Per rilanciare l’economia
servono i progetti o gli investimenti?
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La legge di
bilancio pone una certa enfasi sull’investimento pubblico; nel contesto è stato
ritirato fuori anche il Ponte sullo Stretto di Messina. Non che manchi la
necessità ed anche l’urgenza di rimettere in sesto l’infrastruttura in Europa
ed anche in Italia. Per non parlare degli stessi Stati Uniti. Tuttavia, recenti
dati sui risparmi mondiali e sui flussi di capitale propongono un problema già
sollevato su questa testata oltre un anno e mezzo fa al momento del varo, tra
tante attese, del ‘Piano Juncker’: il nodo è la disponibilità di risparmi o di
progetti oppure ancora le banche di sviluppo (o ‘promozionali’) hanno
difficoltà nell’incanalare risparmi verso progetti, quello che dovrebbe essere
la loro funzione essenziale?
I tassi
d’interesse sono arrivati a livelli che, per un periodo così lungo, non
toccavano dalla fase successiva alla scoperta dell’America, quando oro, argento
ed altre ricchezze provenienti dal Nuovo Mondo scatenarono la prima grande
deflazione mondiale ed il declino dei Borboni di Spagna, il cui Imperatore
Carlo V poteva dire “sul mio Impero splende sempre il sole”. Lo documentano i
principali testi di storia economica e monetaria, lo studio monumentale di Sydney
Homer e Richard Sylla A History of Interest Rates.
I bassi
tassi di interesse sono di per stesso un’indicazione di abbondanza relativa di
risparmi rispetto ai progetti realizzabili. Una stima recente pone ad 1,2
milioni di dollari il saving glut, la sovrabbondanza di risparmi a livello
mondiale rispetto agli investimenti fattibili. Secondo un’altra stima, basata
su dati del Fondo monetario internazionale, negli ultimi 24 mesi ben 750
miliardi di dollari, sono affluiti negli Stati Uniti dal resto del mondo: circa
500 miliardi vengono da operatori finanziari europei e asiatici che acquistano
prevalentemente obbligazioni (titoli di stato Usa o emissioni di grande imprese
come la General Electric e l’Ibm) mentre gli altri 250 miliardi sono
principalmente fondi di operatori americani che ritornano a casa dati i bassi
tassi d’interesse (e gli ancora più bassi rendimenti) in Europa.
Queste cifre
sollevano numerosi dubbi rispetto alle politiche europee (ed italiane) in
materia di investimenti a lungo termine: nonostante circa sei anni fa, le
banche di sviluppo e promozionali del continente abbiano creato un Long Term
Investment Club per coordinare la loro azione a favore d’investimenti a lungo
termini, i frutti della loro azione ancora non si vedono. In Italia dal lontano
1999 è stato creato un apposito fondo per la progettazione, pochissimi
operatori si sono rivolti allo strumento per tradurre idee, spesso vaghe ed
approssimative anche se non sempre cattive, in progetti effettivamente
cantierabili e realizzabili. Il savings glut ed i flussi di investimenti verso
gli Stati Uniti hanno indubbiamente determinanti più vaste (quale le incertezze
delle tensioni politiche ed economiche in Cina ed in Estremo e Medio Oriente e
i dubbi che la Brexit non abbia segnato l’inizio di un graduale spappolamento
dell’Unione Europea).
La mancanza
di una platea di progetti adeguatamente preparati (con computi metrici
dettagliati) e che abbiano superato tutte la procedure amministrative e siano
stati affidati in seguito a gare ben fatte è una determinante su cui poco si è
posto l’accento. È comunque una delle concause del fatto che i risparmi
degli europei viaggino alla volta degli Usa anche per contribuire
all’ammodernamento delle infrastrutture americane piuttosto che al miglioramento
di quelle europee. La normativa Facta (approvata dall’Italia) è un chiaro
incentivo a fare diventare gli Stati Uniti un magnete potente (e forse anche un
paradiso fiscale)
È tema su cui merita riflettere.
È tema su cui merita riflettere.
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