lunedì 26 febbraio 2018

Sicilia ago della bilancia in MF del 24 febbraio



L’occupazione (o se si vuole la disoccupazione, specialmente dei giovani) è il nodo centrale della Sicilia. Lo detto lo scorso novembre l’Eurostat e lo ripete il CNR in un rapporto presentato il primo febbraio nel polo universitario umanistico di Napoli.
Veniamo ai dati ed alle possibili terapie. La fotografia della Sicilia e del Mezzogiorno d’Italia scattata da Eurostat,  all’interno del suo volume annuale dedicato alle oltre 200 regioni Ue, mette il dito sulla piaga: troppi giovani che non studiano né lavorano (definiti nelle statistiche NEET (Not Engaged in Education, Employment or Training), pochi laureati, record di disoccupati e un divario digitale con il resto d’Europa ancora da colmare In Sicilia nel 2016 (ultimo censimento Eurostat) erano il 41,4% dei giovani fra i 18 e i 24 anni che non lavoravano, non studiavano e non erano impegnati in tirocini formativi. Nella classifica, dati peggiori solo per la Guyana francese (44,7%) e per la regione bulgara di Severozapaden (46,5%). Attenzione, l’Italia ha, in media, il primato europeo dei NEET: 26% , a fronte di una media europea del 15,2% .
L’alto tasso di ragazzi che non trovano una motivazione per continuare a cercare un impiego si lega a un altro dato: se in Ue il 71,4% di chi ha terminato l’università trova un’occupazione entro tre anni, in Italia ci riesce appena il 44,2%, nel Mezzogiorno il 26,7% e in Calabria la percentuale crolla addirittura al 20,3%. Segue quindi a ruota il dato su abbandoni scolastici e laureati: in Sicilia il 23,5% dei giovani fra i 18 e i 24 anni ha lasciato la scuola prima di terminare il ciclo delle superiori (in Ue il 10,7%). E ancora la Sicilia (18%) e poi la Campania (19,7%) appartengono al ristretto gruppo di sei regioni europee in cui possiede una laurea o un titolo equivalente meno di una persone su cinque (la media Ue fra i 30 e i 34 anni è invece del 39,1%).
I dati Eurostat indicano che  Calabria, Sicilia, Campania e Puglia sono in Europa le regioni in cui lavora meno di una persona su due fra i 20 e i 64 anni. Il digitale è ormai  indispensabile per la maggior parte delle occupazioni. Nel Sud Italia e nelle isole solo il 57,5% di coloro fra i 16 e i 74 anni usa regolarmente internet, quasi 20 punti percentuali meno della media Ue (79%). E appena il 27% lo fa da dispositivi mobili come smartphone o tablet (media Ue 59%).
Il  recentissimo Rapporto sulle Economie del Mediterraneo-Edizione 2017, curato dall’Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo del Cnr, non tratta specificamente della Sicilia ma dell’interna area dell’intero bacino ed i suoi dati riguardano i singoli Paesi, non regioni od aree territoriali . Il documento è in uscita per le edizioni de Il Mulino ed il frutto delle analisi dell’Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo del Cnr (Issn-Cnr), un centro di analisi e ricerche poco conosciuta ma  che merita maggiore notorietà di quella che ha , è  un punto di riferimento per ricercatori e dovrebbe diventarlo per giornalisti, anche a ragione della vasta documentazione di cui dispone. E’ da augurare che la presentazione in una prestigiosa sede universitaria serva non solo a fare conoscere il lavoro dell’ Issn-Cnr ma soprattutto a dare attenzione ai problemi del Sud e delle Isole.
A riguardo è utile ricordare che da anni nel dibattito politico – culturale  non si parla di Mezzogiorno, se non lamentando il progressivo degrado. Gli indicatori economici prodotti periodicamente dall’ISTAT e da istituti di ricerca documentano non solo come sta aumentando il divario tra Pil pro-capite del Sud e delle Isole ed il resto del Paese e la ripresa dell’emigrazione alla ricerca di lavoro, ma anche un vero e proprio processo di desertificazione dell’industria manifatturiera. Mentre è proprio la manifattura ad essere il tassello per lo sviluppo del Mezzogiorno. In effetti, il Sud e le Isole non sembrano avere più quella centralità nella politica economica italiana che avevano quando all’inizio degli Anni Novanta, il “Rapporto Amato” , commissionato dal Parlamento all’ex Presidente del Consiglio(ed ora giudice costituzionale) ed a cui collaborarono tutti i maggiori centri italiani di analisi, produsse una serie di proposte (peraltro mai attuare) per porre il problema al centro della politica economica del Paese indicando anche azioni e strumenti specifici.
