Factor Prices, International Capital Flows, and Their Differential Effects on the Welfare of Generations" NBER Working Paper No. W13185 (scaricabile dal sito istituzionale del NBER)
Pennisi G. “La Guerra dei Trentenni- Italia e Nuove Generazioni” Ideazione Editrice, 1997
Rosolia A., Torrini R. “The Generation Gap: Relative Earnings of Young and Old Workers in Italy Banca d’Italia, Temi di discussione n. 639 (scaricabile dal sito istituzionale della Banca d’Italia)
L’accesso ai siti Banca d’Italia, Iza e Nber è normalmente gratuito per studenti, studiosi e giornalisti.
IL DIGITALE E L’ELETTRACUSTICA TRASFORMANO IL TEATRO IN MUSICA
Sono in corso a Roma due festival di musica contemporanea di rilievo. Il primo “RomaEuropa Festival” è una manifestazione che porta in Italia principalmente artisti stranieri in una vasta gamma di spettacoli musicali (dal jazz al balletto, al teatro totale) e si conclude con un “melting party” (il 15 dicembre) a cui partecipano orchestre (l’italiana Orchestra di Piazza Vittorio e la Bucovina Club Orchestra) con una comune matrice “etnico-popolare” (per i dettagli, www2.romaeuropa.net). Il tema è “una generazione avanti”. Ciò non indica sperimentazione ed avanguardia ma innovazione. Iniziato il 5 novembre con due balletti di Edouard Rock (provenienti dal canada francofono) che danno prova di non dover invidiare nulla alle scuole più avanzate europee (come Bruxelles e Wuppertal), propone, dal 22 al 25 novembre, una lettura di “Moby Dick” di Melville da parte di Alessandro Baricco, con accompagnamento di voce solista, strumenti a fiato, chitarre, percussioni, pianoforte ed elettroacustica. Altro spettacolo di rilievo il 13-14 dicembre “Chambra”, fantasia giapponese di spade accompagnate da tamburi
Il secondo, meno spettacolare ed a costi contenuti, è diventato, nel tempo, uno dei maggiori festival del ramo: il 44simo festival di Nuova Consonanza (www.nuovaconsonanza.it),. la più vivace associazione italiana di musica contemporanea. Tre anni fa, per impedire che il festival non venisse tenuto a ragioni di restrizioni dei contributi pubblici, sono intervenuti gli istituti di cultura in Italia degli Stati Uniti, della Francia, della Germania, dei Paesi Bassi , della Germania – nonché alcune istituzioni private ed universitarie. Tale impegno internazionale ha sancito l’importanza mondiale di una manifestazione frequentata soprattutto da giovani (pure perché il prezzo massimo per il singolo evento è € 10, l’abbonamento alle nove serate è € 30).
Il tema – “la musica percorsa” - coniuga avanguardia (specialmente ma non solamente italiana) con le nuove tecnologie e la multimedialità, nonché con la canzone tradizionale (in particolare quella italiana e portoghese) e con il melologo (l’opera da salotto nell’Ottocento; opera da loft o da mansarda adesso). Il primo appuntamento è stato dedicato alla “divina sensualità indiana” quale espresso da uno degli ensemble francesi (il complesso microtonale del Thoronet) più noti. Ha fatto seguito una serata dedicata alla “fabbrica della creatività”, con “prime” mondiali di compositori italiani e stranieri. Grandiosa la “festa d’autunno” di domenica 4 novembre. Nella stupenda Villa Aurelia (sede dell’Accademia Americana) raramente aperta al pubblico, dalle 16,30 ad oltre mezzanotte (con la possibilità ovviamente di cenare a prezzi iper-contenuti) si sono succeduti (in simultanea, nella varie sale), musica strumentale e vocale, canzoni tratte da poesie, live electronics, esperimenti elettroacustici, video arte, prime mondiali di due film in musica ed anche una mostra di libri d’artista. Tra gli eventi delle prossime settimane, il 4 dicembre “le distanze del tempo” un incontro tra musica elettro-acustica indiana e brasiliana e “Giocattoli” ,tra melologo e opera per bambini, (con testo di Giorgio Manganelli e musica di Lucia Ronchetti).Si annuncia come un evento da non perdere la serata conclusiva sull’invenzione del suono : una serata di cameristica internazionale (opere di italiani, olandesi, tedeschi – tutti già affermati) in cui il violoncello, l’oboe, il pianoforte, il flauto ed altri strumenti tradizionali dialogano con l’elettronica ed il digitale.
Il secondo, meno spettacolare ed a costi contenuti, è diventato, nel tempo, uno dei maggiori festival del ramo: il 44simo festival di Nuova Consonanza (www.nuovaconsonanza.it),. la più vivace associazione italiana di musica contemporanea. Tre anni fa, per impedire che il festival non venisse tenuto a ragioni di restrizioni dei contributi pubblici, sono intervenuti gli istituti di cultura in Italia degli Stati Uniti, della Francia, della Germania, dei Paesi Bassi , della Germania – nonché alcune istituzioni private ed universitarie. Tale impegno internazionale ha sancito l’importanza mondiale di una manifestazione frequentata soprattutto da giovani (pure perché il prezzo massimo per il singolo evento è € 10, l’abbonamento alle nove serate è € 30).
Il tema – “la musica percorsa” - coniuga avanguardia (specialmente ma non solamente italiana) con le nuove tecnologie e la multimedialità, nonché con la canzone tradizionale (in particolare quella italiana e portoghese) e con il melologo (l’opera da salotto nell’Ottocento; opera da loft o da mansarda adesso). Il primo appuntamento è stato dedicato alla “divina sensualità indiana” quale espresso da uno degli ensemble francesi (il complesso microtonale del Thoronet) più noti. Ha fatto seguito una serata dedicata alla “fabbrica della creatività”, con “prime” mondiali di compositori italiani e stranieri. Grandiosa la “festa d’autunno” di domenica 4 novembre. Nella stupenda Villa Aurelia (sede dell’Accademia Americana) raramente aperta al pubblico, dalle 16,30 ad oltre mezzanotte (con la possibilità ovviamente di cenare a prezzi iper-contenuti) si sono succeduti (in simultanea, nella varie sale), musica strumentale e vocale, canzoni tratte da poesie, live electronics, esperimenti elettroacustici, video arte, prime mondiali di due film in musica ed anche una mostra di libri d’artista. Tra gli eventi delle prossime settimane, il 4 dicembre “le distanze del tempo” un incontro tra musica elettro-acustica indiana e brasiliana e “Giocattoli” ,tra melologo e opera per bambini, (con testo di Giorgio Manganelli e musica di Lucia Ronchetti).Si annuncia come un evento da non perdere la serata conclusiva sull’invenzione del suono : una serata di cameristica internazionale (opere di italiani, olandesi, tedeschi – tutti già affermati) in cui il violoncello, l’oboe, il pianoforte, il flauto ed altri strumenti tradizionali dialogano con l’elettronica ed il digitale.
Pensioni e lavoro fanno tremare Prodi
Nel nuovo quadro determinatosi dopo la decisione di Silvio Berlusconi di dare vita a un nuovo soggetto politico potrebbe essere il disegno di legge per dare attuazione al Protocollo sul Welfare (in sintesi, ddl welfare) a fare da denotatore all’implosione del Governo Prodi e a portare a nuove elezioni.
La gestazione del ddl è stata complessa e sofferta in quanto si trattava di tradurre in norma un Protocollo che è una ragnatela di compromessi tra scuole di pensiero ed esigenze contrastanti. Allora l’artefice della ragnatela è stata in gran misura la Cgil (king maker del Governo Prodi); i suoi sforzi non sono stati salutati dal successo sperato al referendum del 10 ottobre.
Il ddl che ne è risultato è all’insegna non solo di maggiori costi per l’erario (come documentato da Giuliano Cazzola su L’Occidentale del 19 novembre) ma anche da una inerente precarietà. Ciò non deve essere inteso in termini derogatori. E’ espressione meramente qualificativa per esprimere in modo più facilmente comprensibile a molti lettori ciò che i cultori della teoria dei giochi chiamano “un equilibrio dinamico”.
Vi ricordate John Nash ed il film di cinque anni fa A Beautiful Mind? L’”equilibrio dinamico” è costantemente instabile in quanto dipende da come ciascun giocatore risponde ai giochi degli altri (non conoscendone le strategie ma ricavandole dalle loro mosse).
Nel ddl welfare, l’equilibrio è particolarmente complicato in quanto ciascun giocatore gioca, contemporaneamente, almeno su due tavoli diversi (e con obiettivi differenti). Un tavolo è quello in cui la partita è con gli altri partner della coalizione; la posta in gioco è “la reputazione”, ossia come massimizzare la capacità di incidere sulla politica di governo nel suo complesso. Un altro tavolo è quello con il proprio elettorato dove ciascun giocatore intende massimizzare le propria “popolarità” rispetto al bacino dei propri potenziali elettori.
“Reputazione” e “popolarità” sono spesso in forte contrasto l’una con l’altra. Il gioco, inoltre, non un avviene per partite (o passate di mano) secche ma si declina in una sequenza ininterrotta (sino alla sua conclusione – l’approvazione del ddl welfare- od al punto di rottura – il dissidio tra i giocatori). Di conseguenza è ogni volta differente (su ambedue i tavoli) e nessuna delle parti riesce ad apprendere da “giochi ripetuti” quale potrà essere il comportamento degli avversari in termini di mosse e contromosse. Il gioco è reso ancora più complicato dalle differenze profonde sulla visione degli interessi della collettività che proprio sul welfare hanno i partiti i cui leader siedono nel sinedrio dell’Unione, nonché dalla nascita del Partito Democratico come soggetto volutamente “pigliatutto”, che si colloca a sinistra ma guarda al centro e che si presenta come “riformista”.Un altro Premio Nobel, John D. North, ci ha insegnato che all’avvicinarsi di “nuove regole economiche” (quelle che dovrebbero essere il corpo delle riforme) le “vecchie regole” si irrigidiscono.
La gestazione del ddl è stata complessa e sofferta in quanto si trattava di tradurre in norma un Protocollo che è una ragnatela di compromessi tra scuole di pensiero ed esigenze contrastanti. Allora l’artefice della ragnatela è stata in gran misura la Cgil (king maker del Governo Prodi); i suoi sforzi non sono stati salutati dal successo sperato al referendum del 10 ottobre.
Il ddl che ne è risultato è all’insegna non solo di maggiori costi per l’erario (come documentato da Giuliano Cazzola su L’Occidentale del 19 novembre) ma anche da una inerente precarietà. Ciò non deve essere inteso in termini derogatori. E’ espressione meramente qualificativa per esprimere in modo più facilmente comprensibile a molti lettori ciò che i cultori della teoria dei giochi chiamano “un equilibrio dinamico”.
Vi ricordate John Nash ed il film di cinque anni fa A Beautiful Mind? L’”equilibrio dinamico” è costantemente instabile in quanto dipende da come ciascun giocatore risponde ai giochi degli altri (non conoscendone le strategie ma ricavandole dalle loro mosse).
Nel ddl welfare, l’equilibrio è particolarmente complicato in quanto ciascun giocatore gioca, contemporaneamente, almeno su due tavoli diversi (e con obiettivi differenti). Un tavolo è quello in cui la partita è con gli altri partner della coalizione; la posta in gioco è “la reputazione”, ossia come massimizzare la capacità di incidere sulla politica di governo nel suo complesso. Un altro tavolo è quello con il proprio elettorato dove ciascun giocatore intende massimizzare le propria “popolarità” rispetto al bacino dei propri potenziali elettori.
“Reputazione” e “popolarità” sono spesso in forte contrasto l’una con l’altra. Il gioco, inoltre, non un avviene per partite (o passate di mano) secche ma si declina in una sequenza ininterrotta (sino alla sua conclusione – l’approvazione del ddl welfare- od al punto di rottura – il dissidio tra i giocatori). Di conseguenza è ogni volta differente (su ambedue i tavoli) e nessuna delle parti riesce ad apprendere da “giochi ripetuti” quale potrà essere il comportamento degli avversari in termini di mosse e contromosse. Il gioco è reso ancora più complicato dalle differenze profonde sulla visione degli interessi della collettività che proprio sul welfare hanno i partiti i cui leader siedono nel sinedrio dell’Unione, nonché dalla nascita del Partito Democratico come soggetto volutamente “pigliatutto”, che si colloca a sinistra ma guarda al centro e che si presenta come “riformista”.Un altro Premio Nobel, John D. North, ci ha insegnato che all’avvicinarsi di “nuove regole economiche” (quelle che dovrebbero essere il corpo delle riforme) le “vecchie regole” si irrigidiscono.
lunedì 19 novembre 2007
LA SICUREZZA SI PUO’ GARANTIRE ANCHE COPIANDO
Gli avvenimenti degli ultimi giorni (tra cui la manifestazione contro le richieste dei pubblici ministeri per i danni arrecati a Genova in occasione del G8 del 2001,evento che ha paralizzato la città con un grave costo economico) ripropongono cosa possono fare il Viminale ed il suo titolare per spezzare i tessi tra teppismo e terrorismo (nonché criminalità di vari gradi e livelli). Ogni giorno, le cronache ci ricordano che la sicurezza personale sta diventando uno dei problemi più gravi del Paese. L’esito del voto (quando si andrà alle urne) dipenderà in gran misura dai risultati che chi Governa potrà mostrare in questo campo.
Uno studio freschissimo della Rand Corp. ammonisce che sulla base di una rigorosa (anche se non esplicita) analisi costi benefici, i terrorismi vanno non solo dove hanno i maggiori impatti ma anche dove il terreno è più poroso e le forze dell’ordine (contro le quali è diretta la manifestazione di Genova) ricevono meno supporto dal potere politico. Il terrorismo trova terreno fertile dove c’è lassismo nei confronti del teppismo mascherato da tifoseria sportiva. L’Italia, quindi, è diventata una meta preferita per criminalità grande e piccola, con i nessi di questa ultima con il terrorismo. L’analisi della Rand Corp. dovrebbe indurre il Ministro dell’Interno Giuliano Amato a meditare: per impostare una soluzione adeguata non basta un modesto aumento di stanziamento (quasi un’elemosina) a favore delle forze dell’ordine, approvato sull’onda dei disordini dell’11 novembre. Sono necessarie una politica ed una strategia per attuarla.
Alcune indicazioni sono state date su Il Tempo del 15 novembre. Altre più puntuali vengono dall’analisi della strategia adottata negli Anni Ottanta in Gran Bretagna (dove gli hooligans erano una piaga pur se non legata al terrorismo): riservare parte degli stadi a famiglie , infiltrare Scotland Yard nelle tifoserie per individuare gli elementi facinorosi, applicare il massimo della sanzione a reati nei confronti di persone o cose commessi in rapporto a manifestazioni sportive. Altre ancora vengono da Svezia, Paesi Bassi e Germania dove il compito del controllo delle tifoserie è stato in gran misura demandato alle società sportive in un contesto liberale in Paese caratterizzati da alta coesione e forte controllo sociale; severe, però, le pene- la squalifica od anche la liquidazione. Altre ancora si possono mutuare da come sono stati articolati sistemi di assicurazione privata nei confronti di fenomeni di questa natura; in uno degli ultimi numeri del Journal of Applied Corporate Finance si analizzano le esperienze di Usa, Regno Unito e Germania.
