La rotta stretta della
politica commerciale Usa
I temi della
politica commerciale Usa sono stati appena sfiorati dal presidente Trump
durante il suo primo discorso dell'Unione. Per Formiche.net li ha analizzati
Giuseppe Pennisi
Da un paio
di giorni, arrivano, da Washington, informazioni e corrispondenze secondo cui
sarebbero imminenti dazi nei confronti delle importazioni di prodotti
siderurgici negli Usa. Verrebbero mascherati come misure anti–dumping e
specialmente nei confronti di produttori asiatici.
Queste
notizie vanno inserite in un quadro più vasto. Il 30 gennaio, il Presidente
degli Stati Uniti, Donald Trump, ha pronunciato, il suo primo ‘messaggio
sullo Stato dell’Unione’. Trump ha usato toni e parole molto istituzionali e
molto concilianti, dopo un anno trascorso sempre all’attacco. “Questo è il
nostro nuovo momento americano. Non c’è mai stato momento migliore per
cominciare a vivere il sogno americano”. L’obiettivo palese è infondere fiducia
agli americani, vantando gli “straordinari successi” del suo primo anno alla
Casa Bianca e, al tempo stesso, lanciando un appello all’unità ed invitando i
parlamentari democratici a lavorare insieme con l’Esecutivo nel resto del suo
mandato. La “mano tesa” all’opposizione in seno al Congresso, dove sono
necessari anche i voti dei democratici, gli serve per l’approvazione della
riforma della normativa sull’immigrazione e soprattutto del programma per nuove
infrastrutture da 1500 miliardi di dollari. Questo programma sta attirando
anche grandi imprese italiane; questa settimana una delle maggiori aziende del
settore ha lanciato un bando per assumere 50 giovani ingegneri per lavori
infrastrutturali negli Usa.
Esaltando la
sete di libertà, il coraggio, l’altruismo e la religiosità del popolo
americano, Trump è rimasto fermo su molte delle proprie posizioni sui punti
essenziale di politica interna ed internazionale. Nonostante alcune proteste
organizzate a Washington e non solo, i sondaggi di opinione tenuti subito dopo
il discorso, e pubblicati la mattina del 31 gennaio, rivelano che il
‘messaggio’ è stato apprezzato, in varia misura, dal 70% degli intervistati.
I temi della
politica commerciale sono stati appena sfiorati in due brevi paragrafi: “L’era
della resa economica (in materia di commercio con l’estero, ndr) è
terminata. Da ora ci attendiamo relazioni commerciali eque e reciproche.
Lavoreremo per aggiustare cattivi accordi commerciali del passato e per
negoziarne nuovi”. L’aspetto più importante è l’annuncio che le misure
commerciali saranno ‘negoziate’ non unilaterali come le restrizioni all’import
di elettrodomestici e di pannelli solari (specialmente nei confronti dell’Asia)
prese all’inizio dell’anno. Un atteggiamento differente da quello mostrato in
campagna elettorale ma già manifestato nel discorso tenuto pochi giorni fa a
Davos al Foro Economico Mondiale.
Cosa ha
indotto al cambiamento almeno di tono? Da un lato, gli è stato fatto notare dai
numerosi parlamentari repubblicani – un partito tradizionalmente più aperto
alla liberalizzazione degli scambi di quanto non sia il democratico -, che le
parole forti in tema di commercio, dazi e tariffe possono essere utili a
trovare voti in Stati dell’Unione dove ci sono industrie poco competitive e alta
disoccupazione, ma che da una guerra commerciale gli Usa rischiano di uscire
perdenti. Non solo a ragione delle misure di ritorsione che applicherebbero
altri Stati e che, nelle circostanze, verrebbero probabilmente approvate
dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) nella sua funzione
giurisdizionale, ma perché gli Usa rischiano l’isolamento in un mondo in cui la
libertà degli scambi è vincente. Sono in corso 35 trattative o bilaterali o
regionali per ridurre quel che resta dai dazi, liberalizzare le barriere non
tariffarie agli scambi, eliminare gli ultimi contingenti quantitativi. Il mondo
si muove anche senza di noi, ha scritto Phil Levy del Chicago Council on
Global Affairs, repubblicano da sempre e a lungo consigliere di George W.
Bush per la politica economica internazionale. Alla Casa Bianca si comincia
a temere l’isolamento commerciale degli Stati Uniti, anche e soprattutto in
quanto una parte importante della business community americana teme
ripercussioni negative sui propri conti economici.
Il
cambiamento di tono è tanto più importante dato che proprio alla vigilia del
‘messaggio’, un’analisi dell’Economic Policy Institute (EPI), il “pensatoio” di
Washington supportato dalle maggiori organizzazioni sindacali – ha pubblicato
un’analisi (Trump must act now to protect U.S. steel and aluminum workers) a
firma del capo economista EPI Robert E. Scott. Lavoro chiaramente mirato
ad indurre Trump a riprendere gli accenti tenuti in campagna elettorale.
I dazi od
altre misure per l’import di prodotti siderurgici saranno molto probabilmente
negoziati con i Paesi interessati e potranno prendere la forma di restrizioni
‘volontarie’ per due- tre anni analoghe a quelle che negli anni settanta
l’Amministrazione Carter concluse anche con il Canada e l’Unione europea per lo
‘export’ di auto alla volta degli Usa. Ciò consentirebbe all’inquilino della
Casa Bianca di mostrare di avere mantenuto le promesse fatte in campagna
elettorale senza aprire però una guerra commerciale.
04/02/2018
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