Nel 2016, il Quinto Rapporto della Fondazione Ugo La Malfa su Le Imprese Industriali del Mezzogiorno , in collaborazione con Mediobanca, includeva non solo una dovizia di statistiche ed analisi ma anche un saggio di Giorgio La Malfa (intitolato “Per Il Rilancio delle Politiche Meriodionalistiche”) con proposte specifiche di politica economica. La più interessante ed innovativa riguarda l’individuazione di pochi – essenzialmente uno per regione – poli di attrazione e di localizzazione degli investimenti che presentino e garantiscano condizioni particolarmente favorevoli ai nuovi insediamenti industriali. In particolare questi poli di sviluppo dovrebbero avere: a) collegamenti efficaci stradali e ferroviari con porti, aeroporti e mercati di sbocco; b) disponibilità in loco di servizi come acqua, elettricità, collegamenti in banda larga, etc.; c) un sistema a tutta prova di sicurezza delle infiltrazioni della criminalità; d) una presenza di terminali di grandi aziende di credito, che dovrebbero essere poste in concorrenza tra loro in questa aree; e) collegamenti con le Università del territorio che consentano di sviluppare tempestivamente le competenze richieste e f) se possibile, agevolazioni fiscali. Il documento è stato presentato in varie sedi anche molto autorevoli, ma il dibattito è stato fiacco e non ha lasciato un impronta sulla politica.
La creazione di poli di sviluppo non è un’idea nuova. Ricorda sotto molto aspetti l’approccio della unbalanced growth negli Anni Sessanta e soprattutto i lavori sui poli di sviluppo di François Perroux dell’ISEA (Istituto Studi d’Economia Applicata) sempre di quegli anni. In quel clima, circa cinquant’anni fa, poli di sviluppo sono stati creati nel Mezzogiorno; in quel periodo c’è anche stata una riduzione del divario tra il Sud e le Isole ed il resto del Paese. Purtroppo i ‘poli’ di allora sono adesso archeologia industriale perché non si è rimasti al passo con i cambiamenti della tecnologia, con le necessarie trasformazioni della specializzazione produttiva ed il processo di internazionalizzazione dei mercati. Perché non riprovare, tenendo conto delle nuove condizioni dell’economia internazionale?
Torniamo al recente volume CNR. Da oltre un decennio il Rapporto sulle economie del Mediterraneo, offre un’analisi politico-economica aggiornata sullo stato della regione. Alcuni dei temi chiave dell’edizione 2017, curata da Eugenia Ferragina, sono le modificazioni del mercato del lavoro, anche alla luce della perdurante crisi economica e delle profonde trasformazioni demografiche degli ultimi decenni; l’alto tasso di disoccupazione giovanile – in particolar modo femminile – non solo nelle fasce di popolazione scarsamente scolarizzate, ma anche fra i laureati; il fenomeno della fuga di cervelli, che genera emigrazione nei Paesi dell’Europa meridionale, a loro volta caratterizzati da un forte flusso migratorio in entrata. Il rapporto è curato da sedici specialisti, docenti universitari e dirigenti di ricerca nei vari campi di analisi. Il documento mette in evidenza che il nodo occupazionale , e soprattutto quello dei NEET, è ormai diventato strutturale e fa sì che le aree del mezzogiorno italiano diventate simile a quelle della sponda inferiore del Mediterraneo.
Tra le conclusioni del lavoro tre  risultano particolarmente importanti per il dibattito politico in corso nella campagna elettorale in Italia: a) il Migration Compact proposto dall’Italia in seno all’Ue e il cui percorso non sembra facile a ragione dell’opposizione dei Paesi settentrionali dell’Unione; b) le opportunità di sviluppo rappresentate dalla green economy a patto che si riescano a promuovere, e realizzare, politiche integrate d’investimento in innovazione e formazione delle risorse umane; b) l’accento su poli di siluppo abbastanza simili a quelli delineati dalla Fondazione Ugo La Malfa. Ed un quarto di secolo fa dal Rapporto Amato.

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