C’è quindi un menu vasto di accorgimenti tecnici (da cui scegliere). Può il titolare del Viminale inserirli in una politica coerente ed efficace? Glielo faranno fare i suoi alleati di governo? Oppure le soluzioni tecniche devo aspettare un cambio di governo? E l’Italia subire un ulteriore degrado?
Uno studio freschissimo della Rand Corp. ammonisce che sulla base di una rigorosa (anche se non esplicita) analisi costi benefici, i terrorismi vanno non solo dove hanno i maggiori impatti ma anche dove il terreno è più poroso e le forze dell’ordine (contro le quali è diretta la manifestazione di Genova) ricevono meno supporto dal potere politico. Il terrorismo trova terreno fertile dove c’è lassismo nei confronti del teppismo mascherato da tifoseria sportiva. L’Italia, quindi, è diventata una meta preferita per criminalità grande e piccola, con i nessi di questa ultima con il terrorismo. L’analisi della Rand Corp. dovrebbe indurre il Ministro dell’Interno Giuliano Amato a meditare: per impostare una soluzione adeguata non basta un modesto aumento di stanziamento (quasi un’elemosina) a favore delle forze dell’ordine, approvato sull’onda dei disordini dell’11 novembre. Sono necessarie una politica ed una strategia per attuarla.
Alcune indicazioni sono state date su Il Tempo del 15 novembre. Altre più puntuali vengono dall’analisi della strategia adottata negli Anni Ottanta in Gran Bretagna (dove gli hooligans erano una piaga pur se non legata al terrorismo): riservare parte degli stadi a famiglie , infiltrare Scotland Yard nelle tifoserie per individuare gli elementi facinorosi, applicare il massimo della sanzione a reati nei confronti di persone o cose commessi in rapporto a manifestazioni sportive. Altre ancora vengono da Svezia, Paesi Bassi e Germania dove il compito del controllo delle tifoserie è stato in gran misura demandato alle società sportive in un contesto liberale in Paese caratterizzati da alta coesione e forte controllo sociale; severe, però, le pene- la squalifica od anche la liquidazione. Altre ancora si possono mutuare da come sono stati articolati sistemi di assicurazione privata nei confronti di fenomeni di questa natura; in uno degli ultimi numeri del Journal of Applied Corporate Finance si analizzano le esperienze di Usa, Regno Unito e Germania.
C’è quindi un menu vasto di accorgimenti tecnici (da cui scegliere). Può il titolare del Viminale inserirli in una politica coerente ed efficace? Glielo faranno fare i suoi alleati di governo? Oppure le soluzioni tecniche devo aspettare un cambio di governo? E l’Italia subire un ulteriore degrado?
ALITALIA, ACQUIRENTI COL FIATO SOSPESO
Questa dovrebbe essere “la settimana dell’Alitalia”- Con tanti problemi sul tappeto (legge finanziaria, disegno di legge sul welfare, crescente indebitamento in derivati degli enti locali, effetti della scarsa sicurezza sui flussi d’investimento estero alla volta dell’Italia, timori e timori per contagio da subprime) la compagnia di bandiera, e le sua traversie, sono sparite dalle prime pagine dei quotidiani economici. I quotidiani d’informazione generalista ne parlano soltanto in occasione di scioperi che tormentano il traffico aereo. Da qualche tempo, tuttavia, uno dei migliori commissari liquidatori della Repubblica, Maurizio Prato, è nelle cloche di comando della compagnia con la direttiva di venderne al più presto la quota azionaria ancora detenuta dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) – giunta a poco meno del 50% a ragione delle misure adottate nel 2005- , ricapitalizzare l’azienda e soprattutto ristrutturarla e porla in grado di fare utili (dopo tre lustri contrassegnati da perdite crescenti ed un indebitamento sempre più forte).
Un anno fa il Presidente del Consiglio ha annunciato che si sarebbe tenuta un’asta con tutte le regole. Invece, si è messo in moto un beauty contest (una gara per spoglio successivi al fine di individuare quale contendente, ove ce ne fossero, assomigliasse di più a quanto desiderato dalla stazione appaltante). La gara è stata inconcludente: i potenziali concorrenti se la sono tutti data prima di arrivare ai preliminari di un accordo. Allora, si è scelta la strada di trattative riservate con i potenziali interessati - il metodo che circa venti anni era stato adottato da Prodi, allora Presidente dell’Iri, per la vendita della Sme – operazione che, fortunatamente per le casse dell’Iri (e dell’Italia), non andò in porto e diede origine ad una complicatissima vicenda giudiziaria di cui solo adesso si stanno chiudendo i postumi. Maurizio Prato-Mandrake ha in un primo momento annunciato che si sarebbe concluso tutto per l’inizio dell’autunno. Ha, poi, annunciato che avrebbe formulato proposte al Governo non oltre il 10 novembre- termine successivamente spostato al 20 novembre , cioè domani. Ulteriori slittamenti farebbero perdere ancora di più la faccia (ed a chi se ne occupa). In ogni la liquidità in cassa è soltanto per alcuni mesi. In breve, o si conclude o si chiude, analogo al motto garibaldino “o Roma o morte!”.
Quale sono gli aspetti essenziali della situazione? Uno dei concorrenti in lizza- Aeroflott – viene dato per escluso, nonostante il piano industriale presentato fosse basato su un’idea non malvagia: far diventare Alitalia il vettore di lusso (e superlusso) di una compagnia internazionale che si è ristrutturata ma che è ancora una fama, per così dire, proletaria. Un altro contendente serio è Air France-Kml, favorito dal fatto che Air France avendo per anni avuto una piccolo quota di Alitalia (e soprattutto un posto nel CdA) è il solo concorrente che ha dati precisi sulla redditività per tratta (informazione sempre tenuta superiservata . Il piano Air France-Kml tenterebbe di minimizzare i tagli occupazionali. Tuttavia, il traffico a lungo raggio verrebbe convogliato su Parigi (i cui aeroporti, Charles De Gaulles in primo luogo) diventerebbero il vero hub, a spese sia di Malpensa sia di Fiumicino. Lufthansa, altro vettore interessato, creerebbe invece un quadrilatero del Nord , potenziando gli scali padani (Venezia, Bologna, Torino, Malpensa) ed i loro collegamenti con Monaco, Francoforte e Zurigo e concentrando a Fiumicino il traffico turistico verso il Mediterraneo e l’Aftica. Tuttavia, i tedeschi prevedono un drastico ridimensionamento sia della flotta sia dell’organico; i sindacati sono già in subbuglio. Ridimensionamento del personale è anche contemplato dalla Cordata Air One ed Intesa Sampaolo, una cordata che pare abbia forti simpatie tanto in ambienti prodiani quanto in alcuni settori della destra ma che, secondo il Presidente della stessa Star Alliance di cui fa parte, non sarebbe in grado (neanche dopo il dimagrimento ed una maggiore specializzazione) di garantire rotte intercontinentali.
Cosa uscirà dal cappello di Prato-Mandrake? Difficile dirlo. Quale che sarà la scelta, però, una volta rinunciato all’asta (come definita in un recente studio di Jeremy Bulow di Stanford e di Paul Kemplerer di Oxford) ed una volta fatte concessioni eccessivi ai sindacati (come ricorda Varry Hirsch di Trinità University) , è difficile non solo presentare una soluzione chiara e trasparente ma anche evitare una bagarre in una coalizione già abbastanza malmessa.
Bulow J., Kamplerer P. "When are Auctions Best?" Stanford University Graduate School of Business Research Paper No. 1973
Hirsch B. "Sluggish Institutions in a Dynamic World: Can Unions and Industrial Competition Coexist?" IZA Discussion Paper No. 2930
Un anno fa il Presidente del Consiglio ha annunciato che si sarebbe tenuta un’asta con tutte le regole. Invece, si è messo in moto un beauty contest (una gara per spoglio successivi al fine di individuare quale contendente, ove ce ne fossero, assomigliasse di più a quanto desiderato dalla stazione appaltante). La gara è stata inconcludente: i potenziali concorrenti se la sono tutti data prima di arrivare ai preliminari di un accordo. Allora, si è scelta la strada di trattative riservate con i potenziali interessati - il metodo che circa venti anni era stato adottato da Prodi, allora Presidente dell’Iri, per la vendita della Sme – operazione che, fortunatamente per le casse dell’Iri (e dell’Italia), non andò in porto e diede origine ad una complicatissima vicenda giudiziaria di cui solo adesso si stanno chiudendo i postumi. Maurizio Prato-Mandrake ha in un primo momento annunciato che si sarebbe concluso tutto per l’inizio dell’autunno. Ha, poi, annunciato che avrebbe formulato proposte al Governo non oltre il 10 novembre- termine successivamente spostato al 20 novembre , cioè domani. Ulteriori slittamenti farebbero perdere ancora di più la faccia (ed a chi se ne occupa). In ogni la liquidità in cassa è soltanto per alcuni mesi. In breve, o si conclude o si chiude, analogo al motto garibaldino “o Roma o morte!”.
Quale sono gli aspetti essenziali della situazione? Uno dei concorrenti in lizza- Aeroflott – viene dato per escluso, nonostante il piano industriale presentato fosse basato su un’idea non malvagia: far diventare Alitalia il vettore di lusso (e superlusso) di una compagnia internazionale che si è ristrutturata ma che è ancora una fama, per così dire, proletaria. Un altro contendente serio è Air France-Kml, favorito dal fatto che Air France avendo per anni avuto una piccolo quota di Alitalia (e soprattutto un posto nel CdA) è il solo concorrente che ha dati precisi sulla redditività per tratta (informazione sempre tenuta superiservata . Il piano Air France-Kml tenterebbe di minimizzare i tagli occupazionali. Tuttavia, il traffico a lungo raggio verrebbe convogliato su Parigi (i cui aeroporti, Charles De Gaulles in primo luogo) diventerebbero il vero hub, a spese sia di Malpensa sia di Fiumicino. Lufthansa, altro vettore interessato, creerebbe invece un quadrilatero del Nord , potenziando gli scali padani (Venezia, Bologna, Torino, Malpensa) ed i loro collegamenti con Monaco, Francoforte e Zurigo e concentrando a Fiumicino il traffico turistico verso il Mediterraneo e l’Aftica. Tuttavia, i tedeschi prevedono un drastico ridimensionamento sia della flotta sia dell’organico; i sindacati sono già in subbuglio. Ridimensionamento del personale è anche contemplato dalla Cordata Air One ed Intesa Sampaolo, una cordata che pare abbia forti simpatie tanto in ambienti prodiani quanto in alcuni settori della destra ma che, secondo il Presidente della stessa Star Alliance di cui fa parte, non sarebbe in grado (neanche dopo il dimagrimento ed una maggiore specializzazione) di garantire rotte intercontinentali.
Cosa uscirà dal cappello di Prato-Mandrake? Difficile dirlo. Quale che sarà la scelta, però, una volta rinunciato all’asta (come definita in un recente studio di Jeremy Bulow di Stanford e di Paul Kemplerer di Oxford) ed una volta fatte concessioni eccessivi ai sindacati (come ricorda Varry Hirsch di Trinità University) , è difficile non solo presentare una soluzione chiara e trasparente ma anche evitare una bagarre in una coalizione già abbastanza malmessa.
Bulow J., Kamplerer P. "When are Auctions Best?" Stanford University Graduate School of Business Research Paper No. 1973
Hirsch B. "Sluggish Institutions in a Dynamic World: Can Unions and Industrial Competition Coexist?" IZA Discussion Paper No. 2930
giovedì 15 novembre 2007
LA MUSICA CONTEMPORANEA NON SUONA A SINISTRA
Il nostro è un piccolo giornale, ma ha vinto una grande battaglia . Con discrezione, non lo ha detto a nessuno sino a quando i risultati non fossero certi e definitivi. E’ in corso dal 23 ottobre al 12 dicembre il 44simo Festival di Nuova Consonanza- la più importante e vivace associazione italiana di musica contemporanea , il cui ruolo e le cui vicende sono raccontati in due bei volumi di Daniela Tortora (Lim Editore). Negli ultimi anni, ha dato la priorità al “suono sacro” ed all’”improvvisazione” ed altri temi che forse non sono andati giù molto bene a chi è cresciuto con l’approccio cultura marxista secondo il quale la musica è una sovrattuttura con cui fare politica di piazza. Non – come ci ha ricordato di recente il Papa – “il linguaggio universale della bellezza, capace di unire tra loro gli uomini di buona volontà su tutta le terra e di portarli ad alzare lo sguardo verso l’Alto ed ad aprirsi al Bene ed al Bello assoluti, che hanno la loro ultima sorgente in Dio stesso”. Tre anni fa, aspetto molto grave: il Comune di Roma (così prodigo nel finanziare feste della moviola e festival italo-francesi e mediterranei) non ha dato alcun contributo al festival di Nuova Consonanza; la Provincia ha versato solo 3000 euro . Per impedire che il festival non venisse tenuto, sono intervenuti gli istituti di cultura in Italia degli Stati Uniti, della Francia, della Germania, dei Paesi Bassi , della Germania – nonché alcune istituzioni private ed universitarie. Una vera e propria gara di solidarietà a favore dell’Italia e di Roma per un festival che non può certo essere classificato “di destra” o “di sinistra” ma si riallaccia comunque alla tradizione degli Anni 30 in cui il nostro era il Paese leader in materia di musica contemporanea – e ne organizzò i primi festival internazionali. La nostra è stata una delle poche che si è alzata a protestare. Siamo stati ascoltati.
