martedì 27 febbraio 2018

MA L’ITALIA DEVE CREARE UN CONTESTO FAVOREVOLE ALL’INNOVAZIONE in Start Mag febbraio



MA L’ITALIA DEVE CREARE UN CONTESTO FAVOREVOLE ALL’INNOVAZIONE
Giuseppe Pennisi

Il contesto generale. L’innovazione tecnologica è lo strumento essenziale per ritornare al tasso di crescita potenziale - Pil stimato nel 2017 da Banca centrale europea, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Ocse all’1,5% - . L’invecchiamento della popolazione, l’obsolescenza degli impianti e l’integrazione economica internazionale con l’accresciuta concorrenza da Paesi a basso costo ed a bassa pressione tributaria - soprattutto del lavoro - rendono difficile ipotizzare il ritorno ai tassi di crescita intorno al 2,5% l’anno che hanno caratterizzato gli Anni Ottanta. Come sottolinea il più recente studio in materia[1], l’innovazione ha importanti ricadute sulla quantità e sulla qualità di occupazione. L’analisi del fenomeno, già caratteristico dei movimenti ‘luddistici’ due secoli orsono, richiede strumenti non solo economici, ma anche politologici e sociologici, ossia di tutto l’armamentario della ricerca sociale e devono essere condivisi non solo nel mondo accademico, ma anche tra parti sociali e gruppi intermedi.
Un pizzico di teoria. Su questi temi stanno lavorando economisti di fama internazionale come Darun Acemoglu, Dani Rodrik, James A. Robinson, grazie ai quali si sta approntando un nuovo quadro teorico in cui l’economia e la politologia vengano coniugate per meglio comprendere le implicazioni politiche di decisioni economiche, i nuovi equilibri che si possono creare e le tecniche per minimizzare effetti controproducenti di scelte economiche che, sotto il profilo della disciplina, sembrano corrette. In Italia, temi di questa natura vengono echeggiati solo nella giovane Rivista di Politica, ma vengono raramente  accennati in riviste professionali di economia. Eppure è proprio questa la materia su cui indagare per comprendere la nostra scarsa capacità adattiva alle trasformazioni dell’economia mondiale, le ragioni del nostro declino e le leve per cercare di rimettersi a crescere. Per una corretta interpretazione di queste determinanti meta-economiche, occorre soffermarsi su due lavori che hanno suscitato un notevole dibattito nel mondo accademico anglo-sassone[2]. I due libri esaminano, in modo differente, temi simili: il secondo è scritto per studenti in corsi magistrali, mentre il primo è rivolto al grande pubblico e per mesi è stato in testa ai best seller. Meritano di essere esaminati con grande cura nel predisporre politiche di crescita. E’ bene farlo gradualmente.
Nei limiti di questa nota per la discussione è importante rilevare che - sulla base di regressioni statistiche su un vasto campione di Paesi e di una narrativa che parte dalle civiltà antiche - Besley e Persson giungono alla conclusione che “non esiste un’ingegneria economica per la crescita” e che “le determinanti meta-economiche più significative sono quelle politiche”. Per Acemoglu e Robinson si può crescere se la politica fornisce “un assetto istituzionale inclusivo”, in cui si incoraggia la partecipazione e quindi la equa suddivisione di costi e benefici; si resta al palo con “un assetto istituzionale estrattivo” che “arricchisce chi decide a spese del resto della società”. Un “assetto istituzionale estrattivo” non significa istituzioni che estraggono risorse (ad esempio minerarie di ‘beni comuni’ per il soddisfacimento di pochi), ma istituzioni che ‘estraggono gettito tributario’ per spesa pubblica improduttiva o poco produttiva.
E’ utile sottolineare che l’attenzione ai temi meta-economici sta diventando centrale anche nei lavori dei centri di analisi economica italiani.  Ad esempio, il Centro per l’Economia e lo Sviluppo Internazionale (CEIS) dell’Università di Tor Vergata, ha appena pubblicato un interessante raffronto tra il modello econometrico del Ministero dell’Economia e delle Finanze (in gergo ITEM) e la strumentazione analoga usata dalla Commissione Europea (QUEST III) per valutare in termini quantitativi gli effetti e gli impatti di riforme strutturali in materia di mercato del lavoro, strategia industriale, liberalizzazioni, privatizzazioni e simili[3]. La conclusione è che l’impiego simultaneo delle due strumentazioni può migliorare la comprensione della qualità delle misure di politica economica in un contesto comunque circondato da incertezza. Ambedue gli strumenti, però, hanno breve respiro (un lasso temporale di 24-48 mesi), mentre appare sempre più chiaro che i problemi dell’Italia riguardano il lungo periodo.

