Istruzione. Grande assente
nella campagna elettorale
Il tema
dell'istruzione sembra non essere contemplato nella campagna elettorale
italiana e il dibattito internazionale sul valore dell’istruzione non la
sfiorerebbe
È un tema
che ci coinvolge tutti in quanto prima a poi siamo stati studenti , genitori di
allievi e anche docenti. Abbiamo, poi, metabolizzato che una delle ragioni
della bassa produttività in Italia riguarda la scarsa accumulazione di capitale
umano (e, quindi, di istruzione e formazione , soprattutto nelle specifiche
aree di sviluppo di un’economia sempre più complessa). Molti di noi sanno anche
che il “capitale sociale”(interrelazione tra persone ed istituzioni,
comportamenti virtuosi, regole condivise ) è un vero fondamento del viver
civile ma non si crea, e soprattutto, non si arricchisce, se manca il capitale
umano. Eppure, l’istruzione, a tutti i livelli ed in tutte le forme, sembra
essere il grande assente della campagna elettorale. Anche perché il dibattito
internazionale sul valore dell’istruzione (a cui The Economist in
edicola dal 3 febbraio ha dedicato un servizio speciale) sembra non sfiorare la
Penisola.
L’analisi
del settimanale britannico riguarda principalmente l’istruzione universitaria e
tra i suoi punti di riferimento c’è un libro recente di Bryan Caplain
della George Mason University, nei pressi della capitale degli Stati Uniti, con
un titolo che è una vera provocazione The Case against Education , il caso
contro l’istruzione (universitaria) in cui si stima che il rendimento di
quattro anni d’istruzione universitaria varia dal 6,5% per i più dotati e più
forti all’1% per i più deboli. Per l’Italia che io sappia mancano stime
recenti: a metà degli anni ottanta, il rendimento per chi si era laureato in
corso e trovava un impiego dopo un breve lasso di tempo superava il 10%, ma già
allora era molto più basso per la collettività, su cui gravava l’alto tasso di
abbandoni (tra il 30% ed il 40% di coloro che si iscrivono al primo anno) e il
forte numero dei “fuori corso”. Oggi le università italiane ospitano circa un
milione e settecentomila studenti (quando ero studente eravamo meno di trecento
mila).
Quanti di
essi termineranno i corsi di studio in tempo? Quanti seguono indirizzi per cui
ci sarà una domanda sul mercato del lavoro? Per quanti il “pezzo di carta” non
è solamente un biglietto da visita per potere avere accesso ad occupazioni che
sino ad una ventina di anni fa venivano svolte da persone con unicamente
un’istruzione superiore? Questi interrogativi dovrebbero essere posti in una
campagna elettorale per sollecitare risposte dalle forze politiche su cosa
programmano in caso di vittoria elettorale.
Un ausilio importante è stato portato (ma pochi se ne sono accorti), per l’istruzione tecnico professionale . È il rapporto La transizione dai percorsi scolastici al mondo del lavoro per i diplomati degli istituti tecnici professionali. Un’analisi delle banche dati amministrative, realizzato da Fondazione Agnelli e CRISP – Università di Milano Bicocca, col supporto operativo dell’Ufficio statistico del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) e della Direzione Generale dei Sistemi Informativi, dell’Innovazione Tecnologica e della Comunicazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (MLPS). Il rapporto, che è stato presentato il primo febbraio evidenzia che il 28% dei diplomati tecnici e professionali italiani ha lavorato per almeno sei mesi nei primi due anni dopo il titolo, con significative differenze territoriali. Quasi altrettanto consistente (27,4%) è però la quota dei NEET, ossia di chi non risulta coinvolto in percorsi di formazione universitaria né ha avuto rapporti di lavoro. A due anni dal diploma metà dei lavori è di tipo permanente (27,6 % a tempo indeterminato, 22,2 % apprendistato), ma più della metà dei diplomati svolge lavori non coerenti con gli studi compiuti. Lo svantaggio delle ragazze sul mercato del lavoro anche in questo caso è confermato, così come quello dei diplomati di origine straniera; per contro, chi ha un percorso di studi regolare è avvantaggiato in termini occupazionali.
Un ausilio importante è stato portato (ma pochi se ne sono accorti), per l’istruzione tecnico professionale . È il rapporto La transizione dai percorsi scolastici al mondo del lavoro per i diplomati degli istituti tecnici professionali. Un’analisi delle banche dati amministrative, realizzato da Fondazione Agnelli e CRISP – Università di Milano Bicocca, col supporto operativo dell’Ufficio statistico del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) e della Direzione Generale dei Sistemi Informativi, dell’Innovazione Tecnologica e della Comunicazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (MLPS). Il rapporto, che è stato presentato il primo febbraio evidenzia che il 28% dei diplomati tecnici e professionali italiani ha lavorato per almeno sei mesi nei primi due anni dopo il titolo, con significative differenze territoriali. Quasi altrettanto consistente (27,4%) è però la quota dei NEET, ossia di chi non risulta coinvolto in percorsi di formazione universitaria né ha avuto rapporti di lavoro. A due anni dal diploma metà dei lavori è di tipo permanente (27,6 % a tempo indeterminato, 22,2 % apprendistato), ma più della metà dei diplomati svolge lavori non coerenti con gli studi compiuti. Lo svantaggio delle ragazze sul mercato del lavoro anche in questo caso è confermato, così come quello dei diplomati di origine straniera; per contro, chi ha un percorso di studi regolare è avvantaggiato in termini occupazionali.
Per la prima
volta l’indagine non è stata svolta su base campionaria e con rilevazioni ad
hoc, ma è partita da un aggancio sistematico e censuario dei dati contenuti in
due archivi amministrativi: l’Anagrafe Nazionale degli Studenti (ANS) del
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, che contiene gli
esiti scolastici dei diplomati, e le Comunicazioni Obbligatorie (CO) del
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (MLPS). Può quindi essere una
buona base di partenza per delineare politiche nel comparto.
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