Lentamente i contributi del Comune e della Provincia (sempre molto modesti rispetto a quanto generosamente elargito per altre, più ludiche, iniziative) sono tornati. Non solo gli istituti di cultura stranieri (che avevano salvato il festival nel 2004) sono rimasti, ma sono entrati altri enti privati e, per due mesi circa, Roma è al centro dell’attenzione internazionale (sono molto gli artisti stranieri presenti) con una manifestazione che esplora i diversi linguaggi della musica (numerose le prime esecuzioni mondiali) – dall’interazione alla multimedialità, dall’incontro tra poesia e canzone a nuove forme di melologo, dal rapporto tra teatro e musica a quello tra musica e video. Un festival, soprattutto, dove pullulano i giovani come si può constatare andando alla varie iniziative (i cui dettagli sono al sito www.nuovaconsonanza.it)
Lentamente i contributi del Comune e della Provincia (sempre molto modesti rispetto a quanto generosamente elargito per altre, più ludiche, iniziative) sono tornati. Non solo gli istituti di cultura stranieri (che avevano salvato il festival nel 2004) sono rimasti, ma sono entrati altri enti privati e, per due mesi circa, Roma è al centro dell’attenzione internazionale (sono molto gli artisti stranieri presenti) con una manifestazione che esplora i diversi linguaggi della musica (numerose le prime esecuzioni mondiali) – dall’interazione alla multimedialità, dall’incontro tra poesia e canzone a nuove forme di melologo, dal rapporto tra teatro e musica a quello tra musica e video. Un festival, soprattutto, dove pullulano i giovani come si può constatare andando alla varie iniziative (i cui dettagli sono al sito www.nuovaconsonanza.it)
BOCCANEGRA SENZA IL MARE
Il Teatro Comunale di Bologna ha inaugurato la stagione 2007-2008 con “Simon Boccanegra”, una delle opere “maledette” di Giuseppe Verdi. Fu un tonfo alla “prima” a La Fenice nel 1857; rimaneggiata, ebbe esiti modesti a Reggio Emilia, Milano, Napoli e Firenze nel 1858-59. Riconcepita, con l’aiuto di Arrigo Boito, fu un successo di breve durata quando la versione adesso corrente raggiunse La Scala nel 1881. Dal 1934, quando venne rilanciata a Roma, è giunta gradualmente alla consacrazione internazionale all’inizio degli Anni 70 grazie a due edizioni molto differenti: quella di Gianandrea Gavazzeni, tragica, cupa, quasi infernale e quella di Claudio Abbado, densa di colori chiari e di volumi leggeri (impareggiabili le evocazioni marine). La “maledizione” è da imputarsi non solo ad un libretto intricatissimo ma anche e soprattutto ad una partitura bifronte, rivolta lanciata verso l’avvenire (l’impiego dei fagotti e del clarinetto basso sarebbero stati impensabili se Verdi non avesse ascoltato la musica di Wagner),pur se rivolta ancora verso il passato. Ciò rende particolarmente difficile la direzione musicale del lavoro.
L’intreccio è un sofferto apologo. Nella Genova del Duecento, il venticinquenne Simone, uomo del mare, entra in politica nella speranza di sposare, tramite l’ascesa sociale, la donna amata, una patrizia. Diventa Doge ma la sua donna muore e la loro figlia viene rapita. Per un quarto di secolo esercita il potere diventando sempre più solo e più lontano (anche dal mare). Quando ritrova la figlia e scopre affetto paterno per il giovane di cui lei è innamorata, il potere lo annienta, proprio mentre sta per riavvicinarsi definitivamente al suo mare. A questo dramma “privato”, se ne affianca uno “pubblico”: l’appello alla fine delle guerre tra Genova e Venezia ed il sogno di un’Italia unita innescano i tradimenti e la catarsi finale, illuminata, però, dalla speranza che il giovane genero potrà proseguire il cammino tracciato.
Il nuovo allestimento (a Bologna e Reggio Emilia sino al 25 novembre ed a Palermo la prossima stagione) è in una Genova in bianco e nero (con il blu del mare nel fondale) ispirata ad incisione tedesca dell’ultimo scorcio del Quattrocento. Elementi scenici essenziali contrassegnano i vari ambienti. Grande attenzione per la direzione musicale affidata a Michele Mariotti, 28nne enfant prodige. La lettura della partitura è puntuale, ma tetra e monocorde; non si avverte né la brezza marina (che pervade la scrittura orchestrale) né i momenti di maggiore intensità lirica (il primo quadro del primo atto). Non vengono colti gli slanci verso l’avvenire (che caratterizzano l’orchestra più che gli aspetti vocali). In effetti, prima di dirigere “Boccanegra” si dovrebbe affrontare non solo Rossini e Donizetti ma anche il Novecento “storico” (Puccini, Malipiero, Korngold, Zemlisky). La stoffa, però, c’è; con cura Mariotti potrà crescere bene.
Tra le voci primeggiano i colori scuri: Roberto Frontali e Giacomo Prestia (rispettivamente Boccanegra ed il suo rivale Fiesco) forniscono una prova di tutto rispetto, mentre Marco Vratonga (il diabolico Albiani) scivola nel bozzettismo. Di livello Carmen Giannattasio (Maria, figlia di Boccanegra) anche se alla “prima” tendeva a sforzare le note alte. Dopo una prima parte deludente (timbro opaco, volume modesto), Giuseppe Gipali (Gabriele, fidanzato di Maria), ha trovato vigore nella seconda. Soprattutto si avverte meno di quanto si dovrebbe che il colore chiaro di Maria e Gabriele dovrebbe giustapporsi ad una vocalità dominata dai baritoni e dai bassi. Lo spettacolo viene trasmesso live in 50 sale cinematografiche il 18 novembre.
L’intreccio è un sofferto apologo. Nella Genova del Duecento, il venticinquenne Simone, uomo del mare, entra in politica nella speranza di sposare, tramite l’ascesa sociale, la donna amata, una patrizia. Diventa Doge ma la sua donna muore e la loro figlia viene rapita. Per un quarto di secolo esercita il potere diventando sempre più solo e più lontano (anche dal mare). Quando ritrova la figlia e scopre affetto paterno per il giovane di cui lei è innamorata, il potere lo annienta, proprio mentre sta per riavvicinarsi definitivamente al suo mare. A questo dramma “privato”, se ne affianca uno “pubblico”: l’appello alla fine delle guerre tra Genova e Venezia ed il sogno di un’Italia unita innescano i tradimenti e la catarsi finale, illuminata, però, dalla speranza che il giovane genero potrà proseguire il cammino tracciato.
Il nuovo allestimento (a Bologna e Reggio Emilia sino al 25 novembre ed a Palermo la prossima stagione) è in una Genova in bianco e nero (con il blu del mare nel fondale) ispirata ad incisione tedesca dell’ultimo scorcio del Quattrocento. Elementi scenici essenziali contrassegnano i vari ambienti. Grande attenzione per la direzione musicale affidata a Michele Mariotti, 28nne enfant prodige. La lettura della partitura è puntuale, ma tetra e monocorde; non si avverte né la brezza marina (che pervade la scrittura orchestrale) né i momenti di maggiore intensità lirica (il primo quadro del primo atto). Non vengono colti gli slanci verso l’avvenire (che caratterizzano l’orchestra più che gli aspetti vocali). In effetti, prima di dirigere “Boccanegra” si dovrebbe affrontare non solo Rossini e Donizetti ma anche il Novecento “storico” (Puccini, Malipiero, Korngold, Zemlisky). La stoffa, però, c’è; con cura Mariotti potrà crescere bene.
Tra le voci primeggiano i colori scuri: Roberto Frontali e Giacomo Prestia (rispettivamente Boccanegra ed il suo rivale Fiesco) forniscono una prova di tutto rispetto, mentre Marco Vratonga (il diabolico Albiani) scivola nel bozzettismo. Di livello Carmen Giannattasio (Maria, figlia di Boccanegra) anche se alla “prima” tendeva a sforzare le note alte. Dopo una prima parte deludente (timbro opaco, volume modesto), Giuseppe Gipali (Gabriele, fidanzato di Maria), ha trovato vigore nella seconda. Soprattutto si avverte meno di quanto si dovrebbe che il colore chiaro di Maria e Gabriele dovrebbe giustapporsi ad una vocalità dominata dai baritoni e dai bassi. Lo spettacolo viene trasmesso live in 50 sale cinematografiche il 18 novembre.
LA BOHÈME
Nell’ultimo capitolo delle “Scene di una vita da bohème” di Henry Murger, (il romanzo a cui si sono ispirati sia Leoncavallo sia Puccini) , è passato un anno dalla morte di Mimì. Tanto il poeta Rodolfo quanto il pittore Marcello (nonché il musicista Colline ed il filosofo Schaunard) hanno fatto fortuna nelle loro rispettive professioni. Si sono pure imborghesiti. Marcello ha appena passato una notte con Musette – “una triste notte….non era più lo stesso…niente affatto!”. “La gioventù – conclude, con una punta d’amarezza, il pittore – ha una stagione sola”. Nella produzione pucciniana, “Bohème” è un’opera unica, dal colore inconfondibile. Eclettica, tale da fondere mirabilmente il melodramma, il romanticismo tedesco, l’opéra lyrique francese e la romanza-canzone da salotto, è il più fulgido esempio italiano di “literaturoper”. Anche per questo motivo, è memore di Bizet, di Massenet e di Gounod più che della tradizione italiana.
L’Orchestra Sinfonica Romana (Osr), ormai al quinto anno di vita ed impostati internazionalmente anche grazie a tournée in Italia ed all’estero che la hanno portata ad esibirsi anche alla Filarmonica di Berlino, la ha proposta come rappresentazione inaugurale (4 repliche) della sua stagione 2007-2008. Una caratteristiche della Osf, una formazione promossa dalla Cassa di Risparmio di Roma, è di offrire musica a prezzi altamente competitivi: i biglietti interi costano appena €16- quelli ridotti (per studenti ed anziani) € 9. L’abbonamento all’intera stagione (due opere e 27 concerti) è di € 240 a prezzo pieno, € 120 per gli anziani, € 60 per gli studenti. I 1900 posti dell’auditorium di Via della Conciliazione, quindi, sono quasi sempre esauriti. Il programma alterna il grande repertorio romantico dell’Ottocento con assaggi del Novecento Storico (il direttore musicale La Vecchia è impegnato in una registrazione di opere italiane del Novecento Storico sparite dai cartelloni).
In un auditorium concepito per la udienze papali del Giubileo del 1950 e successivamente casa, per decenni, dell’Accademia di Santa Cecilia, non si dispone delle possibilità di un impianto scenico e di una regia analoga a quella (ormai celeberrima) di Franco Zeffirelli che dal 1963 è stata vista in tutti i maggiori teatri del mondo. Si sono abolite le prime file di poltrone per creare un golfo mistifico e si è costruito un palcoscenico embrionale in quella che di solito è la gradinata orchestrale. Le scene sono di tela dipinta, l’attrezzeria è ridotta al minimo. Condizioni, però, non molto differenti da quelle che caratterizzavano il Teatro Regio di Torino il primo febbraio 1896 quando l’opera debuttò, con un successo trionfale rapidamente estesosi in tutti i continenti.
La regia della giovanissima Cecilia La Vecchia e le scene di Salvatore Listo sono ispirati, rispettivamente, la prima al 45enne allestimento di Zeffirelli (che coglierne la magia dell’eclettismo e ne traduce il colore musicale in recitazione) e le seconde ai bozzetti di quelle originali di Alfred Hohenststein. La regia mostra una mano esperta nel guidare la recitazione e nel curare i dettaglio Naturalmente occorre fare di necessità virtù, limitando il ruolo delle masse sceniche – ma il coro guidato da Stefano Cucci è di grande pregio tanto nel secondo quadro quanto nella prima parte del terzo. Inoltre, nelle scene prevalgono tinte scure (quasi a presagire il triste finale sin dall’inizio).
Andando alla parte più squisitamente musicale, lo spettacolo è via via migliorato man mano che si passava da un quadro all’altro. Nel primo quadro, forse a ragione di un certo andirivieni in sala a causa di spettatori tardivi, l’orchestra, guidata da Francesco La Vecchia, ha reso meno delle aspettative e gli impasti tra golfo mistico e palcoscenico (improvvisato) hanno lasciato a desiderare (soprattutto rispetto ad altre esecuzioni dell’Osr). La situazione è migliorata nei quadri successivi ed il risultato successivo è stato più che buono soprattutto se si tiene conto che si era in un auditorium di 1900 posti adattato alla sinfonica ma non certo concepito per la lirica. L’orchestra – occorre sottolinearlo – non copre mai le voci.
Per quanto riguarda le voci, si è fatta la scelta di affiancare due cantanti molto affermati (Daniela Dessì e Fabio Armiliato) con interpreti giovani, all’inizio della carriera. Daniela Dessì è una Mimì di grandi capacità. Diamo un esempio: l’elegante facilità con cui in Mi chiamano Mimì passa dal rondò iniziale al disegno ternario più ampio della sezione centrale al recitativo sommesso di quella finale. Significativo anche come in Donde lieta uscì sa interessere l’arioso di reminiscenze tematiche del suo ruolo nel resto dell’opera. Il Rodolfo di Fabio Armiliato è, in parte, una scoperta in quanto ci siamo abituati ad ascoltarlo in ruoli spinti. Costruisce un Rodolfo dolce, quasi fragile sin dall’aria in tre paragrafi in cui si presenta (a Mimì ed agli spettatori), con l’inizio caratterizzato da tenera delicatezza, con il climax a piena voce nella parte centrale e la fase conclusiva che diventa, d’ora in avanti, il motivo d’amore dell’opera. Ambedue hanno ricevuto applausi a scena aperta e ripetute chiamate alla fine.
Tra gli altri, spiccano la Musetta di Anita Selvaggio, un soprano leggero delizioso nel piccolo valzer del secondo quadro e nella preghiera finale, e Alexandre Vassiliev la cui Vecchia Zimarra ha la richiesta lugubre tonalità minore. Un po’ rigido il Marcello di Carlo Morini. Adeguati gli altri.
Grande successo di un pubblico fidelizzato all’Osf.
LA BOHÈME.
Opera in quattro quadri di Luigi Illica e Giuseppe Giocosa
Da “Scènes de la Vie de Bohème” di Henri Murges
Mini…………………………………….Daniela Dessì
Rodolfo…………………………………Fabio Armiliato
Musetta…………………………………Anita Selvaggio
Marcello………………………………...Carlo Morini
Schaunard……………………………….Davide Malvestito
Colline……………………………………Alexandre Vassiliev
Benoit/Alcindoro………………………...Alessandro Calamia
Parpignol…………………………………Pierluigi Paulucci
Regia ……. Cecilia La Vecchia
Scene…………………………………….Salvatore Liistro
Orchestra sinfonica di Roma
Nuovo coro lirico-sinfonico romano diretto da Stefano Cucci
Direzione musicale. Francesco La Vecchia
Roma., 11 novembre 2007-11-13
Auditorium di Via della Conciliazione
L’Orchestra Sinfonica Romana (Osr), ormai al quinto anno di vita ed impostati internazionalmente anche grazie a tournée in Italia ed all’estero che la hanno portata ad esibirsi anche alla Filarmonica di Berlino, la ha proposta come rappresentazione inaugurale (4 repliche) della sua stagione 2007-2008. Una caratteristiche della Osf, una formazione promossa dalla Cassa di Risparmio di Roma, è di offrire musica a prezzi altamente competitivi: i biglietti interi costano appena €16- quelli ridotti (per studenti ed anziani) € 9. L’abbonamento all’intera stagione (due opere e 27 concerti) è di € 240 a prezzo pieno, € 120 per gli anziani, € 60 per gli studenti. I 1900 posti dell’auditorium di Via della Conciliazione, quindi, sono quasi sempre esauriti. Il programma alterna il grande repertorio romantico dell’Ottocento con assaggi del Novecento Storico (il direttore musicale La Vecchia è impegnato in una registrazione di opere italiane del Novecento Storico sparite dai cartelloni).