Uno sguardo al passato. E’ utile esaminare due lavori  del servizio studi della Banca d’Italia. Il primo[4] esamina la crescita e lo sviluppo dell’Italia in quella che gli autori chiamano “la prima età della globalizzazione”. In quel periodo, secondo lo studio, l’Italia era alle prese con una significativa scarsità di capitale, ma fu in grado di superare questo vincolo con soluzioni innovative, specialmente di politica industriale, negli anni attorno al 1880 e al 1930, innovazioni che vennero replicate anche in altri Paesi. L’analisi di James e O’Rourke è esatta nelle conclusioni a cui arriva, ma sceglie un periodo discutibile.  Di solito, anche nei libri di O’Rourke,  storico dell’economia di grande qualità, la prima età della globalizzazione viene situata tra il 1870 e il 1910, poiché una delle risposte alla prima guerra mondiale fu la chiusura dei mercati agli scambi commerciali, nonché lo smantellamento di unioni monetarie (come quella latina che resse, in vario modo, dal 1865 al 1927).

Più interessante suddividere il periodo ed esaminare, in particolare, le radici del “miracolo economico”. Come dimostrato in altra sede[5], economisti rigorosamente marxisti e rigorosamente neo-classici[6] concordano sul punto che alla base delle forte “efficienza adattiva” dell’Italia (che consentì al Paese di cogliere le opportunità dell’apertura dei mercati e del ritorno alla convertibilità), fu la forte dotazione di capitale umano, risultato dell’elevata qualità dell’istruzione e della formazione professionale, frutto in gran misura delle iniziative che oggi si chiamerebbero del ‘terzo settore’, come i centri di formazione del movimento cooperativo e dei salesiani. Tale capitale, reso ‘improduttivo’ dal succedersi di guerre dal 1935 al 1945, diventò molto produttivo quando venne coniugato con capitale fisico, politiche economiche liberali e internazionalizzazione. Il ‘miracolo’ si esaurì a ragione della scarsa attenzione al saggio di salario ed alle politiche sociali. Questi punti sono riaffermati su dati contenuti in uno studio appena uscito[7].

Un altro lavoro della Banca d’Italia[8] esamina ‘l’età dell’oro e la seconda globalizzazione’. Al riparo da inflazione e svalutazione, la crescita restò relativamente sostenuta sino alla metà degli anni settanta, ma le esigenze di riassetto strutturale vennero trascurate, anche se riforme dal lato dell’offerta vennero attuate in seguito alla crisi valutaria del 1992. Tali riforme furono meno incisive di quanto necessario. La partecipazione all’unione monetaria europea “non ha portato miglioramenti in termini di prospettive di crescita”. Nelle conclusioni, l’analisi si sofferma su determinanti meta-economiche che ‘bloccano’ il sistema.
Il percorso è difficile a ragione del carattere ‘corporativo’della società italiana. Parlamenti e Governi esprimono piccoli gruppi di interessi organizzati (si pensi alle associazioni/cooperative dei taxi nelle grandi città) che incidono in misura importante sulle scelte pubbliche (come ci ricorda il primo teorema della public choice di James Buchanan e Gordon Tullock). Una ‘grande coalizione’ è meglio attrezzata di una ‘piccola’ ad affrontare questi nodi. Lo documenta a tutto tondo proprio uno storico tedesco, un cui libro fondamentale[9] è giunto in traduzione italiana  nelle librerie da alcuni anni. Ad esso fa quasi da pendant il lavoro di un politologo tedesco[10] in cui l’autore si pone l’interrogativo di fondo: la democrazia rappresentativa liberale è compatibile con le decisioni spedite imposte dall’integrazione economica internazionale? In questo contesto un mix di democrazia diretta, di democrazia rappresentativa e di partecipazione dei corpi intermedi e delle parti sociali viene presentato come possibile risposta a questo nodo di fondo.

