lunedì 17 ottobre 2016

‘“Un ballo in maschera” bello perché al servizio di Verdi in Avvenire 18 ottobre



“Un ballo in maschera” bello perché al servizio di Verdi
GIUSEPPE PENNISI
ROMA
La nuova produzione del verdiano Un ballo in maschera, che ha debuttato domenica all’Opera di Roma e resterà in scena sino al 30 di questo mese, si distingue da altri allestimenti recenti per due aspetti importanti.
In primo luogo, l’azione non è collocata, come di consueto, in un mitico quanto improbabile “governatorato di Boston” (artificio per superare i veti delle varie censure che nel 1858-59 non accettavano un regicidio in scena), ma nella Svezia della fine del Settecento, quando, in seguito ad una congiura di palazzo, avvenne l’assassinio di Gustavo III durante una festa. Il regista Leo Muscato e i suoi collaboratori (Federica Parolini per le scene Silvia Aymonimo per i costumi) hanno fatto questa scelta non solo perché la produzione è coprodotta con l’Opera di Malmö o in quanto in numerosi Paesi dell’Europa centrale e negli Stati Uniti si opta per l’ambientazione svedese ma anche per ragioni musicali. In secondo luogo, infatti, come nota il musicologo Roger Parker, la struttura musicale di Un ballo in maschera è un’abile e riuscita fusione di due stili: il melodramma italiano ed il grand opéra che Verdi aveva assaporato nella sua opera precedente, Les Vêpres Sicilienne. Del grand opéra, Verdi utilizza l’orchestrazione complessa (sin dal breve preludio in cui vengono intrecciati i temi del primo quadro) sia le voci di coloratura (non solo per il paggio Oscar ma anche per il tenore protagonista che impersona Gustavo III). Dal melodramma, il soprano drammatico (Amelia) e il mezzosoprano-contralto (Ulrica). In due momenti dell’opera (il confronto tra il Re e Ulrica al primo atto, e la “scena della risata” al termine del secondo atto) i due stili si fondono naturalmente, senza quasi intermediazione da parte di Verdi. Questi aspetti drammaturgici e musicali sono messi in risalto più e meglio che in altri allestimenti recenti (ad esempio quello curato da Damiano Michie-letto per la Scala e per il Teatro Comunale di Bologna). La concertazione è affidata a Jesús López- Cobos, il quale non solo cura l’equilibrio tra palcoscenico e buca ma mette in risalto la ricchezza dell’orchestrazione, l’uso del contrappunto e dei “motivi conduttori” mnemonici (per ricordare situazioni ed eventi, molto distanti da quelli che in quel periodo stava sviluppando Richard Wagner). Il coro, diretto da Roberto Gabbiani, ha un ruolo da protagonista e interviene sapientemente nell’azione al primo e al terzo atto.
Franceso Meli (più volte applaudito a scena aperta) è un maturo e abile Riccardo; dal suo debutto nel ruolo la voce si è leggermente spessita ma la sua coloratura e i suoi legati sono rimasti bellissimi per chiarezza, trasparenza e capacità di tenere a lungo note difficili (dal sì naturale al do). Serena Gamberoni (moglie di Francesco Meli nella vita) è un Oscar frizzante e pieno di agilità non solo vocale ma anche scenica. Hui-Hue è un’Amelia altamente drammatica (come sono numerosi soprani verdiani dalla seconda parte de
La traviata in poi) e Dolores Zaijick (classe 1952), Ulrica, al passare degli anni, ha arricchito il proprio registro sino a scendere a livello da contralto. Simone Piazzola (Anckaström) è, come sempre un ottimo baritono verdiano.
Teatro pieno e pubblico entusiasta.
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All’Opera un nuovo allestimento aderente, nella regia di Leo Muscato e nella direzione di López-Cobos, a drammaturgia e scrittura che mescolano tradizione italiana e francese. Ottimi Meli e il resto del cast
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Un ballo in maschera (Yasuko Kageyama)
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