In un auditorium concepito per la udienze papali del Giubileo del 1950 e successivamente casa, per decenni, dell’Accademia di Santa Cecilia, non si dispone delle possibilità di un impianto scenico e di una regia analoga a quella (ormai celeberrima) di Franco Zeffirelli che dal 1963 è stata vista in tutti i maggiori teatri del mondo. Si sono abolite le prime file di poltrone per creare un golfo mistifico e si è costruito un palcoscenico embrionale in quella che di solito è la gradinata orchestrale. Le scene sono di tela dipinta, l’attrezzeria è ridotta al minimo. Condizioni, però, non molto differenti da quelle che caratterizzavano il Teatro Regio di Torino il primo febbraio 1896 quando l’opera debuttò, con un successo trionfale rapidamente estesosi in tutti i continenti.
La regia della giovanissima Cecilia La Vecchia e le scene di Salvatore Listo sono ispirati, rispettivamente, la prima al 45enne allestimento di Zeffirelli (che coglierne la magia dell’eclettismo e ne traduce il colore musicale in recitazione) e le seconde ai bozzetti di quelle originali di Alfred Hohenststein. La regia mostra una mano esperta nel guidare la recitazione e nel curare i dettaglio Naturalmente occorre fare di necessità virtù, limitando il ruolo delle masse sceniche – ma il coro guidato da Stefano Cucci è di grande pregio tanto nel secondo quadro quanto nella prima parte del terzo. Inoltre, nelle scene prevalgono tinte scure (quasi a presagire il triste finale sin dall’inizio).
Andando alla parte più squisitamente musicale, lo spettacolo è via via migliorato man mano che si passava da un quadro all’altro. Nel primo quadro, forse a ragione di un certo andirivieni in sala a causa di spettatori tardivi, l’orchestra, guidata da Francesco La Vecchia, ha reso meno delle aspettative e gli impasti tra golfo mistico e palcoscenico (improvvisato) hanno lasciato a desiderare (soprattutto rispetto ad altre esecuzioni dell’Osr). La situazione è migliorata nei quadri successivi ed il risultato successivo è stato più che buono soprattutto se si tiene conto che si era in un auditorium di 1900 posti adattato alla sinfonica ma non certo concepito per la lirica. L’orchestra – occorre sottolinearlo – non copre mai le voci.
Per quanto riguarda le voci, si è fatta la scelta di affiancare due cantanti molto affermati (Daniela Dessì e Fabio Armiliato) con interpreti giovani, all’inizio della carriera. Daniela Dessì è una Mimì di grandi capacità. Diamo un esempio: l’elegante facilità con cui in Mi chiamano Mimì passa dal rondò iniziale al disegno ternario più ampio della sezione centrale al recitativo sommesso di quella finale. Significativo anche come in Donde lieta uscì sa interessere l’arioso di reminiscenze tematiche del suo ruolo nel resto dell’opera. Il Rodolfo di Fabio Armiliato è, in parte, una scoperta in quanto ci siamo abituati ad ascoltarlo in ruoli spinti. Costruisce un Rodolfo dolce, quasi fragile sin dall’aria in tre paragrafi in cui si presenta (a Mimì ed agli spettatori), con l’inizio caratterizzato da tenera delicatezza, con il climax a piena voce nella parte centrale e la fase conclusiva che diventa, d’ora in avanti, il motivo d’amore dell’opera. Ambedue hanno ricevuto applausi a scena aperta e ripetute chiamate alla fine.
Tra gli altri, spiccano la Musetta di Anita Selvaggio, un soprano leggero delizioso nel piccolo valzer del secondo quadro e nella preghiera finale, e Alexandre Vassiliev la cui Vecchia Zimarra ha la richiesta lugubre tonalità minore. Un po’ rigido il Marcello di Carlo Morini. Adeguati gli altri.
Grande successo di un pubblico fidelizzato all’Osf.
LA BOHÈME.
Opera in quattro quadri di Luigi Illica e Giuseppe Giocosa
Da “Scènes de la Vie de Bohème” di Henri Murges
Mini…………………………………….Daniela Dessì
Rodolfo…………………………………Fabio Armiliato
Musetta…………………………………Anita Selvaggio
Marcello………………………………...Carlo Morini
Schaunard……………………………….Davide Malvestito
Colline……………………………………Alexandre Vassiliev
Benoit/Alcindoro………………………...Alessandro Calamia
Parpignol…………………………………Pierluigi Paulucci
Regia ……. Cecilia La Vecchia
Scene…………………………………….Salvatore Liistro
Orchestra sinfonica di Roma
Nuovo coro lirico-sinfonico romano diretto da Stefano Cucci
Direzione musicale. Francesco La Vecchia
Roma., 11 novembre 2007-11-13
Auditorium di Via della Conciliazione
DIMENTICARE LO SPORT: SPIANA LA VIA AL TERRORISMO
La settimana prossima (il 22-23 novembre) si tiene alla Università Bocconi, un seminario internazionale, promosso dalla Commissione Europea, su come lo sport può essere un elemento di creazione di “capitale sociale” (una rete associativa a fini di interesse collettivo) e di “coesione sociale” (uno strumento di integrazione). Il seminario( per i dettagli www.unibocconi.it/sportandsocialcapital) avviene all’indomani delle tragiche vicende narrate e commentate da Il Tempo negli ultimi giorni. Da un lato, economisti di tutta Europa esaminano modelli ed esperienza su come lo sport possa essere un veicolo di crescita per tutti, di promozione sociale e di integrazione; da un altro, violenze gravissime che hanno proiettato un’immagine pessima dell’Italia (e di chi la governa) nel resto del mondo.
Quale la determinante di una divergenza che più profonda non potrebbe essere? La politica, o meglio la non-politica (di chi ha responsabilità di Governo) di fronte ad un clima crescente di odio contro la società in generale e le forze dell’ordine in particolare. I fatti, ugualmente tragici, di Catania sono soltanto di pochi mesi fa.
Il Ministro dell’Interno Giuliano Amato è persona colta con perfetta padronanza della lingua inglese. Dopo i fatti di Catania è stato portato alla sua attenzione lo studio di Panu Poutvaara (Università di Helsinki) e Mikael Prisk (Università di Monaco) , pubblicato come CESifo Working Paper Series No. 1882, in cui si documenta il nesso tra l’”hooliganism” collegato al calcio ed il terrorismo (specialmente quello di matrice medio-orientale). Non c’è stata alcuna azione.
Con la sua profonda conoscenza di diritto comparato avrebbe dovuto dare una mano al Ministro dello Sport e delle politiche giovanili Giovanna Meandri nel rimettere in sesto un comparto (in cui la mano pubblica aveva già dovuto effettuare un salvataggio nel 2003 e scandali a go-go erano esplosi nel 2005-200&) Si sarebbero potute mutuare (come ribadito da Il Tempo ) idee dalla regolazione in altri Paesi e in altre attività di interesse collettivo. Interessante interesse l’esperienza tedesca dove la normativa prevede che almeno il 51% delle azioni delle s.p.a. del calcio sia controllato da club sportivi che hanno a cuore il destino della squadra dal punto di vista emotivo ed affettivo non unicamente finanziario. Modelli analoghi sono stati adottati in Spagna e in Gran Bretagna. Si può, poi, studiare l’ipotesi di organizzare il comparto in fondazioni (una versione moderna delle associazioni sportive della prima parte del Novecento). Tutte queste formule giuridiche contemplano rigorosa disciplina di bilancio e trasparenza; commissariamento ed anche scioglimento per chi no sta alle regole. Implicano anche controllo delle tifoserie da parte delle fondazioni (con la sanzione della liquidazione in caso di turbativa di ordine pubblico). Il silenzio del non governo (nonostante le premonizioni) è davvero assordante.
Quale la determinante di una divergenza che più profonda non potrebbe essere? La politica, o meglio la non-politica (di chi ha responsabilità di Governo) di fronte ad un clima crescente di odio contro la società in generale e le forze dell’ordine in particolare. I fatti, ugualmente tragici, di Catania sono soltanto di pochi mesi fa.
Il Ministro dell’Interno Giuliano Amato è persona colta con perfetta padronanza della lingua inglese. Dopo i fatti di Catania è stato portato alla sua attenzione lo studio di Panu Poutvaara (Università di Helsinki) e Mikael Prisk (Università di Monaco) , pubblicato come CESifo Working Paper Series No. 1882, in cui si documenta il nesso tra l’”hooliganism” collegato al calcio ed il terrorismo (specialmente quello di matrice medio-orientale). Non c’è stata alcuna azione.
Con la sua profonda conoscenza di diritto comparato avrebbe dovuto dare una mano al Ministro dello Sport e delle politiche giovanili Giovanna Meandri nel rimettere in sesto un comparto (in cui la mano pubblica aveva già dovuto effettuare un salvataggio nel 2003 e scandali a go-go erano esplosi nel 2005-200&) Si sarebbero potute mutuare (come ribadito da Il Tempo ) idee dalla regolazione in altri Paesi e in altre attività di interesse collettivo. Interessante interesse l’esperienza tedesca dove la normativa prevede che almeno il 51% delle azioni delle s.p.a. del calcio sia controllato da club sportivi che hanno a cuore il destino della squadra dal punto di vista emotivo ed affettivo non unicamente finanziario. Modelli analoghi sono stati adottati in Spagna e in Gran Bretagna. Si può, poi, studiare l’ipotesi di organizzare il comparto in fondazioni (una versione moderna delle associazioni sportive della prima parte del Novecento). Tutte queste formule giuridiche contemplano rigorosa disciplina di bilancio e trasparenza; commissariamento ed anche scioglimento per chi no sta alle regole. Implicano anche controllo delle tifoserie da parte delle fondazioni (con la sanzione della liquidazione in caso di turbativa di ordine pubblico). Il silenzio del non governo (nonostante le premonizioni) è davvero assordante.
mercoledì 14 novembre 2007
Prodi, leader più impopolare d'Europa dovrebbe chiedere consiglio a Tayllerand
Prima del voto definitivo del Senato sulla legge finanziaria – si mormora nei felpati corridoi di Palazzo Chigi - il Presidente del Consiglio Romano Prodi si è recato in uno di quei pellegrinaggi molto speciali che fa nelle occasioni davvero importanti (e di cui di tanto in tanto trapela la notizia sui giornali). Non un pellegrinaggio verso un Santuario noto e conosciuto. Ma verso una villa nel modenese di proprietà di un suo collega economista (specializzato nelle tematiche dell’energia e dell’ambiente), pargolo di industriali emiliani.
Lo scopo: chiedere consiglio nientedimeno che a Charles Tayllerand – uno che di Governi e di governabilità ha avuto esperienza durante la sua avventura terrena visto che è stato Ministro di Luigi XVI, dei Comitati di Salute Pubblica ai tempi della Rivoluzione, di Napoleone Bonaparte, di Luigi XVII e di Luigi Filippo (sì proprio quello soprannominato “égalitè”- precursore, a suo modo, del Partito Democratico). Più che il voto al Senato a far da molla alla richiesta di un colloquio riservato con il maestro della governabilità, è stato il risultato dell’Harris Interactive Service secondo cui proprio lui, Romano Prodi in persona, sarebbe il leader più “impopolare” di quelli dei maggiori Paesi europei (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Spagna): “un tasso di impopolarità” del 64% (analogo a quello toccato negli Usa da Richard Nixon alla vigilia delle dimissioni per l’affare Watergate) con un aumento rispetto al già elevatissimo 59% toccato nel sondaggio precedente. E’ un dato preoccupante, indicatore di fragilità (quale che sia l’esito della votazione al Senato).
“Permettimi di chiamarti figliolo – avrebbe detto Tayllerand - Dato che pur avendo avuto 177 amanti, sono stato ordinato prete in giovane età ed ho segretamente esercitato il ministero pure ai tempi del Terrore, consentimi questo tono familiare. Non notizie particolarmente incoraggianti: la rilevazione del sondaggio che ti preoccupa è stata fatta tra il 3 ed il 15 ottobre; nelle ultime settimane il tuo tasso di impopolarità è ancora cresciuto a ragione dell’ondata di scioperi (pubblico impiego, scuola, sanità, trasporti di tutti i tipo), del caro-pane e caro-pasta che aggravano a tasso esponenziale il disagio dei cittadini, della sempre maggiore insicurezza. Al pullulare di fattacci di cronaca nera si sono aggiunte le scorribande di tifoserie contro la polizia, purtroppo non più finanziata e supportata come ai tempi in cui la guidava il mio rivale Joseph Fouchet – pure lui molto bravo a garantire la governabilità (quale che fosse il regine). Adesso, proprio secondo le informazioni che Fouché continua a raccogliere anche nell’oltretomba, il tuo tasso di impopolarità supera il 75%".
Si può restare saldi in sella se si è così impopolari? Ci sono riusciti Roberspierre, Napoleone e Luigi XVIII , tre uomini di Governo che ho umilmente servito con la lealtà che è a tutti nota. C’è qualche lezione che può, caro Romano, esserti utile? Due sono quelle essenziali: non inimicarsi i grandi elettori e le alte sfere della burocrazia, ma anzi concedere loro di tutto e di più, come afferma la pubblicità dei tuoi gazzettini televisivi.
“Tu un grande elettore, oggi li chiamate “king maker”, lo avevi. Era quella Cgil che si è anche adattata a fare da attore nella godibile “pochade” della Fabbrica del Programma nel 2005-2006. Ti ha pure aiutato a mettere a punto quel “Protocollo sul Welfare” che causerà guai seri a tutti i Governi futuri (nella speranza che ti rimpianga qualcuno di quel 25% che oggi non ti classifica “impopolare”). Stai perdendo anche lei: una dei suoi rami più importanti, la Fiom, è ormai sulla via delle secessione, i Cobas organizzano scioperi a più non posso, il suo leader viene preso a sberleffi all’Università di Roma Tre. La Confederazione sa di incidere molto meno della sinistra radicale sull’azione di Governo. Ai piani alti di corso d’Italia c’è chi pensa di avere errato ad essere stato il tuo grande elettore. C’è pure chi vorrebbe buttarti dalla finestra. Come tentare di recuperarla? Molta contrizione, figliolo. E distanze da tutti coloro, sinistra radicale in primo luogo, che stanno insediando il ruolo del tuo grande elettore".