La situazione oggi. Secondo i dati dell’annuale report di Clifford Chance, l’automazione industriale, le telecomunicazioni e robotica nel 2016 hanno costituito la parte più importante delle operazioni di fusione e acquisizione tra aziende nel mondo, sfiorando i 700 miliardi di dollari. Secondo Mergermarket, punto di riferimento per gli operatori del mercato internazionale delle fusioni e acquisizioni, in un anno di calo generalizzato (-19% sul 2015), il comparto tecnologico ha messo a segno una crescita del 3% rispetto all’anno precedente. Tra i settori di maggior rilievo  del M&A (merger and acquisition) mondiale, quello della tecnologia, dei media e delle telecomunicazioni è senz’altro il principale. Tra i Paesi europei in testa nella graduatoria c’è la Germania (nella percezione delle imprese estere, a parità di tecnologia, il marchio di un’azienda dell’automazione tedesca vale il 20% in più di quello di una italiana), ma l’Italia ha comunque registrato la sua seconda miglior performance dal 2007. La Cina, protagonista assoluta del 2016, non cerca più risorse naturali, ma partner nell’automazione industriale e nelle tecnologie più innovative.
Numerose indagini segnalano un crescente interesse per le eccellenze italiane del comparto tecnologico da parte degli investitori esteri, i quali  tuttavia non sondano il terreno in generale, ma guardano direttamente a quelle imprese che già conoscono (ciò potrebbe significare che “l’innovazione made in Italy”, di per sé, non è ancora un brand capace di attrarre investimenti)
Con il Piano nazionale su investimenti, produttività ed innovazione “Industria 4.0” l’Italia si impegna su diversi livelli. Da un lato si pone una sfida conoscitiva, nella quale lo Stato dovrebbe giocare un ruolo sussidiario[11], aiutando le imprese a conoscere le tecnologie nelle quali investire, in particolare fornendo al sistema delle piccole e medie imprese italiane gli strumenti necessari a costruire un “ecosistema” con attori in grado di sostenere gli sforzi delle realtà imprenditoriali che intendono investire. In assenza di una rete in grado di sostenere gli sforzi messi in campo dalle imprese che si fanno carico del rischio connesso agli investimenti, questi ultimi potrebbero non dare i risultati attesi. Altra sfida riguarda l’adeguamento di competenze richiesto dall’innovazione tecnologica: la digitalizzazione dell’industria non può prescindere da una adeguata formazione e riqualificazione del capitale umano. L’obiettivo di formare adeguatamente le risorse umane in vista delle specifiche competenze richieste da una industria digitalizzata è presente nelle azioni del Governo, che dovrebbe attivare la filiera dell’istruzione con azioni strategiche, utilizzando il Piano nazionale scuola digitale, valorizzando lo strumento dell’alternanza scuola-lavoro, utilizzando sia i percorsi universitari che quelli offerti dagli istituti tecnici, potenziando i dottorati e sviluppando poli di digital innovation.
La vera sfida che Industria 4.0 comporta, riguarda, più che la tecnologia, il lavoro[12]. Essa potrà essere affrontata nella misura in cui la tecnologia non si ponga come strumento di sostituzione dei lavoratori, ma sia capace di abilitarne le competenze, la creatività e l’autonomia. Occorre che il sistema-Paese riesca a trovare un equilibrio tra investimenti in tecnologia e investimenti in competenze, in modo da porre il lavoratore – a valle di una crisi economica, sociale, globale ed epocale - in una nuova centralità nei processi produttivi. La causa principale della produttività stagnante non si rinviene tutta nella scarsa quantità/qualità degli investimenti in tecnologia, ma nella mancanza di una diffusa organizzazione del lavoro in grado di implicare la piena partecipazione dei lavoratori e lo sviluppo costante delle loro competenze professionali, in particolare digitali, indispensabile per poter tenere il passo con l’organizzazione del lavoro che cambia. L’unico elemento che emerge sistematicamente come cruciale nell’attenuare i fenomeni di spiazzamento/ sostituzione nel mercato del lavoro è dato dall’istruzione e dalla formazione. Nel breve periodo, infatti, e in determinati settori produttivi, l’innovazione può avere effetti dirompenti soprattutto per quei lavoratori non in possesso di competenze e qualifiche necessarie per ricollocarsi facilmente in nuove occupazioni e in settori emergenti. 

