The Post: il caso dei Pentagon
Papers, la libertà di stampa e la guerra in Vietnam
di Giuseppe Pennisi, in Film, Media, Quotidiano, Recensioni, del 5 Feb 2018, 18:38
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Questa non è
una recensione del film di Steven Spielberg The Post, da qualche giorno
nelle sale. È una riflessione di una persona che ha vissuto a Washington dal
1967 al 1982 (ci è andata spesso sino al 2015) e che per molti aspetti aveva un
punto di vista privilegiato: italiano, sposato con una francese (incontrata
nella capitale americana), lavorava e faceva carriera in Banca Mondiale ma a
differenza di molti colleghi non cittadini degli Stati Uniti, aveva studiato
per due anni in un’istituzione americana che essenzialmente formava al servizio
pubblico internazionale. Quindi, mentre miei colleghi di Banca Mondiale
passavano una parte significativa dei loro tempo libero con i loro connazionali
e con altri funzionari internazionali, avevo la fortuna di avere studiato a
Washington e di avere quindi amicizie che prescindevano dal mio luogo di lavoro
e che operavano prevalentemente nei vari rami della pubblica amministrazione
federale, nei media, nelle università e via discorrendo. Il fatto stesso che a
casa non parlassi italiano ma francese faceva sì che non entrassi mai a pieno
nella piccola colonia italiana di stanza nella capitale degli Stati Uniti.
Scrivevo – con uno pseudonimo – per Il Sole 24 Ore; ciò mi portava ad
avere una forte attenzione per gli avvenimenti interni americani (più di quanto
non facessero altri ‘stranieri’ in servizio a Washington).
Negli anni
in cui si volge il film, il mio lavoro in Banca Mondiale mi portava a lunghi
soggiorni in Estremo Oriente in Paesi dove la guerra in Viet-Nam era molto
sentita. Inoltre, uno dei miei amici più stretti in quegli anni era Phil
McCombs, grande firma del Washington Post, per due volte corrispondente
dal Viet-Nam, preso prigioniero dai Viet-Cong, scappato dal carcere, e rimasto
sino alla caduta di Saigon il 15 aprile 1975; quindi, ci vedevamo sovente a
pranzo e frequentavo la redazione. Infine, ho avuto modo di interagire
direttamente con Robert McNamara, allora Presidente della Banca Mondiale,
precedentemente Segretario alla Difesa ed uno dei protagonisti di The Post.
Il film non
è un thriller politico giornalistico, ma il dramma di un editore,
Katharine Graham, e di un direttore di giornale, Benjamin Bradlee, nel decidere
se pubblicare documenti secretati con rischio di mettere a repentaglio la
quotazione in borsa del loro maggior giornale, il Washington Post, e di
innescare una dura campagna di scontro con l’Esecutivo Nixon. Sullo sfondo un
Paese sempre più diviso dalla guerra in Viet-Nam e l’ex-Segretario alla difesa,
McNamara, che prima di lasciare nel 1968 il suo incarico ed essere collocato
alla Banca Mondiale, aveva preso posizione, con un discorso a Montreal, contro
il perdurare del conflitto; della guerra era stato il teorizzatore e la guida
per numerosi anni. Altro punto gli intrecci tra stampa e politica nella
‘Washington-che-può’, tema che si adatta a qualsiasi capitale. Per gli
spettatori, credo sia difficile afferrare tutte le sfumature del film; per
farlo può essere utile la lettura di The Best and the Brightest di David
Halbertsam (Randam House, 1973), un saggio appassionante di quasi settecento
pagine.
Ci sono
quattro aspetti che meritano di essere sottolineati: a) il ruolo della libertà
di stampa quando si è in guerra; b) la funzione dei Pentagon Papers (le
circa cinquemila pagine secretate che McNamara aveva fatto redigere ‘per i
posteri’) nella guerra in Viet-Nam e nel fronte interno che dimostrava per la
pace; c) la pubblicazione dei Pentagon Papers nella evoluzione del Washington
Post da giornale della capitale a grande quotidiano nazionale; d) che
giudizio si può dare oggi della guerra in Viet-Nam.