Ancora più delicato il rapporto con l’alta burocrazia. "Fouchet (che pure in questo luogo cerco di non incrociare neanche per caso) ed io abbiamo attraversato tanti Governi e tanti regimi, nell’arco di tanti anni, proprio in quanto da altissimi burocrati avevano patti di ferro con i “precari” di volta in volta alla guida della Francia: a loro i discorsi ed il presenzialismo pubblico, a noi certezze – e privilegi. Pure quel Luigi XIV, il quale, due generazioni prima che io cominciassi ad operare, diceva “après moi le déluge” (dopo di me il diluvio) carezzava i Cardinali (quali quel Mazzarino) che erano i suoi alti burocrati. Napoleone, che era un po’ più imperiale di te, diede a ciascuna categoria della alta burocrazia una “grande école” perché si formassero a loro immagine e somiglianza, privilegiati sì ma, silenziosamente al servizio, del potere politico di turno. Li hai toccati nel portafoglio (mettendo un tetto alle loro retribuzioni) e nella loro possibilità di riprodursi. Pare che la prima mossa sia stata la risposta ad un libro di due giornalisti: in politica – me lo ha insegnato l’esperienza – non si risponde mai alle provocazioni. Li hai toccati nella loro facoltà di riproduzione, si dice, per fare contento un amico rimasto fuori dal Parlamento. In politica – mi dicono i ricordi della mia vita – amici è meglio non averne: quando se ne contenta uno, se ne scontentano dieci. E’ vero che il Senato ha cassato l’ipotesi di chiudere “les grandes écoles” ma una proposta fotocopia è stata presentata alla Camera da parlamentari del tuo schieramento che, francamente, ti vogliono male".
La conseguenza è che i prefetti si sentono abbandonati da Giuliano Amato, gli ambasciatori da Massimo D’Alema, la polizia da tutto e da tutti. Inoltre VVV (Viceministro Vincenzo Visco) è infuriato (sono d’accordo con Francesco Cossiga, uomo saggio: Tommaso Padoa-Schioppa, TPS di politica non sa nulla e fa disastri tutte le volte che non segue ciò che gli dice VVV). Se il contesto continua così, il tuo tasso d’impopolarità supererà presto l’80% . Con il grande elettore e la burocrazia contro, sarà arduo mandare avanti la stessa ordinaria amministrazione.
"Che fare? Da questo stellato soglio, si può suggerire soltanto la strada delle novene. Un altro inquilino di quassù, tale William Shakespeare, si aggira con un suo libro in cui il protagonista ripete alla persona a cui vuole bene.
“Non ho mai voluto né bene né male a nessuno (con l’eccezion di Fouchet, sempre detestato). Forse il suggerimento del personaggio di Shakespeare ti si addice........”
Lo scopo: chiedere consiglio nientedimeno che a Charles Tayllerand – uno che di Governi e di governabilità ha avuto esperienza durante la sua avventura terrena visto che è stato Ministro di Luigi XVI, dei Comitati di Salute Pubblica ai tempi della Rivoluzione, di Napoleone Bonaparte, di Luigi XVII e di Luigi Filippo (sì proprio quello soprannominato “égalitè”- precursore, a suo modo, del Partito Democratico). Più che il voto al Senato a far da molla alla richiesta di un colloquio riservato con il maestro della governabilità, è stato il risultato dell’Harris Interactive Service secondo cui proprio lui, Romano Prodi in persona, sarebbe il leader più “impopolare” di quelli dei maggiori Paesi europei (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Spagna): “un tasso di impopolarità” del 64% (analogo a quello toccato negli Usa da Richard Nixon alla vigilia delle dimissioni per l’affare Watergate) con un aumento rispetto al già elevatissimo 59% toccato nel sondaggio precedente. E’ un dato preoccupante, indicatore di fragilità (quale che sia l’esito della votazione al Senato).
“Permettimi di chiamarti figliolo – avrebbe detto Tayllerand - Dato che pur avendo avuto 177 amanti, sono stato ordinato prete in giovane età ed ho segretamente esercitato il ministero pure ai tempi del Terrore, consentimi questo tono familiare. Non notizie particolarmente incoraggianti: la rilevazione del sondaggio che ti preoccupa è stata fatta tra il 3 ed il 15 ottobre; nelle ultime settimane il tuo tasso di impopolarità è ancora cresciuto a ragione dell’ondata di scioperi (pubblico impiego, scuola, sanità, trasporti di tutti i tipo), del caro-pane e caro-pasta che aggravano a tasso esponenziale il disagio dei cittadini, della sempre maggiore insicurezza. Al pullulare di fattacci di cronaca nera si sono aggiunte le scorribande di tifoserie contro la polizia, purtroppo non più finanziata e supportata come ai tempi in cui la guidava il mio rivale Joseph Fouchet – pure lui molto bravo a garantire la governabilità (quale che fosse il regine). Adesso, proprio secondo le informazioni che Fouché continua a raccogliere anche nell’oltretomba, il tuo tasso di impopolarità supera il 75%".
Si può restare saldi in sella se si è così impopolari? Ci sono riusciti Roberspierre, Napoleone e Luigi XVIII , tre uomini di Governo che ho umilmente servito con la lealtà che è a tutti nota. C’è qualche lezione che può, caro Romano, esserti utile? Due sono quelle essenziali: non inimicarsi i grandi elettori e le alte sfere della burocrazia, ma anzi concedere loro di tutto e di più, come afferma la pubblicità dei tuoi gazzettini televisivi.
“Tu un grande elettore, oggi li chiamate “king maker”, lo avevi. Era quella Cgil che si è anche adattata a fare da attore nella godibile “pochade” della Fabbrica del Programma nel 2005-2006. Ti ha pure aiutato a mettere a punto quel “Protocollo sul Welfare” che causerà guai seri a tutti i Governi futuri (nella speranza che ti rimpianga qualcuno di quel 25% che oggi non ti classifica “impopolare”). Stai perdendo anche lei: una dei suoi rami più importanti, la Fiom, è ormai sulla via delle secessione, i Cobas organizzano scioperi a più non posso, il suo leader viene preso a sberleffi all’Università di Roma Tre. La Confederazione sa di incidere molto meno della sinistra radicale sull’azione di Governo. Ai piani alti di corso d’Italia c’è chi pensa di avere errato ad essere stato il tuo grande elettore. C’è pure chi vorrebbe buttarti dalla finestra. Come tentare di recuperarla? Molta contrizione, figliolo. E distanze da tutti coloro, sinistra radicale in primo luogo, che stanno insediando il ruolo del tuo grande elettore".
Ancora più delicato il rapporto con l’alta burocrazia. "Fouchet (che pure in questo luogo cerco di non incrociare neanche per caso) ed io abbiamo attraversato tanti Governi e tanti regimi, nell’arco di tanti anni, proprio in quanto da altissimi burocrati avevano patti di ferro con i “precari” di volta in volta alla guida della Francia: a loro i discorsi ed il presenzialismo pubblico, a noi certezze – e privilegi. Pure quel Luigi XIV, il quale, due generazioni prima che io cominciassi ad operare, diceva “après moi le déluge” (dopo di me il diluvio) carezzava i Cardinali (quali quel Mazzarino) che erano i suoi alti burocrati. Napoleone, che era un po’ più imperiale di te, diede a ciascuna categoria della alta burocrazia una “grande école” perché si formassero a loro immagine e somiglianza, privilegiati sì ma, silenziosamente al servizio, del potere politico di turno. Li hai toccati nel portafoglio (mettendo un tetto alle loro retribuzioni) e nella loro possibilità di riprodursi. Pare che la prima mossa sia stata la risposta ad un libro di due giornalisti: in politica – me lo ha insegnato l’esperienza – non si risponde mai alle provocazioni. Li hai toccati nella loro facoltà di riproduzione, si dice, per fare contento un amico rimasto fuori dal Parlamento. In politica – mi dicono i ricordi della mia vita – amici è meglio non averne: quando se ne contenta uno, se ne scontentano dieci. E’ vero che il Senato ha cassato l’ipotesi di chiudere “les grandes écoles” ma una proposta fotocopia è stata presentata alla Camera da parlamentari del tuo schieramento che, francamente, ti vogliono male".
La conseguenza è che i prefetti si sentono abbandonati da Giuliano Amato, gli ambasciatori da Massimo D’Alema, la polizia da tutto e da tutti. Inoltre VVV (Viceministro Vincenzo Visco) è infuriato (sono d’accordo con Francesco Cossiga, uomo saggio: Tommaso Padoa-Schioppa, TPS di politica non sa nulla e fa disastri tutte le volte che non segue ciò che gli dice VVV). Se il contesto continua così, il tuo tasso d’impopolarità supererà presto l’80% . Con il grande elettore e la burocrazia contro, sarà arduo mandare avanti la stessa ordinaria amministrazione.
"Che fare? Da questo stellato soglio, si può suggerire soltanto la strada delle novene. Un altro inquilino di quassù, tale William Shakespeare, si aggira con un suo libro in cui il protagonista ripete alla persona a cui vuole bene
“Non ho mai voluto né bene né male a nessuno (con l’eccezion di Fouchet, sempre detestato). Forse il suggerimento del personaggio di Shakespeare ti si addice........”
L'Italia non è competitiva. Lo sapevano tutti, tranne TPS
Ci dobbiamo rassegnare ad una crescita economica rasoterra quale quella che caratterizza l’Italia dall’inizio degli anni '90 (e che, secondo le più recenti stime della Commissione Europea, del Fmi e dell’Ocse, continuerà a travagliarci nel prossimo futuro). Sembra essersene accorto perfino il ministro dell'Econimia, Tommaso Padoa Schioppa, che proprio ieri, dopo la riunione dell'Eurogruppo, ha riepilogato le ragioni di preoccupazione per la perdita di competitività del nostro paese. Ma tutto era già scritto nei numeri.
Le previsioni del Fmi e dell’Ocse sono state presentate alcune settimane fa; quelle della Commissione Europea venerdì 9 novembre. I dettagli sono scaricabili dai siti web delle tra istituzioni. Tutte e tre hanno un tema di fondo: l’economia dell’area dell’euro sta subendo una fase di rallentamento (una crescita del pil del 2,6% nel 2007 e del 2,2% nel 2008 e nel 2009), ma l’Italia ne è il fanalino di coda (una crescita del pil dell’1,9% nel 2007, dell’1,4% nel 2008 e dell’1,6% nel 2009) con il risultato, tra l’altro, che il rapporto indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e pil resterà al 2,3 nei tre anni della previsione e, di conseguenza, non si azzererà nel 2010 (come sostiene imperturbabile il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Tommaso Padoa-Schioppa).
Chi pensasse che dietro i calcoli di Commissione Europea, Fmi e Ocse ci siano quegli “gnomi di Zurigo” che secondo il Presidente Usa dell’epoca (Richard Nixon) ce la hanno contro questo e contro quello (ed ora se la sarebbero presa con il Professore e la sua variegata comitiva) , dia un’occhiata alle stime del consensus (20 istituti econometrici privati internazionali) diramate (a chi vi è abbonato) il 7 novembre: sono analoghe a quelle degli organismi internazionali (anzi ancora meno ottimistiche per l’Italia di cui evidenziano un marcato rallentamento rispetto alle stime diffuse dal “consensus” all’inizio di ottobre?
E’ colpa del “destino cinico e baro”, per evocare un’espressione degli Anni '60 o più semplicemente del malgoverno che caratterizza il Paese? L’aumento della spesa e del carico fiscale con la finanziaria del 2006 sul 2007 avrà un effetto frenante (dicono i modelli econometrici) per almeno tre anni, le lenzuolate “Bersani” avvolgono la morte delle liberalizzazioni, la privatizzazione Alitalia è ormai una pochade degna di quelle che Sacha Guitry metteva in scena nei palconoscenici boulevardiers parigini degli Anni 30, di privatizzazioni Rai e Poste non si parla più, si crea un nuovo Iri attorno alla Cassa Depositi e Prestiti, viene azzerata la riforma previdenziale che porta il nome del Sen Lamberto Dini: questi non sono che alcuni aspetti di una politica che non soltanto non promuove la crescita ma non governa neanche quel declino di cui, in varia misura, soffrono vari Paesi dell’Ue a ragione dell’integrazione economica internazionale e delle implicazioni che essa comporta per chi non riesce a riconvertire la propria economia verso attività ad alto valore aggiunto. L’Occidentale commenta con frequenza i singoli aspetti della politica economica della sinistra di malgoverno, sottolineandone principalmente le dimensioni macro-economiche.
Le ultime stime tanto di istituzioni internazionali quanto di centri privati di analisi econometrica inducono a mettere l’accento su elemento distintivo (se ci raffrontiamo con il resto dell’area dell’euro): il marcato rallentamento dalla produttività del lavoro. Secondo i dati Eurostat e Bce (anche essi scaricabili dai siti delle rispettive organizzazioni), nel 2001-2005, nell’area dell’euro, la produttività del lavoro è aumentata appena dello 0,5% l’anno (rispetto all’1,7% l’anno negli Usa) ma in Italia è diminuita dello 0,8% l’anno. Non molto meglio nei cinque anni precedenti: un incremento del 2,1% l’anno negli Usa, dell’1,2% nell’unione monetaria europea e dello 0,9% in Italia. Nel nostro Paese c’è stata una leggera ripresa nel 2006 (un aumento dello 0,5%), inferiore però alla media di Eurolandia (1,2%) e dell’aumento negli Usa (1,4%), pur in fase di rallentamento.
Gran parte degli studi sino ad ora condotti attribuiscono tale scoraggiante andamento alla specializzazione produttiva italiana (in settori a bassa tecnologia), alla modesta dimensione delle imprese, alla mancanza di adeguati investimenti in ricerca e sviluppo. Tutte determinanti che lasciano poco spazio alla speranza. Un’analisi empirica dell’Isae (il pensatoio economico del Ministero dell’Economia e delle Finanze), guidata da Sergio De Nardis, contiene, però, interessanti segnali positivi: sotto la superficie, ci sono situazioni aziendali molto differenti poiché molte imprese hanno condotto, dalla metà degli Anni 90, profonde ristrutturazioni di cui si cominciano già, in alcuni casi, a vedere i frutti. Tali segnali positivi possono essere messi in relazione con misure adottate nella precedente legislatura (dalle legge Biagi, alla normativa per facilitare l’aumento delle dimensioni di impresa, all’inizio della strategia di riduzione del peso fiscale) ma adesso sulla via dell’abrogazione o della sterilizzazione.
Ancora più positivo uno studio (anch’esso empirico) condotto, con metodo econometrico innovativo, in seno al servizio strategie e studi di UniCredito ed in corso di pubblicazione sulla “Rivista di Politica Economica”. I due ricercatori, Andrea Brasili e Loredana Federico, esaminano la distribuzione settoriale del “capitale imprenditoriale” (ossia la capacità di cogliere le opportunità, scegliere le tecniche di produzione e porsi alla frontiera delle tecnologia). In un primo approccio, lo studiano sulla base degli indicatori di natalità e di mortalità di imprese , utilizzando la banca dati Monvimprese, tenuto dalla Camera di Commercio di Milano. Modellizzano, poi, la capacità imprenditoriale per venti settori ed applicano la strumentazione ad osservazioni statistiche per il periodo 1981-2005 , un campione abbastanza vasto , nonché per una serie abbastanza lunga di anni, da fornire indicazioni credibili in termini di efficienza dei settori (e di “capitale imprenditoriale” ad essa connesso). Dal modello emerge la conferma secondo cui c’è stato una marcata riduzione nell’efficienza media a partire dal 2000. L’efficienza media è, però, elevata: sorprendentemente i settori dove è più alta sono quelli del commercio (tanto all’ingrosso quanto al dettaglio), alberghi e ristoranti ed attrezzature elettriche ed ottiche. La spiegazione è che questi sarebbero anche i campi dove meglio è stata recepita la trasformazione tecnologica derivante dalle nuove tecnologie della comunicazione e dell’innovazione. La conclusione è che l’Italia non manca di “capitale imprenditoriale”: “occorre -conclude lo studio- promuovere un contesto che sia il più appropriato possibile allo sviluppo di tale capitale imprenditoriale e , dunque, dare la priorità ad iniziative rivolte a facilitare la nascita di imprese e rimuovere ostacoli burocratici”. Perché l’Italia riprenda a crescere, perciò, Pantalone deve fare diversi passi indietro. Ma Prodi, TPS e VVV (Viceministro Vincenzo Visco) fanno di tutto per farlo avanzare in modo tentacolare.