La “quarta rivoluzione industriale” che il Governo ha inteso avviare non può prescindere dai necessari investimenti in capitale umano attraverso azioni strutturate e risorse da destinare a istruzione e formazione. Il Programma Nazionale di Riforma può andare in questa direzione solo nella consapevolezza che l’introduzione anche massiccia di sofisticate tecnologie, dove non sostenuta da adeguati investimenti in competenze, potrebbe condurre a una riduzione di occupati (anche se, ad oggi, non si dispone di dati che correlino in modo diretto lo sviluppo tecnologico all’aumento della disoccupazione), mentre l’obiettivo è di attivare una radicale trasformazione del lavoro che si traduca in maggiore produttività, domanda e occupazione[13]. La questione da affrontare è come prepararci alla transizione e come fare in modo che le innovazioni tumultuose in atto possano trasformarsi in un opportunità, agevolando la creazione di nuova occupazione.

Perché il processo di sviluppo e l’innovazione tecnologica siano il motore della crescita, devono tenere conto delle implicazioni sul mercato del lavoro[14].  L’ingresso sul mercato del lavoro delle generazioni “nate con i pc” comporterà una revisione della concezione di lavoro manuale alla quale siamo abituati, con uno spazio diverso affidato alla gestione individuale e collettiva delle competenze in tecnologia e intelligenza artificiale. Più che “impedire lo sviluppo tecnologico”, dunque, diventa strategico l’investimento in politiche attive efficaci, che guidino la forza lavoro attraverso una “riqualificazione permanente” e l’acquisizione di soft-skill, ossia di competenze effettivamente spendibili in un mercato del lavoro in continua trasformazione e adatte a restare flessibili per affrontare i cambiamenti. Già diversi anni fa lo aveva preconizzato Marco Biagi nell’ideare ‘lo statuto dei lavori’[15].

I dati, dall’altra parte, sembrerebbero evidenziare che i Paesi OCSE che più rapidamente stanno automatizzando i processi produttivi mostrano un tasso di disoccupazione molto contenuto, mentre i Paesi ad alto tasso di disoccupazione e bassi livelli occupazionali sono quelli in cui l’automazione dei processi è ancora molto lenta.

In merito alla relazione fra nuove tecnologie dell’informazione e perdita di posti di lavoro, Bessen[16] analizza i dati degli ultimi due secoli dell’economia americana e mostra che l’introduzione dei computer nei processi produttivi ha portato a una diminuzione dell’occupazione nelle industrie manifatturiere, e a un relativo incremento dell’occupazione negli altri settori economici.
Sembrerebbe dunque che le nuove tecnologie portino a un incremento dell’occupazione soltanto sotto due condizioni: mercati sufficientemente concorrenziali e  elasticità della domanda sufficientemente elastica, ossia quando al diminuire del prezzo la quantità domandata aumenta sensibilmente. Infatti il progresso tecnico da un lato riduce il lavoro necessario per produrre una unità di prodotto, dall’altro lato sui mercati competitivi tende a ridurre i prezzi. A fronte della diminuzione di prezzi, se il prodotto ha una elasticità della domanda sufficientemente elevata, le vendite aumentano al punto da richiedere un incremento di lavoro che controbilancia l’effetto produttività delle tecnologie.
I settori che tipicamente presentano elevata elasticità della domanda sono quelli in cui la domanda non è completamente soddisfatta dall’offerta (ad esempio alcuni settori non manifatturieri), mentre i settori saturi presentano una bassa elasticità (ad esempio il settore automobilistico). Solo se l’impresa decide di congelare i propri incrementi di produttività senza alterare il proprio modello competitivo e senza reinvestire in nuova capacità produttiva, si avrà una perdita netta di lavoro. Se invece l’impresa traduce gli incrementi di produttività in nuova strategia competitiva, ad esempio abbassando i prezzi di vendita e aumentando la quota di mercato e la produzione, si tende ad avere creazione di occupazione.
Le evidenze empiriche occupazionali e la capacità di tenuta dei modelli scientifici vanno inoltre “accompagnati” da un’attenta lettura dei trend demografici, che comporterà e sta già comportando un progressivo restringimento dell’offerta di lavoro in alcune aree del pianeta[17].