In estrema
sintesi, la polemica sui Pentagon Papers e la loro pubblicazione portò
ad una sentenza cruciale delle Corte Suprema americana che tutti dovrebbero
ricordare: la libertà di stampa e di informazione è stabilita dalla
Costituzione nell’interesse dei governati non dei governanti. Dopo la sentenza
sulla pubblicazione dei Pentagon Papers, non esistono, di fatto, più
documenti contro la cui pubblicazione l’Esecutivo possa fare ricorso alla
magistratura. Un punto fermo molto significativo per gli Usa e per tutte le
democrazie. In che misura la pubblicazione dei Pentagon Papers ha inciso
sulle successive decisioni dell’Esecutivo Usa in materia della guerra in Sud
Est asiatico? Molto poco ove non per nulla. C’era già un forte sentimento
dell’opinione pubblica contro il proseguire delle ostilità: ricordo la prima
grande marcia sul Pentagono di un milione di autoconvocati il primo ottobre
1967 (ero tra loro) ed il susseguirsi di manifestazioni. Allora avevo una certa
dimestichezza non solo con la redazione del Wahington Post (dove c’erano
anche ‘falchi’ come Phil McCombs) ma anche con quella del Qicksilver Times,
una testata con un piccolo ufficio a Thomas Circle, marcatamente
anti-establishment; pubblicata da un collettivo, produceva, con pochi mezzi,
molta contro-informazione, era fortemente femminista e difendeva le Black
Panthers. Anche in quell’ambiente non ci si facevano grandi illusioni che la
pubblicazione dei Pentagon Papers avrebbe inciso sull’opinione pubblica.
I documenti riguardavano fatti che l’establishment aveva già metabolizzato e
che interessavano gran parte degli americani. In effetti, non molto dopo lo
scontro tra stampa e Casa Bianca sui Pentagon Papers, e nonostante
l’inizio dell’’affare Watergate’, Nixon ebbe un secondo mandato a larga
maggioranza.
La
pubblicazione dei Papers, però, facilitò non solo il collocamento in
borsa del Washington Post ma anche la sua crescita da quotidiano locale
o regionale (pur con la vendita di mezzo milione di copie) a testata di rilievo
nazionale. Paradossalmente, l’ira della Casa Bianca contro il quotidiano della
capitale (il New York Times era un pesce troppo grosso anche per Nixon)
ne accentuò il ruolo e preparò il terreno per i successi dei suoi redattori Bob
Woodward e Carl Bernstein nell’’affare Watergate’: un alto funzionario
dell’Amministrazione americana (‘Gola Profonda’) si rivolse a
loro e non all’ufficio di Washington del New York Times per fornire informazioni e documenti che avrebbero portato, nel 1974, alle dimissioni di Nixon. La fortuna del Post è durata circa trent’anni. Nel 2013, i Graham ne hanno ceduto il pacchetto di controllo a Jeff Bezos, fondatore di Amazon.com e la testata è tornata ad essere regionale ed ad avere un atteggiamento meno pugnace sui temi politici. I Graham hanno anche ceduto la partecipazione (al 50%) di quello che era l’International Herald Tribune e che ora è l’International New York Times.
loro e non all’ufficio di Washington del New York Times per fornire informazioni e documenti che avrebbero portato, nel 1974, alle dimissioni di Nixon. La fortuna del Post è durata circa trent’anni. Nel 2013, i Graham ne hanno ceduto il pacchetto di controllo a Jeff Bezos, fondatore di Amazon.com e la testata è tornata ad essere regionale ed ad avere un atteggiamento meno pugnace sui temi politici. I Graham hanno anche ceduto la partecipazione (al 50%) di quello che era l’International Herald Tribune e che ora è l’International New York Times.
A oltre
quarant’anni dalla caduta di Saigon, si può dare un giudizio equilibrato sulla
guerra in Viet-Nam. Occorrerebbe scrivere un saggio, non un articolo. In
sintesi credo possa ripetere quanto scritto da Phil McCombs nel
venticinquennale della fine del confitto: gli errori sono stati molteplici, sia
politici sia militari. Ma senza l’intervento dell’Occidente, in Estremo Oriente
non si sarebbe innescato quel germe di libertà che ha contagiato altri Paesi della
vasta regione.
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