IL NODO E’ IL LAVORO
Giuseppe Pennisi
L’occupazione (o se si vuole la disoccupazione,
specialmente dei giovani) è il nodo centrale della Sicilia. Lo detto lo scorso
novembre l’Eurostat e lo ripete il CNR in un rapporto presentato il primo
febbraio nel polo universitario umanistico di Napoli.
Veniamo ai dati ed alle possibili terapie. La
fotografia della Sicilia e del Mezzogiorno d’Italia scattata da Eurostat, all’interno del suo volume annuale dedicato
alle oltre 200 regioni Ue, mette il dito sulla piaga: troppi giovani che non
studiano né lavorano (definiti nelle statistiche NEET (Not Engaged in
Education, Employment or Training), pochi laureati, record di disoccupati e un
divario digitale con il resto d’Europa ancora da colmare In Sicilia nel 2016 (ultimo
censimento Eurostat) erano il 41,4% dei giovani fra i 18 e i 24 anni che non
lavoravano, non studiavano e non erano impegnati in tirocini formativi. Nella
classifica, dati peggiori solo per la Guyana francese (44,7%) e per la regione
bulgara di Severozapaden (46,5%). Attenzione, l’Italia ha, in media, il primato
europeo dei NEET: 26% , a fronte di una media europea del 15,2% .
L’alto tasso di ragazzi che non trovano una
motivazione per continuare a cercare un impiego si lega a un altro dato: se in
Ue il 71,4% di chi ha terminato l’università trova un’occupazione entro tre
anni, in Italia ci riesce appena il 44,2%, nel Mezzogiorno il 26,7% e in
Calabria la percentuale crolla addirittura al 20,3%. Segue quindi a ruota il
dato su abbandoni scolastici e laureati: in Sicilia il 23,5% dei giovani fra i
18 e i 24 anni ha lasciato la scuola prima di terminare il ciclo delle
superiori (in Ue il 10,7%). E ancora la Sicilia (18%) e poi la Campania (19,7%)
appartengono al ristretto gruppo di sei regioni europee in cui possiede una
laurea o un titolo equivalente meno di una persone su cinque (la media Ue fra i
30 e i 34 anni è invece del 39,1%).
I dati Eurostat indicano che Calabria, Sicilia, Campania e Puglia sono in
Europa le regioni in cui lavora meno di una persona su due fra i 20 e i 64
anni. Il digitale è ormai indispensabile
per la maggior parte delle occupazioni. Nel Sud Italia e nelle isole solo il
57,5% di coloro fra i 16 e i 74 anni usa regolarmente internet, quasi 20 punti
percentuali meno della media Ue (79%). E appena il 27% lo fa da dispositivi
mobili come smartphone o tablet (media Ue 59%).
Il recentissimo
Rapporto sulle Economie del
Mediterraneo-Edizione 2017, curato dall’Istituto di Studi sulle Società del
Mediterraneo del Cnr, non tratta specificamente della Sicilia ma dell’interna
area dell’intero bacino ed i suoi dati riguardano i singoli Paesi, non regioni
od aree territoriali . Il documento è in uscita per le edizioni de Il Mulino ed
il frutto delle analisi dell’Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo
del Cnr (Issn-Cnr), un centro di analisi e ricerche poco conosciuta ma che merita maggiore notorietà di quella che ha
, è un punto di riferimento per
ricercatori e dovrebbe diventarlo per giornalisti, anche a ragione della vasta
documentazione di cui dispone. E’ da augurare che la presentazione in una
prestigiosa sede universitaria serva non solo a fare conoscere il lavoro dell’ Issn-Cnr
ma soprattutto a dare attenzione ai problemi del Sud e delle Isole.
A riguardo è utile
ricordare che da anni nel dibattito politico – culturale non si parla di Mezzogiorno, se non lamentando
il progressivo degrado. Gli indicatori economici prodotti periodicamente
dall’ISTAT e da istituti di ricerca documentano non solo come sta aumentando il
divario tra Pil pro-capite del Sud e delle Isole ed il resto del Paese e la
ripresa dell’emigrazione alla ricerca di lavoro, ma anche un vero e proprio processo
di desertificazione dell’industria manifatturiera. Mentre è proprio la
manifattura ad essere il tassello per lo sviluppo del Mezzogiorno. In
effetti, il Sud e le Isole non sembrano avere più quella centralità nella
politica economica italiana che avevano quando all’inizio degli Anni Novanta,
il “Rapporto Amato” , commissionato
dal Parlamento all’ex Presidente del Consiglio(ed ora giudice costituzionale)
ed a cui collaborarono tutti i maggiori centri italiani di analisi, produsse
una serie di proposte (peraltro mai attuare) per porre il problema al centro
della politica economica del Paese indicando anche azioni e strumenti
specifici.