 

Conclusione. Nel volume di Salvatore Zecchini, citato all’inizio di questa nota, dopo un raffronto internazionale, vengono fornite indicazioni per una migliore politica di innovazione dell’Italia: a) migliorare la governance e definire una strategia; b) istituire un’agenzia per l’innovazione con compiti operativi; c) stimolare l’offerta di ricerca ed innovazione alle imprese; d) sviluppare la domanda di ricerca ed innovazione sia privata sia pubblica; e) creare un contesto favorevole all’innovazione; f) trovare più efficaci modalità di intervento e di finanziamento; g) potenziare la valutazione economica degli interventi. A queste indicazioni è opportuno aggiungere: a) una valutazione delle ricadute occupazionali e formative degli interventi con la partecipazione dei corpi intermedi e delle parti sociali; b) la revisione, ove necessario, delle norme lavoristiche per accompagnare e facilitare le trasformazioni.
Nella sua funzione di alta consulenza al Governo ed al Parlamento, il CNEL può avere un ruolo non secondario in questo processo.


APPENDICE
I ROBOT DEVONO PAGARE LE IMPOSTE?

I robot devono pagare le imposte? Non è stata solo una boutade di Bill Gates il fondatore di Microsoft, l’uomo più ricco del mondo. «Oggi se un essere umano guadagna 50 mila dollari all’anno, lavorando in una fabbrica, deve pagare le imposte. Se un robot svolge gli stessi compiti, dovrebbe essere tassato allo stesso livello». Messa così può sembrare quasi una provocazione. Ma, intervenendo alla Conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera, Gates si proietta nel futuro ormai prossimo: «Non ritengo che le aziende che producono robot si arrabbierebbero se fosse imposta una tassa. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale può generare profitti con risparmi sul costo del lavoro». Il miliardario americano, sembra di capire, prospetta una doppia imposizione. Dovrebbero pagare un prelievo extra le aziende che costruiscono i robot e, poi, le imprese che li installano per sostituire la manodopera di uomini e donne. Solo negli Stati Uniti circa otto milioni di posti potrebbero essere bruciati dall’automazione. In Gran Bretagna, secondo alcune stime, sarebbero addirittura 15 milioni. Le previsioni, però, sono molteplici e non tutte concordanti. Uno studio di McKinsey giunge alla conclusione che, se si considera «l’attuale tecnologia», solo il 5% delle occupazioni attuali verrebbe cancellato dai robot.
Altre stime parlano di un 38% delle occupazioni negli USA (35% in Germania e 30 % in Gran Bretagna) che verrebbero sostituite entro il 2030 dall’automazione e altre stime ancora prevedono che chi entra oggi sul mercato dovrà cambiare tra le 5 e le 7 occupazioni. Il ragionamento, naturalmente, deve tenere conto dei progressi tumultuosi e allora la soglia di sostituzione tra uomo e macchina può salire fino al 45%. Il dibattito è in pieno sviluppo su piani diversi. Dall’aspetto filosofico, con la tesi del trionfo finale della tecnica, sostenuta da Emanuele Severino, a quello tributario, alle implicazioni etiche, esiste già una letteratura sterminata.
Al termine della presente nota è riportato un elenco dei testi scaricati più frequentemente.
Il testo più utile, conciso e più direttamente mirato al tema è quello di Ryan Abbot e di Bret N. Bogenschneider, University of Surrey, messo sulla rete il 24 marzo (per averlo basta scrivere a drryanabbot@gmail.com.).
In sintesi, il lavoro sottolinea che le tecnologie oggi esistenti possono automatizzare gran parte delle funzioni del lavoro. Il loro costo decresce, mentre quello del lavoro umano aumenta. Questa determinante, unitamente al progresso tecnico in materia di informatica, intelligenza artificiale e robotica, inducono a prevedere che ci saranno perdite significative di posti di lavoro, un peggioramento della disuguaglianza dei redditi e la riallocazione dei dipendenti sostituiti dall’automazione in posizioni che richiedono meno competenze, producono meno e danno salari inferiori. Coloro che hanno  responsabilità politiche stanno dibattendo come trattare questi temi: gran parte delle proposte riguardano gli investimenti in formazione o nella spesa sociale per attutire le conseguenze dell’automazione, e i nuovi modelli di welfare che si rendono necessari per tamponare situazioni di in-out dal mercato. Secondo Abbot e Bogenschneider l’importanza della politica tributaria è stata sottovalutata. A loro parere i sistemi tributari incentivano l’automazione anche quando non è socialmente efficiente. Infatti, gran parte del gettito proviene dall’imposta sul reddito, un’imposta che i robot non pagano, grazie a sistemi tributari che tassano il lavoro piuttosto che il capitale. I robot sono, quindi, pessimi contribuenti. Secondo i due autori occorre cambiare rotta: il sistema tributario deve essere almeno neutrale tra lavoro e capitale, ossia tra lavoro dei robot e degli esseri umani. Ciò può essere realizzato abolendo le deduzioni o detrazioni tributarie per l’automazione, oppure introducendo un’imposta sull’automazione, oppure aumentando le imposte sulle persone giuridiche, o meglio ancora combinando queste proposte.
In Italia, fu a suo tempo formulata una proposta[18] concernente la neutralità del fisco rispetto alla scelta lavoro/capitale, che intendeva sostituire i contributi sociali con l'imposta sul valore aggiunto prodotto e distribuito dalle imprese, indipendentemente dalla combinazione produttiva scelta (labour saving o capital saving) e trovò attuazione a livello regionale con l’introduzione dell’IRAP.
Per affascinanti che siano queste proposte, esse hanno il profumo del luddismo, quel movimento di protesta operaia sviluppatosi all'inizio del XIX secolo in Gran Bretagna, caratterizzato dal sabotaggio della produzione industriale. Macchinari  come il telaio meccanico, introdotti durante la rivoluzione industriale, erano infatti considerati una minaccia dai lavoratori salariati, perché causa dei bassi stipendi e della disoccupazione. Il nome del movimento deriva da Ned Ludd, un giovane, forse neppure mai esistito realmente, che nel  1779  avrebbe distrutto un telaio in segno di protesta. Ludd divenne il simbolo della distruzione delle macchine industriali e si trasformò nell'immaginario collettivo in una figura mitica: il “generale Ludd”, il protettore e vendicatore di tutti i lavoratori salariati, oppressi dai padroni e sconvolti dalla rivoluzione industriale.