RiferimentiBrasili A. e Federico L. Recent developments in productivity and the role of entrepreneurship in Italy –An Industry View in corso di pubblicazione su La Rivista di Politica Economica
De Nardis S. (2007) Ristrutturazione industriale italiana nei primi anni duemila: occupazione, specializzazione, imprese” Relazione per l’incontro Trasformazione dell’Industria Italia,Isae.
Le previsioni del Fmi e dell’Ocse sono state presentate alcune settimane fa; quelle della Commissione Europea venerdì 9 novembre. I dettagli sono scaricabili dai siti web delle tra istituzioni. Tutte e tre hanno un tema di fondo: l’economia dell’area dell’euro sta subendo una fase di rallentamento (una crescita del pil del 2,6% nel 2007 e del 2,2% nel 2008 e nel 2009), ma l’Italia ne è il fanalino di coda (una crescita del pil dell’1,9% nel 2007, dell’1,4% nel 2008 e dell’1,6% nel 2009) con il risultato, tra l’altro, che il rapporto indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e pil resterà al 2,3 nei tre anni della previsione e, di conseguenza, non si azzererà nel 2010 (come sostiene imperturbabile il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Tommaso Padoa-Schioppa).
Chi pensasse che dietro i calcoli di Commissione Europea, Fmi e Ocse ci siano quegli “gnomi di Zurigo” che secondo il Presidente Usa dell’epoca (Richard Nixon) ce la hanno contro questo e contro quello (ed ora se la sarebbero presa con il Professore e la sua variegata comitiva) , dia un’occhiata alle stime del consensus (20 istituti econometrici privati internazionali) diramate (a chi vi è abbonato) il 7 novembre: sono analoghe a quelle degli organismi internazionali (anzi ancora meno ottimistiche per l’Italia di cui evidenziano un marcato rallentamento rispetto alle stime diffuse dal “consensus” all’inizio di ottobre?
E’ colpa del “destino cinico e baro”, per evocare un’espressione degli Anni '60 o più semplicemente del malgoverno che caratterizza il Paese? L’aumento della spesa e del carico fiscale con la finanziaria del 2006 sul 2007 avrà un effetto frenante (dicono i modelli econometrici) per almeno tre anni, le lenzuolate “Bersani” avvolgono la morte delle liberalizzazioni, la privatizzazione Alitalia è ormai una pochade degna di quelle che Sacha Guitry metteva in scena nei palconoscenici boulevardiers parigini degli Anni 30, di privatizzazioni Rai e Poste non si parla più, si crea un nuovo Iri attorno alla Cassa Depositi e Prestiti, viene azzerata la riforma previdenziale che porta il nome del Sen Lamberto Dini: questi non sono che alcuni aspetti di una politica che non soltanto non promuove la crescita ma non governa neanche quel declino di cui, in varia misura, soffrono vari Paesi dell’Ue a ragione dell’integrazione economica internazionale e delle implicazioni che essa comporta per chi non riesce a riconvertire la propria economia verso attività ad alto valore aggiunto. L’Occidentale commenta con frequenza i singoli aspetti della politica economica della sinistra di malgoverno, sottolineandone principalmente le dimensioni macro-economiche.
Le ultime stime tanto di istituzioni internazionali quanto di centri privati di analisi econometrica inducono a mettere l’accento su elemento distintivo (se ci raffrontiamo con il resto dell’area dell’euro): il marcato rallentamento dalla produttività del lavoro. Secondo i dati Eurostat e Bce (anche essi scaricabili dai siti delle rispettive organizzazioni), nel 2001-2005, nell’area dell’euro, la produttività del lavoro è aumentata appena dello 0,5% l’anno (rispetto all’1,7% l’anno negli Usa) ma in Italia è diminuita dello 0,8% l’anno. Non molto meglio nei cinque anni precedenti: un incremento del 2,1% l’anno negli Usa, dell’1,2% nell’unione monetaria europea e dello 0,9% in Italia. Nel nostro Paese c’è stata una leggera ripresa nel 2006 (un aumento dello 0,5%), inferiore però alla media di Eurolandia (1,2%) e dell’aumento negli Usa (1,4%), pur in fase di rallentamento.
Gran parte degli studi sino ad ora condotti attribuiscono tale scoraggiante andamento alla specializzazione produttiva italiana (in settori a bassa tecnologia), alla modesta dimensione delle imprese, alla mancanza di adeguati investimenti in ricerca e sviluppo. Tutte determinanti che lasciano poco spazio alla speranza. Un’analisi empirica dell’Isae (il pensatoio economico del Ministero dell’Economia e delle Finanze), guidata da Sergio De Nardis, contiene, però, interessanti segnali positivi: sotto la superficie, ci sono situazioni aziendali molto differenti poiché molte imprese hanno condotto, dalla metà degli Anni 90, profonde ristrutturazioni di cui si cominciano già, in alcuni casi, a vedere i frutti. Tali segnali positivi possono essere messi in relazione con misure adottate nella precedente legislatura (dalle legge Biagi, alla normativa per facilitare l’aumento delle dimensioni di impresa, all’inizio della strategia di riduzione del peso fiscale) ma adesso sulla via dell’abrogazione o della sterilizzazione.
Ancora più positivo uno studio (anch’esso empirico) condotto, con metodo econometrico innovativo, in seno al servizio strategie e studi di UniCredito ed in corso di pubblicazione sulla “Rivista di Politica Economica”. I due ricercatori, Andrea Brasili e Loredana Federico, esaminano la distribuzione settoriale del “capitale imprenditoriale” (ossia la capacità di cogliere le opportunità, scegliere le tecniche di produzione e porsi alla frontiera delle tecnologia). In un primo approccio, lo studiano sulla base degli indicatori di natalità e di mortalità di imprese , utilizzando la banca dati Monvimprese, tenuto dalla Camera di Commercio di Milano. Modellizzano, poi, la capacità imprenditoriale per venti settori ed applicano la strumentazione ad osservazioni statistiche per il periodo 1981-2005 , un campione abbastanza vasto , nonché per una serie abbastanza lunga di anni, da fornire indicazioni credibili in termini di efficienza dei settori (e di “capitale imprenditoriale” ad essa connesso). Dal modello emerge la conferma secondo cui c’è stato una marcata riduzione nell’efficienza media a partire dal 2000. L’efficienza media è, però, elevata: sorprendentemente i settori dove è più alta sono quelli del commercio (tanto all’ingrosso quanto al dettaglio), alberghi e ristoranti ed attrezzature elettriche ed ottiche. La spiegazione è che questi sarebbero anche i campi dove meglio è stata recepita la trasformazione tecnologica derivante dalle nuove tecnologie della comunicazione e dell’innovazione. La conclusione è che l’Italia non manca di “capitale imprenditoriale”: “occorre -conclude lo studio- promuovere un contesto che sia il più appropriato possibile allo sviluppo di tale capitale imprenditoriale e , dunque, dare la priorità ad iniziative rivolte a facilitare la nascita di imprese e rimuovere ostacoli burocratici”. Perché l’Italia riprenda a crescere, perciò, Pantalone deve fare diversi passi indietro. Ma Prodi, TPS e VVV (Viceministro Vincenzo Visco) fanno di tutto per farlo avanzare in modo tentacolare.
RiferimentiBrasili A. e Federico L. Recent developments in productivity and the role of entrepreneurship in Italy –An Industry View in corso di pubblicazione su La Rivista di Politica Economica
De Nardis S. (2007) Ristrutturazione industriale italiana nei primi anni duemila: occupazione, specializzazione, imprese” Relazione per l’incontro Trasformazione dell’Industria Italia,Isae.
MA LE BOLLE POSSONO ESSERE GOVERNATE
C’è troppa o troppo poca liquidità? Siamo alle prese, per utilizzare, il lessico tecnico con un “credit glut” oppure con un “credit crunch? E quale ruolo ha la finanza strutturata (in particolare) i derivati in queste due letture delle situazione della liquidità mondiale. E’ utile ricordare che analisi della Banca d’Italia (il “Temi di discussione” n 551) sottolineavano (non molto tempo addietro) come negli ultimi anni la liquidità a livello mondiale sia cresciuta ai tassi d’incremento più alti (il 20% l’anno nel 2003-2006) rilevati dal 1974-75. Ciò nonostante, la Federal Reserve ed, in misura molto maggiore, la Banca centrale europea, Bce, hanno effettuato forti iniezioni di liquidità tra agosto e settembre , mirate principalmente ad alleviare difficoltà di grandi banche e di arbitragisti molto esposti a ragione del crollo delle valorizzazioni dei Cdo (Collateralized debt obligations), uno strumento di finanza strutturata con una componente significativa di mutui edilizi inesigibile (in gergo mutui subprime).
In primo luogo, è importante sottolineare che le misure aggregate di liquidità, calcolate, principalmente dalle Banche centrali, a livello nazionale, nonché di unioni monetarie e mondiale, non tengono conto che, nella realtà effettiva, non esiste un unico mercato con una sola moneta che serva come unità di misura, di transazione e di riserva. L’offerta di liquidità nei vari mercati (spesso segmentati) ed il valore degli strumenti monetari in ciascuno di essi dipende dalla fiducia che si hanno nel loro funzionamento (moneta e titoli immobiliari in primo luogo). Lo riaffermano due analisi empiriche ancora inedite: una del “mercato nero dei capitali” condotta a Wayne State Università ed una del mercato di obbligazioni ibride convertibili in forme di assicurazione nei confronti di grandi rischi , in gergo “hybrid cat bonds”, effettuata dall’Istituto svizzero di ricerche in materia di finanza.
In secondo luogo, è in questo contesto che va collocato il contributo alla liquidità dato dalla finanza strutturata, la sua incidenza dei vari mercati ed il grado di fiducia (in ciascun mercato) per i derivati – un grado che varia tanto nel tempo quanto nello spazio. Una stima dei derivati in giro per il mondo effettuata dal servizio studi della Banca per i regolamenti internazionali ipotizzarne l’equivalente di 400.000 miliardi di dollari Usa , non certo un’inezia rispetto ai mercati finanziari specifici dove c’è appetito per finanza strutturata (anche se oggi meno forte di quanto era prima della crisi dei Cdo).
Interessante a riguardo un aspetto, approfondito con attenzione, in un lavoro dell’Università di Lipsia (il cui testo inglese è disponibile on line dal 3 novembre): la finanza strutturata è diventata, in certi casi, una determinante di “bolle di liquidità” che possono contribuire ad esuberanza irrazionale delle Borse, ad aumenti a tassi rapidissimi delle quotazioni delle materie prime, ad incrementi in progressione geometrica delle valorizzazioni dell’immobiliare. Lo studio traccia l’andamento dei mercati dalla metà degli Anni 80 (da quando il toro è corso su tutti i binari, da quelli mobiliari a quelli immobiliari, passando per le materie prime):l’ampia offerta di liquidità (alimentata in vario grado dalla finanza strutturata) ha avuto origine nel Nord America ed in Europa ma si è estesa al Giappone, all’Asia ed a molti Paesi emergenti, innescando un ciclo di tassi eccessivi di investimento (a volte a scapito della crescita dei consumi, nonché di salari e stipendi). Secondo l’analisi, il fenomeno sarebbe stato accentuato da politiche monetarie espansioniste (tassi d’interesse reali bassi e rapida crescita degli aggregati monetari) nella convinzione che l’inflazione (degli Anni ’70) fosse stata sconfitta per sempre. Il risultano è stato quello di generare “bolle vagabonde di liquidità” che colpiscono ora questa ora quella area finanziaria. E’ su queste “bolle” che si deve concentrare l’attenzione e di istituzioni (come il Fmi e la Bce) e di comitati di saggi come il G 30.
In primo luogo, è importante sottolineare che le misure aggregate di liquidità, calcolate, principalmente dalle Banche centrali, a livello nazionale, nonché di unioni monetarie e mondiale, non tengono conto che, nella realtà effettiva, non esiste un unico mercato con una sola moneta che serva come unità di misura, di transazione e di riserva. L’offerta di liquidità nei vari mercati (spesso segmentati) ed il valore degli strumenti monetari in ciascuno di essi dipende dalla fiducia che si hanno nel loro funzionamento (moneta e titoli immobiliari in primo luogo). Lo riaffermano due analisi empiriche ancora inedite: una del “mercato nero dei capitali” condotta a Wayne State Università ed una del mercato di obbligazioni ibride convertibili in forme di assicurazione nei confronti di grandi rischi , in gergo “hybrid cat bonds”, effettuata dall’Istituto svizzero di ricerche in materia di finanza.
In secondo luogo, è in questo contesto che va collocato il contributo alla liquidità dato dalla finanza strutturata, la sua incidenza dei vari mercati ed il grado di fiducia (in ciascun mercato) per i derivati – un grado che varia tanto nel tempo quanto nello spazio. Una stima dei derivati in giro per il mondo effettuata dal servizio studi della Banca per i regolamenti internazionali ipotizzarne l’equivalente di 400.000 miliardi di dollari Usa , non certo un’inezia rispetto ai mercati finanziari specifici dove c’è appetito per finanza strutturata (anche se oggi meno forte di quanto era prima della crisi dei Cdo).
Interessante a riguardo un aspetto, approfondito con attenzione, in un lavoro dell’Università di Lipsia (il cui testo inglese è disponibile on line dal 3 novembre): la finanza strutturata è diventata, in certi casi, una determinante di “bolle di liquidità” che possono contribuire ad esuberanza irrazionale delle Borse, ad aumenti a tassi rapidissimi delle quotazioni delle materie prime, ad incrementi in progressione geometrica delle valorizzazioni dell’immobiliare. Lo studio traccia l’andamento dei mercati dalla metà degli Anni 80 (da quando il toro è corso su tutti i binari, da quelli mobiliari a quelli immobiliari, passando per le materie prime):l’ampia offerta di liquidità (alimentata in vario grado dalla finanza strutturata) ha avuto origine nel Nord America ed in Europa ma si è estesa al Giappone, all’Asia ed a molti Paesi emergenti, innescando un ciclo di tassi eccessivi di investimento (a volte a scapito della crescita dei consumi, nonché di salari e stipendi). Secondo l’analisi, il fenomeno sarebbe stato accentuato da politiche monetarie espansioniste (tassi d’interesse reali bassi e rapida crescita degli aggregati monetari) nella convinzione che l’inflazione (degli Anni ’70) fosse stata sconfitta per sempre. Il risultano è stato quello di generare “bolle vagabonde di liquidità” che colpiscono ora questa ora quella area finanziaria. E’ su queste “bolle” che si deve concentrare l’attenzione e di istituzioni (come il Fmi e la Bce) e di comitati di saggi come il G 30.
LO SQUILIBRIO PUO’ ESSERE RIMESSO IN ORDINE
La crisi dei mutui ad alto rischio (in gergo subprime ) è solo il sintomo di nodo di fondo molto grave: gli Usa devono attirare 800 miliardi di dollari l’anno per finanziare le partite correnti della propria bilancia dei pagamenti. A tal fine è sorto un complicato mercato di derivati di cui i subprime (e i Collaterl debt obligations, Cdo in gergo) che hanno inondato le piazze mondiali sono soltanto un piccolo elemento. Lo sottolinea efficacemente un libro recente di Mario Baldassarri e Pasquale Capretta in cui si dimostra che se gli squilibri dell’economia mondiale non vengono corretti, l’Europa è condannata a crescita rasoterra nel medio e lungo periodo.
E’ anche errato affermare che le operazione spericolate siano frutto dei comportamenti delle famiglie americane . Un’analisi recente della Banca d’Italia prova il contrario: sulla base della US Consumer Expenditure Survey del Bureau of Labor Statistics, giunge alla conclusione che tendono ad investire in attività prive di rischio, anche se ciò comporta una rinuncia di rendimenti pari allo 0,7-3,3 della spesa complessiva delle famiglie in beni e servizi non durevoli. Le famiglie con maggior patrimonio (e reddito) sono le più caute: il valore di rinuncia (a rendimenti più elevati) è pari al 6,7% della loro spesa in beni e servizi non durevoli.
Ciò che ha fatto difetto è la capacità delle istituzioni di stare al passo con l’innovazione, di capirne i trabocchetti e di monitorarli. Tanto la Sec (la Consob locale) quanto il Comptroller of Currency (la direzione generale del Tesoro preposta a questi compiti) non hanno visto il temporale che stava per arrivare ed ancor peggio hanno facilitato l’esportazione della tempesta ai grulli del resto del mondo. E’ pure mancata la vigilanza (del mercato, oltre che della Sec) su quelle società di rating che solo quando i buoi erano scappati hanno abbassato il classamento (rating) di alcuni istituti. Un mercato “normale” richiede, in primo luogo, riportare il disavanzo dei conti con l’estero Usa a livelli fisiologici ed far sì che le istituzioni di regolazione, garanzia e vigilanza si mantengano al passo con i tempi.
Ciò vuole dire che il compito cade essenzialmente sulle spalle dello Zio Sam? Il sindacalista francese Marc Blondel, a lungo leader di Force Ouvrière , ha detto per anni che nell’età della globalizzazione i Governi sono diventati subappaltanti dei mercati. L’Italia – ammettiamolo – è tra i più piccoli dei subappaltanti (nell’ambito dei Paesi industriali ad economia di mercato). Tuttavia, ci sono lezioni da apprendere e misure da adottare: le informazioni dalle varie authority sull’eventuale contagio (e sulla composizione dei portafogli dei principali operatori) dovrebbero essere disponibili in tempo reale, premendo il tasto di un computer; richieste verso il 10 agosto dal Governo, sono arrivate un mese dopo, alla sessione del Comitato interministeriale del credito e del risparmio (Cicr) di metà settembre. L’architettura della regolazione e della vigilanza dovrebbe essere meno barocca (la maggioranza dei Paesi dello spazio economico europeo ha una sola authority per tutti i servizi finanziari, ormai integrati) e le procedure meno rococò. Si dovrebbe essere in grado di bloccare sul nascere la circolazione di derivati opachi.
Oltre questi passi, essenziali per mettere ordine a casa propria, il ruolo (non secondario) dell’Italia in ambito Ue, G8 e G20 (quello che include anche i maggiori Paesi in via di sviluppo) potrebbe contribuire a trovare regole comuni per frenare le disfunzioni più gravi, specialmente se meno apparenti (come quelle in materia di vischiosità degli arbitraggi). Occorre, invece, valutare con grande prudenza (ed un pizzico di scetticismo) le proposte che stanno emergendo da consulenti dei Governi di Berlino e Parigi (e pare anche di Roma) volte a nazionalizzare le società di rating od a creare agenzie pubbliche nazionali e sopranazionali di rating. Il mercato premia e punisce meglio delle burocrazie e dei politici. Ha tanti difetti ma non si è ancora trovato uno strumento che imponga una migliore disciplina.
Per saperne di più
Ahrend R, Catte P. , Price R. Interactions between Monetary and Fiscal Policy: How Monetary Conditions Affect Fiscal Consolidation” OECD Economics Working Paper No. 2006/49
Baldassari M., Capretta P. The World Economy towards Global Disequilibrium Palgrave Mcmillan, New York 2007
Paiella M. “The Foregone Gains of Incomplete Portfolio” Banca d’Italia Temi di discussione n. 625,
Walker Ch., Punzi M.T.“Financing of Global Imbalances" IMF Working Paper No. 07/177
E’ anche errato affermare che le operazione spericolate siano frutto dei comportamenti delle famiglie americane . Un’analisi recente della Banca d’Italia prova il contrario: sulla base della US Consumer Expenditure Survey del Bureau of Labor Statistics, giunge alla conclusione che tendono ad investire in attività prive di rischio, anche se ciò comporta una rinuncia di rendimenti pari allo 0,7-3,3 della spesa complessiva delle famiglie in beni e servizi non durevoli. Le famiglie con maggior patrimonio (e reddito) sono le più caute: il valore di rinuncia (a rendimenti più elevati) è pari al 6,7% della loro spesa in beni e servizi non durevoli.
Ciò che ha fatto difetto è la capacità delle istituzioni di stare al passo con l’innovazione, di capirne i trabocchetti e di monitorarli. Tanto la Sec (la Consob locale) quanto il Comptroller of Currency (la direzione generale del Tesoro preposta a questi compiti) non hanno visto il temporale che stava per arrivare ed ancor peggio hanno facilitato l’esportazione della tempesta ai grulli del resto del mondo. E’ pure mancata la vigilanza (del mercato, oltre che della Sec) su quelle società di rating che solo quando i buoi erano scappati hanno abbassato il classamento (rating) di alcuni istituti. Un mercato “normale” richiede, in primo luogo, riportare il disavanzo dei conti con l’estero Usa a livelli fisiologici ed far sì che le istituzioni di regolazione, garanzia e vigilanza si mantengano al passo con i tempi.
Ciò vuole dire che il compito cade essenzialmente sulle spalle dello Zio Sam? Il sindacalista francese Marc Blondel, a lungo leader di Force Ouvrière , ha detto per anni che nell’età della globalizzazione i Governi sono diventati subappaltanti dei mercati. L’Italia – ammettiamolo – è tra i più piccoli dei subappaltanti (nell’ambito dei Paesi industriali ad economia di mercato). Tuttavia, ci sono lezioni da apprendere e misure da adottare: le informazioni dalle varie authority sull’eventuale contagio (e sulla composizione dei portafogli dei principali operatori) dovrebbero essere disponibili in tempo reale, premendo il tasto di un computer; richieste verso il 10 agosto dal Governo, sono arrivate un mese dopo, alla sessione del Comitato interministeriale del credito e del risparmio (Cicr) di metà settembre. L’architettura della regolazione e della vigilanza dovrebbe essere meno barocca (la maggioranza dei Paesi dello spazio economico europeo ha una sola authority per tutti i servizi finanziari, ormai integrati) e le procedure meno rococò. Si dovrebbe essere in grado di bloccare sul nascere la circolazione di derivati opachi.
Oltre questi passi, essenziali per mettere ordine a casa propria, il ruolo (non secondario) dell’Italia in ambito Ue, G8 e G20 (quello che include anche i maggiori Paesi in via di sviluppo) potrebbe contribuire a trovare regole comuni per frenare le disfunzioni più gravi, specialmente se meno apparenti (come quelle in materia di vischiosità degli arbitraggi). Occorre, invece, valutare con grande prudenza (ed un pizzico di scetticismo) le proposte che stanno emergendo da consulenti dei Governi di Berlino e Parigi (e pare anche di Roma) volte a nazionalizzare le società di rating od a creare agenzie pubbliche nazionali e sopranazionali di rating. Il mercato premia e punisce meglio delle burocrazie e dei politici. Ha tanti difetti ma non si è ancora trovato uno strumento che imponga una migliore disciplina.
Per saperne di più
Ahrend R, Catte P. , Price R. Interactions between Monetary and Fiscal Policy: How Monetary Conditions Affect Fiscal Consolidation” OECD Economics Working Paper No. 2006/49
Baldassari M., Capretta P. The World Economy towards Global Disequilibrium Palgrave Mcmillan, New York 2007
Paiella M. “The Foregone Gains of Incomplete Portfolio” Banca d’Italia Temi di discussione n. 625,
Walker Ch., Punzi M.T.“Financing of Global Imbalances" IMF Working Paper No. 07/177
LA FAMIGLIA CHE FAREBBE CRESCERE L’ITALIA
La radiografia della famiglia italiana , effettuata con particolare cura ogni anno in una sezione del Rapporto dell’Istat su “La situazione generale del Paese”, indica, se esaminata congiuntamente ad altre ricerche, che stiamo viaggiando verso una società di centenari, gran parte dei quali sarà in famiglie composte di una sola persona e senza una rete attiva di rapporti di solidarietà tra consanguinei e congiunti. Una società di questa natura può essere, nell’ipotesi più ottimistica, a crescita zero; nell’ipotesi più probabile in un declino irreversibile con perdita progressiva di produttività e competitività nei confronti di aree e Paesi a struttura demografica più giovane.
Tali stime e proiezioni si ricavano coniugando l’analisi Istat con i risultati di altri ricerche rivolte, invece, al futuro a medio e lungo termine della famiglia e della società italiana. Ad esempio, lo studio di Albert Ando (Mit) e di Sergio Nicoletti Altimari (Bce) su “A micro-simulation model of demographic development and households’ economic behaviuor in Italy” (“Un modello di micro-simulazione dello sviluppo demografico e del comportamento economico delle famiglie in Italia), pubblicato dalla Banca d’Italia, traccia una contrazione della popolazione italiana da 55 milioni (2005) a 25 milioni (fine secolo) se non si tornerà ad una struttura “tradizionale di famiglia” ed ad un aumento del tasso di fertilità. Inoltre, il Premio Nobel Robert W. Fogel della Università di Chicago ha diramato, nella collana del National Bureau of Economic Research (è il working paper n. 11233) un quadro per alcuni aspetti sempre più roseo (vivremo sempre più a lungo) ma per altri sempre più fosco (senza la rete della “famiglia tradizionale” saremo sempre più soli): “Changes in the physiology of aging during the 20th century” (“Cambiamenti nella fisiologia dell’invecchiamento nel 20simo secolo”). Guarda principalmente agli Stati Uniti ed analizza, con un interessante metodo statistico, il processo d’invecchiamento a partire dalla generazione nata tra il 1835 ed il 1845. La conclusione più rilevante è che coloro nati tra il 1980 ed il 1990 hanno un tasso di probabilità del 50% di vivere più di 100 anni. A fine aprile, Alicia Adsera dell’Università dell’Illinois ha pubblicato , nei “dicussion papers” dell’Iza, l’Istituto tedesco per gli studi del lavoro (il “discussion paper” n. 1576 ) un’analisi comparata relativa specificatamente ai 15 Paesi dell’Unione Europea (prima, quindi, dell’allargamento) : “Where are the babies? Labor market conditions and fertility in Europe” (“Dove sono i bambini? Condizioni del mercato del lavoro e fertilità in Europa”). Il lavoro si basa sulle indagini sulle famiglie condotte, o coordinate, dalla Commissione Europea tra il 1994 ed il 2000: il verdetto è che senza un cambiamento delle condizioni del mercato del lavoro (incoraggiamento del tempo parziale ed accesso privilegiato per donne all’impiego nella pubblica amministrazione), le difficoltà a formare una famiglia e l’invecchiamento renderanno l’Europa il Continente vecchio. Con l’allargamento dell’Ue a 27 la situazione non è cambiata; per alcuni aspetti si è aggravata in quanto, a ragione delle politiche (non favorevoli alla famiglia) negli anni del “socialismo reali” evidenziano un problema di invecchiamento anche maggiore di quello dell’Ue a 15 Stati membri.
In questo contesto, le analisi Istat assumono una valenza molto significativa Vediamone alcuni tratti salienti:
· Prosegue il “processo di semplificazione” della famiglia: diminuiscono le famiglie a due o più generazioni (dal 58,8% nel 1993-94 al 53,2% nel 2003); aumentano le famiglie con una sola generazioni (dal 41,3% al 46,8%) e le famiglie composte di una persona sola (dal 21,1% al 25,8%) mentre si contraggono le famiglie composte di coppie con figli (dal 40% al 41,9%). Le persone che vivono in coppia condividono una parte più lunga della loro avventura umana: gli anziani tra i 74 e gli 85 anni che vivono ancora in coppia passano dal 40,4% al 48%.
· Avanzano rapidamente le “nuove” tipologie familiari (single non vedovi, monogenitori non vedovi, unioni libere e famiglie ricostituite): sono ormai 5 milioni di famiglie (il 23% del totale nel 2033 con un aumento di cinque punti percentuali rispetto a dieci anni prima). Rapidissima l’ascesa dei single non vedovi: 3 milioni in maggioranza (53,4%) di genere maschile con un’età media di 46 anni, mentre quella delle donne è di 52 anni. In crescita anche le coppie non coniugate: da 227 mila nel 1993-94 a 555 mila nel 2003 (di cui la metà circa costituita da celibi e da nubili). Diminuisce inoltre (dal 41,6% al 32,2%) il numero dello coppie che vede la convivenza come uno stadio che porterà al matrimonio: aumenta (dal 18,4% al 25,1%) , invece, quello che non contempla nessuna prospettiva matrimoniale.
· In crescita anche la proporzione dei giovani tra i 25 ed i 34 che vivono in famiglia (dal 25,8% di dieci anni fa al 34,9% di oggi) ; superano la percentuale dei loro coetanei che vivono in coppia con figli (appena il 27,9%). In aumento, i giovani che attribuiscono la coabitazione con i genitori a ragioni di ordine economico (difficoltà di trovare un lavoro stabile, di ottenere un’abitazione in fitto od in acquisto) oppure di non rinunciare ai vantaggi (materiali ed immateriali) di “stare in famiglia”.
· Le giovani coppie tendono a vivere “sottocasa” (di quella dei genitori). Circa la metà delle giovani coppie senza figlia (in cui la donna ha un’età tra i 25 ed i 34 anni) e di quelli con figli piccoli (in cui la donna ha tra i 35 ed i 44 anni) vivono entro un chilometro dalla madre di lui o di lei; meno di un quarto risiede in altro comune. I contatti con la madre (di lui o di lei) sono comunque assidui: nella metà dei casi si incontrano tutti i giorni e più del 25% delle altre si frequenta almeno una volta la settimana. Un ruolo fondamentale nella cura dei bambini è svolto dai nonni non coabitanti ai quali viene affidato, nel 2003, il 35,7% dei bambini con meno di 13 anni. I bambini che vanno al nido sono ancora solo il 15,4% di quelli con meno di 2 anni; il 70% sono figli di madri che lavorano. In questo peraltro ristretto ambito, cresce la quota presso nidi privati (43,4% del totale) con una spesa media di 273 euro al mese, rispetto ai 145 euro al mese delle strutture pubbliche.
· Mutamenti importanti stanno interessando le reti di parentela, soggette anche esse a progressivo invecchiamento: la rete familiare si dimezza per i nuclei monogenitori non vedovi (il numero medio di parenti consanguinei è appena 5,5 individui contro i 9,9 delle coppie con figli piccoli). Gli anziani celibi e nubili possono contare in media su 2 parenti, per lo più fratelli e sorelle ancora in vita; il 56,7% dichiara di non avere amici ed il 48,7% di non avere neppure vicini su cui fare affidamento. Le persone che si attivano in reti di aiuto gratuito di solidarietà aumenta soprattutto tra coloro tra i 65 ed i 74 anni.
Da questo quadro due conclusioni, ancora una volta, coniugandolo con altri studi: a) un’analisi comparata di Robert Fogel (working paper N. W10752 del National Bureau of Economic Research) documenta che i Paesi e le aree geografiche ad alta crescita sono quelle a popolazione giovane ed a struttura familiare forte; b) Erick Eschker della Università Humbolt, in uno studio di contabilità intergenerazionale appena pubblicato nella rivista “Public Management and Finance”, vede, in una società che invecchia, inarrestabile l’erosione del tasso di risparmio delle famiglie e, quindi, degli investimenti e dello sviluppo. Proprio come nello studio di Albert Ando e di Sergio Nicoletti Altimari.
Un’ultima analisi (ancora inedita in Europa) suggerisce che senza una politica centrata sulla famiglia (e mirata ad una modificata della struttura demografica dell’Italia) il Paese resterà bloccato. E’ il lavoro curato da una squadra di docenti della School of Public Health della Università di Harvard : lo studio Does Age Structure Forecast Economic Growth?" (La struttura per età consente di prevedere la crescita economica) in uscita come NBER Working Paper No. W13221. In attesa della pubblicazione in Europa, se ne può chiedere il testo al Prof. David Bloom dbloom@hsph.harvard.edu .Sulle rive del fiume Charles, dove ha sede l’Università di Harvard, si è distinti e distanti dalle nostro beghe di politica interna; lo studio esamina un campione di 90 Paesi in un arco di tempo che va dal 1960 al 2000 per effettuare proiezioni sino al 2020. Nella prima parte, vengono derivati parametri demografici risultanti da politiche dirette ad incoraggiare o meno la famiglia al fine di potere calibrare meglio la modellistica econometrica per essere in grado di programmare una struttura demografica in cui la proporzione della popolazione in età da lavoro fornisca “dividendi demografici” significativi in termini di produttività e di produzione. E’ banale ricordare che i giovani, specialmente se ben addestrati e motivati, sono, generalmente, più produttivi e più innovatori degli anziani.
Nella seconda parte, i parametri vengono applicati all’esperienza effettiva nel periodo 1980-2000 per studiare in che misura migliorano la qualità predittiva dei modelli di crescita normalmente utilizzati. Tenendo conto delle politiche per la famiglia del passato (tali politiche hanno un lungo periodo di gestazione per dare frutti) non solamente si riduce lo scarto tra previsioni e andamenti effettivi. I Paesi che plasmano le politiche economiche sulla centralità della famiglia - nell’Ue il caso più significativo è quello della Francia – grazie al “dividendo demografico” sono anche quelli a crescita di lungo periodo più sostenuta. La terza parte presenta previsioni di crescita economica (e demografica) sino al 2020. Per l’Italia, ove non vengano introdotte politiche per la famiglia tali da modificare la struttura per età della popolazione (aumentando la proporzione di quella in età lavoro), la crescita massima prevista dal modello dal 2000 al 2020 è un pallido 1,8% l’anno. A tale ritmo si allontana l’obiettivo di risanamento dei conti pubblici.
Il primo Governo Prodi ridusse drasticamente, nel 1996-97, i modesti apporti di politica della famiglia allora in vigore (gli assegni familiari) per finanziare le pensioni di anzianità. Nella scorsa finanziaria il nuovo Governo Prodi ha ripristinato quella che nel resto del mondo (dove è stata in gran parte soppressa) viene chiamata “la tassa sulla morte” dei genitori. Due misure quindi “anti-famiglia”. Non certo compensate dalle briciole “pro-famiglia” inserite nella finanziaria ora all’attenzione del Parlamento.
Tali stime e proiezioni si ricavano coniugando l’analisi Istat con i risultati di altri ricerche rivolte, invece, al futuro a medio e lungo termine della famiglia e della società italiana. Ad esempio, lo studio di Albert Ando (Mit) e di Sergio Nicoletti Altimari (Bce) su “A micro-simulation model of demographic development and households’ economic behaviuor in Italy” (“Un modello di micro-simulazione dello sviluppo demografico e del comportamento economico delle famiglie in Italia), pubblicato dalla Banca d’Italia, traccia una contrazione della popolazione italiana da 55 milioni (2005) a 25 milioni (fine secolo) se non si tornerà ad una struttura “tradizionale di famiglia” ed ad un aumento del tasso di fertilità. Inoltre, il Premio Nobel Robert W. Fogel della Università di Chicago ha diramato, nella collana del National Bureau of Economic Research (è il working paper n. 11233) un quadro per alcuni aspetti sempre più roseo (vivremo sempre più a lungo) ma per altri sempre più fosco (senza la rete della “famiglia tradizionale” saremo sempre più soli): “Changes in the physiology of aging during the 20th century” (“Cambiamenti nella fisiologia dell’invecchiamento nel 20simo secolo”). Guarda principalmente agli Stati Uniti ed analizza, con un interessante metodo statistico, il processo d’invecchiamento a partire dalla generazione nata tra il 1835 ed il 1845. La conclusione più rilevante è che coloro nati tra il 1980 ed il 1990 hanno un tasso di probabilità del 50% di vivere più di 100 anni. A fine aprile, Alicia Adsera dell’Università dell’Illinois ha pubblicato , nei “dicussion papers” dell’Iza, l’Istituto tedesco per gli studi del lavoro (il “discussion paper” n. 1576 ) un’analisi comparata relativa specificatamente ai 15 Paesi dell’Unione Europea (prima, quindi, dell’allargamento) : “Where are the babies? Labor market conditions and fertility in Europe” (“Dove sono i bambini? Condizioni del mercato del lavoro e fertilità in Europa”). Il lavoro si basa sulle indagini sulle famiglie condotte, o coordinate, dalla Commissione Europea tra il 1994 ed il 2000: il verdetto è che senza un cambiamento delle condizioni del mercato del lavoro (incoraggiamento del tempo parziale ed accesso privilegiato per donne all’impiego nella pubblica amministrazione), le difficoltà a formare una famiglia e l’invecchiamento renderanno l’Europa il Continente vecchio. Con l’allargamento dell’Ue a 27 la situazione non è cambiata; per alcuni aspetti si è aggravata in quanto, a ragione delle politiche (non favorevoli alla famiglia) negli anni del “socialismo reali” evidenziano un problema di invecchiamento anche maggiore di quello dell’Ue a 15 Stati membri.
In questo contesto, le analisi Istat assumono una valenza molto significativa Vediamone alcuni tratti salienti:
· Prosegue il “processo di semplificazione” della famiglia: diminuiscono le famiglie a due o più generazioni (dal 58,8% nel 1993-94 al 53,2% nel 2003); aumentano le famiglie con una sola generazioni (dal 41,3% al 46,8%) e le famiglie composte di una persona sola (dal 21,1% al 25,8%) mentre si contraggono le famiglie composte di coppie con figli (dal 40% al 41,9%). Le persone che vivono in coppia condividono una parte più lunga della loro avventura umana: gli anziani tra i 74 e gli 85 anni che vivono ancora in coppia passano dal 40,4% al 48%.
· Avanzano rapidamente le “nuove” tipologie familiari (single non vedovi, monogenitori non vedovi, unioni libere e famiglie ricostituite): sono ormai 5 milioni di famiglie (il 23% del totale nel 2033 con un aumento di cinque punti percentuali rispetto a dieci anni prima). Rapidissima l’ascesa dei single non vedovi: 3 milioni in maggioranza (53,4%) di genere maschile con un’età media di 46 anni, mentre quella delle donne è di 52 anni. In crescita anche le coppie non coniugate: da 227 mila nel 1993-94 a 555 mila nel 2003 (di cui la metà circa costituita da celibi e da nubili). Diminuisce inoltre (dal 41,6% al 32,2%) il numero dello coppie che vede la convivenza come uno stadio che porterà al matrimonio: aumenta (dal 18,4% al 25,1%) , invece, quello che non contempla nessuna prospettiva matrimoniale.
· In crescita anche la proporzione dei giovani tra i 25 ed i 34 che vivono in famiglia (dal 25,8% di dieci anni fa al 34,9% di oggi) ; superano la percentuale dei loro coetanei che vivono in coppia con figli (appena il 27,9%). In aumento, i giovani che attribuiscono la coabitazione con i genitori a ragioni di ordine economico (difficoltà di trovare un lavoro stabile, di ottenere un’abitazione in fitto od in acquisto) oppure di non rinunciare ai vantaggi (materiali ed immateriali) di “stare in famiglia”.
· Le giovani coppie tendono a vivere “sottocasa” (di quella dei genitori). Circa la metà delle giovani coppie senza figlia (in cui la donna ha un’età tra i 25 ed i 34 anni) e di quelli con figli piccoli (in cui la donna ha tra i 35 ed i 44 anni) vivono entro un chilometro dalla madre di lui o di lei; meno di un quarto risiede in altro comune. I contatti con la madre (di lui o di lei) sono comunque assidui: nella metà dei casi si incontrano tutti i giorni e più del 25% delle altre si frequenta almeno una volta la settimana. Un ruolo fondamentale nella cura dei bambini è svolto dai nonni non coabitanti ai quali viene affidato, nel 2003, il 35,7% dei bambini con meno di 13 anni. I bambini che vanno al nido sono ancora solo il 15,4% di quelli con meno di 2 anni; il 70% sono figli di madri che lavorano. In questo peraltro ristretto ambito, cresce la quota presso nidi privati (43,4% del totale) con una spesa media di 273 euro al mese, rispetto ai 145 euro al mese delle strutture pubbliche.
· Mutamenti importanti stanno interessando le reti di parentela, soggette anche esse a progressivo invecchiamento: la rete familiare si dimezza per i nuclei monogenitori non vedovi (il numero medio di parenti consanguinei è appena 5,5 individui contro i 9,9 delle coppie con figli piccoli). Gli anziani celibi e nubili possono contare in media su 2 parenti, per lo più fratelli e sorelle ancora in vita; il 56,7% dichiara di non avere amici ed il 48,7% di non avere neppure vicini su cui fare affidamento. Le persone che si attivano in reti di aiuto gratuito di solidarietà aumenta soprattutto tra coloro tra i 65 ed i 74 anni.
Da questo quadro due conclusioni, ancora una volta, coniugandolo con altri studi: a) un’analisi comparata di Robert Fogel (working paper N. W10752 del National Bureau of Economic Research) documenta che i Paesi e le aree geografiche ad alta crescita sono quelle a popolazione giovane ed a struttura familiare forte; b) Erick Eschker della Università Humbolt, in uno studio di contabilità intergenerazionale appena pubblicato nella rivista “Public Management and Finance”, vede, in una società che invecchia, inarrestabile l’erosione del tasso di risparmio delle famiglie e, quindi, degli investimenti e dello sviluppo. Proprio come nello studio di Albert Ando e di Sergio Nicoletti Altimari.
Un’ultima analisi (ancora inedita in Europa) suggerisce che senza una politica centrata sulla famiglia (e mirata ad una modificata della struttura demografica dell’Italia) il Paese resterà bloccato. E’ il lavoro curato da una squadra di docenti della School of Public Health della Università di Harvard : lo studio Does Age Structure Forecast Economic Growth?" (La struttura per età consente di prevedere la crescita economica) in uscita come NBER Working Paper No. W13221. In attesa della pubblicazione in Europa, se ne può chiedere il testo al Prof. David Bloom dbloom@hsph.harvard.edu .Sulle rive del fiume Charles, dove ha sede l’Università di Harvard, si è distinti e distanti dalle nostro beghe di politica interna; lo studio esamina un campione di 90 Paesi in un arco di tempo che va dal 1960 al 2000 per effettuare proiezioni sino al 2020. Nella prima parte, vengono derivati parametri demografici risultanti da politiche dirette ad incoraggiare o meno la famiglia al fine di potere calibrare meglio la modellistica econometrica per essere in grado di programmare una struttura demografica in cui la proporzione della popolazione in età da lavoro fornisca “dividendi demografici” significativi in termini di produttività e di produzione. E’ banale ricordare che i giovani, specialmente se ben addestrati e motivati, sono, generalmente, più produttivi e più innovatori degli anziani.
Nella seconda parte, i parametri vengono applicati all’esperienza effettiva nel periodo 1980-2000 per studiare in che misura migliorano la qualità predittiva dei modelli di crescita normalmente utilizzati. Tenendo conto delle politiche per la famiglia del passato (tali politiche hanno un lungo periodo di gestazione per dare frutti) non solamente si riduce lo scarto tra previsioni e andamenti effettivi. I Paesi che plasmano le politiche economiche sulla centralità della famiglia - nell’Ue il caso più significativo è quello della Francia – grazie al “dividendo demografico” sono anche quelli a crescita di lungo periodo più sostenuta. La terza parte presenta previsioni di crescita economica (e demografica) sino al 2020. Per l’Italia, ove non vengano introdotte politiche per la famiglia tali da modificare la struttura per età della popolazione (aumentando la proporzione di quella in età lavoro), la crescita massima prevista dal modello dal 2000 al 2020 è un pallido 1,8% l’anno. A tale ritmo si allontana l’obiettivo di risanamento dei conti pubblici.
Il primo Governo Prodi ridusse drasticamente, nel 1996-97, i modesti apporti di politica della famiglia allora in vigore (gli assegni familiari) per finanziare le pensioni di anzianità. Nella scorsa finanziaria il nuovo Governo Prodi ha ripristinato quella che nel resto del mondo (dove è stata in gran parte soppressa) viene chiamata “la tassa sulla morte” dei genitori. Due misure quindi “anti-famiglia”. Non certo compensate dalle briciole “pro-famiglia” inserite nella finanziaria ora all’attenzione del Parlamento.
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