Nel 2016, il Quinto Rapporto della Fondazione Ugo La
Malfa su Le Imprese Industriali del
Mezzogiorno , in collaborazione con Mediobanca, includeva non solo una
dovizia di statistiche ed analisi ma anche un saggio di Giorgio La Malfa
(intitolato “Per Il Rilancio delle
Politiche Meriodionalistiche”) con proposte specifiche di politica
economica. La più interessante ed innovativa riguarda l’individuazione di pochi
– essenzialmente uno per regione – poli
di attrazione e di localizzazione degli investimenti che presentino e
garantiscano condizioni particolarmente favorevoli ai nuovi insediamenti
industriali. In particolare questi poli di sviluppo dovrebbero avere: a)
collegamenti efficaci stradali e ferroviari con porti, aeroporti e mercati di
sbocco; b) disponibilità in loco di servizi come acqua, elettricità,
collegamenti in banda larga, etc.; c) un sistema a tutta prova di sicurezza
delle infiltrazioni della criminalità; d) una presenza di terminali di grandi
aziende di credito, che dovrebbero essere poste in concorrenza tra loro in
questa aree; e) collegamenti con le Università del territorio che consentano di
sviluppare tempestivamente le competenze richieste e f) se possibile,
agevolazioni fiscali. Il documento è stato presentato in varie sedi anche molto
autorevoli, ma il dibattito è stato fiacco e non ha lasciato un impronta sulla
politica.
La creazione di
poli di sviluppo non è un’idea nuova. Ricorda sotto molto aspetti l’approccio
della unbalanced growth negli Anni Sessanta e soprattutto i lavori sui
poli di sviluppo di François Perroux dell’ISEA (Istituto Studi d’Economia
Applicata) sempre di quegli anni. In quel clima, circa cinquant’anni fa, poli
di sviluppo sono stati creati nel Mezzogiorno; in quel periodo c’è anche stata
una riduzione del divario tra il Sud e le Isole ed il resto del Paese.
Purtroppo i ‘poli’ di allora sono adesso archeologia industriale perché non si
è rimasti al passo con i cambiamenti della tecnologia, con le necessarie
trasformazioni della specializzazione produttiva ed il processo di
internazionalizzazione dei mercati. Perché non riprovare, tenendo conto
delle nuove condizioni dell’economia internazionale?
Torniamo al recente volume CNR. Da oltre un decennio
il Rapporto sulle economie del Mediterraneo, offre un’analisi
politico-economica aggiornata sullo stato della regione. Alcuni dei temi chiave
dell’edizione 2017, curata da Eugenia
Ferragina, sono le modificazioni
del mercato del lavoro, anche alla luce della perdurante crisi economica e
delle profonde trasformazioni demografiche degli ultimi decenni; l’alto tasso
di disoccupazione giovanile – in particolar modo femminile – non solo nelle
fasce di popolazione scarsamente scolarizzate, ma anche fra i laureati; il
fenomeno della fuga di cervelli, che genera emigrazione nei Paesi dell’Europa
meridionale, a loro volta caratterizzati da un forte flusso migratorio in
entrata. Il rapporto è curato da sedici specialisti, docenti universitari e
dirigenti di ricerca nei vari campi di analisi. Il documento mette in evidenza
che il nodo occupazionale , e soprattutto quello dei NEET, è ormai diventato
strutturale e fa sì che le aree del mezzogiorno italiano diventate simile a
quelle della sponda inferiore del Mediterraneo.
Tra le conclusioni del lavoro tre risultano particolarmente importanti per il
dibattito politico in corso nella campagna elettorale in Italia: a) il Migration Compact proposto dall’Italia
in seno all’Ue e il cui percorso non sembra facile a ragione dell’opposizione
dei Paesi settentrionali dell’Unione; b) le opportunità di sviluppo
rappresentate dalla green economy a
patto che si riescano a promuovere, e realizzare, politiche integrate
d’investimento in innovazione e formazione delle risorse umane; b) l’accento su
poli di siluppo abbastanza simili a
quelli delineati dalla Fondazione Ugo
La Malfa.
Ed un quarto di secolo fa dal Rapporto
Amato.
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