Elenco testi più scaricati sui temi affrontati dalla presente nota:
·         Jennifer Bird-Pollan (Kentucky), Utilitarianism and Wealth Transfer Taxation, 69 Ark. L. Rev. 695 (2016)
·         Marco Bonomo (Insper Institute of Education and Research), Joao De Mello (Pontifical Catholic University of Rio de Janeiro), and Lira Mota (Columbia Business School), Short-Selling Restrictions and Returns: A Natural Experiment
·         Leopoldo Fergusson (Universidad de los Andes), Carlos Molina (Universidad de los Andes), and Juan Feipe Riaño (University of British Columbia), I Evade Taxes, and So What? A New Database and Evidence from Colombia
·         Jeremiah Harris (Kent State) and William O'Brien (University of Illinois at Chicago), The Effect of the U.S. Worldwide Taxation Policy on Domestic Mergers and Acquisitions
·         Jost Heckemeyer (Leibniz Universität Hannover) and Pia Olligs (University of Cologne), 'Home Sweet Home' versus International Tax Planning: Where Do Multinational Firms Hold Their U.S. Trademarks?
·         Daniel Hemel (Chicago), Pooling and Unpooling in the Uber Economy, 2017 U. Chi. Legal Forum (forthcoming)
·         David Kamin (NYU) and Brad Setser (Council on Foreign Relations), House Plan's Bad Math: Over-Estimates of Revenue from a Border Adjustment, Tax Notes (forthcoming 2017)
·         Jacqueline Lainez (University of the District of Columbia), Holding U.S. Corporations Accountable: The Convergence of U.S. International Tax Policy and International Human Rights
·         Wayne L. Nesbitt, Edmund Outslay, and Anh Persson (Michigan State), The Relation Between Tax Risk and Firm Value: Evidence from the Luxembourg Tax Leaks
·         Dhruv Sanghavi (Maastricht University), BEPS Hybrid Entities Proposal: A Slippery Slope, Especially for Developing Countries, 85 Tax Notes Int’l 357 (Jan. 23, 2017)
·         Richard Schmalbeck (Duke), Jay A. Soled (Rutgers), and Kathleen DeLaney Thomas (North Carolina), Advocating A Carryover Tax Basis Regime, Notre Dame L. Rev. (forthcoming)
·         Anindya Sen (University of Waterloo), Smokes, Smugglers and Lost Tax Revenues: How Governments Should Respond, C.D. Howe Inst., Commentary No. 471 (Feb. 2017)
·         Antony Ting (University of Sydney), Base Erosion by Intra-Group Debt and BEPS Project Action 4's Best Practice Approach - A Case Study of Chevron, 2017 British Tax Rev. no. 1, at 80
·         Studenski Paul, Towards a Theory of Business Taxation, in J. political Economy1940




[1] Salvatore Zecchini, La Politica dell’innovazione industriale: crescita e confronti, Biblioteca di ImpresaLavoro, 2016.
[2] Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity and Poverty”(Perché le Nazioni falliscono: le origini del potere , della prosperità e della povertà’ di Daron Acemoglu e James Robinson, Crown Business, 2012, e “Pillars of Prosperity: the Political Economy of Development Clusters (I pilastri della prosperità: l’economia politica dei bacini di sviluppo) di Timothy Besley e Torsten Persson, Princeton University Press, 2011.

[3] Barbara Annichiarico, Fabio Di Dio, Francesco  Felici, Francesco Nucci, Structural Reforms and the Potential Effects on the Italian Economy, Riforme strutturali ed effetti potenziali sull’economia italiana, 2012.
[4] Harold James, Kevin  O’Rourke, Italy and the First Age of Globalization, 1861-1940, L’Italia e la prima età della globalizzazione, Banca d’Italia, 2011.
[5] Giuseppe Pennisi, La valutazione economica dei sistemi educativi e formativi, in ‘Rassegna Italiana di Valutazione’, n. 46, 2010.
[6] Tra i primi, Ferenc Janossy, La Fin des Miracles Economique, La fine dei miracoli economici, Editions du Seuil, 1973; tra i secondi, Charles Kindleberger Europe’s Post War Growth: the Role of Labor Supply, La crescita nel dopoguerra in Italia: il ruolo dell’offerta di lavoro’,  Harvard University Press, 1967.

[7] Raphael Frank e Oder Galor, Technology–Skill Complementarity, Complementarità tra tecnologia e formazione, CEPR Discusssion Paper n. DP 11865, 2017.

[8] Nicholas Crafts,e Marco Magnani, The Golden Age and the Second Globalization in Italy, ‘L’età dell’oro e la seconda globalizzazione in Italia, Banca d’Italia 2011.
[9] Jan Werner Müller, L’enigma democrazia. Le idee politiche nell’Europa del Novecento, Einaudi, 2012.
[10] Wolfgang Steeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, 2013.
[11] “Industria 4.0, il piano del Governo e la mappatura delle imprese”, Bollettino Adapt del 26 settembre 2016.
[12] “Lavoro, vera sfida di Industria 4.0”,  Bollettino Adapt del 3 ottobre 2016.

[13] G. Dosi, M. Pereira, A. Roventini, M. E. Virgilio, Causes and Consequences of Hysteresis: Aggregate Demand, Productivity and Employment, Cause e Conseguenze dell’Isteresi, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Laboratory of Economics and Management, febbraio 2017.

[14] Andrea Cefis, Technology at Work. The Future of Innovation and Employment, di Frey e Osborne, Oxford Martin School, 2016.
[15] Quando il tempo è galantuomo. Scritti scelti di Marco Biagi, Edizioni Lavoro, 2008.
[16] James Bessen, “Automation and jobs: when technology boosts employment”, Boston University School of Law, paper n. 17-09, 2017.
[17] G. Cazzola, Il progresso tecnologico non uccide il lavoro ma lo trasforma, in Bolletino Adapt, marzo 2017.
[18] A. Di Majo, Struttura economica e struttura tributaria :il prelievo sulle imprese in AA.VV., Il sistema tributario oggi e domani, F. Angeli 1986, anche in Temi di discussione del servizio studi della Banca d'Italia , n.59, 1986, pp.1-100.

Nessun commento: