OPERA/ Jenǚfa di Leós Janáček a Palermo
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Jenufa in scena
a Palermo
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OPERA/ Jenǚfa di Leós Janáček a Palermo
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Non è la prima volta che a Palermo viene messa in scena Jenufa
primo di sette capolavori che rappresentano la produzione operistica di Leós
Janácek, il quale solo a cinquanta anni iniziò a comporre per teatri e sale di
concerto. Jenufa, in prosa, basata su un romanzaccio popolare, innovò
profondamente nel teatro musicale, con la fusione perfetta tra parola e musica
ed una partitura in gran misura fatta di cellule musicali e di
frammenti emotivi che si fondono a perfezione con il parlato in prosa; lo
scrittura orchestrale e vocale richiede, accanto alla tenuta d’insieme,
virtuosismo da parte dei singoli strumenti.
Nel 1979, un compagnia morava la aveva portata, con
grande successo critico al Politeama (il Teatro Massimo era chiuso per
restauri). Anche in Patria aveva incontrato difficoltà: Janácek, era un
professore di conservatorio in una città di provincia, Brno, pur se
capoluogo della piccola Moravia, e ad età considerata tarda si affacciava
al’opera lirica.
La prima di Jenufa era avvenuta in una sala
allestita alla buona nel maggior caffè-concerto di Brno: la partitura era stata
respinta dal Teatro Nazionale di Praga, dove venne rappresentata solo nel 1916,
dopo forti rimaneggiamenti imposti dalla censura. Diventò un successo mondiale
in seguito alla rappresentazioni a Vienna nel 1918, nella traduzione di Max
Brod in tedesco (lingua in cui le opere di Janácek sono state eseguite per
decenni, al fuori della Moravia).
Non che la forte carica innovativa non fosse apprezzata dagli specialisti:
in un saggio del 1957, Massimo Mila ha scritto che egli stesso, Gianandrea
Gavezzani e Fedele D’Amico “avevano dato l’allarme: siamo alla presenza di un
grande, una specie di Mussorgskij moravo, con in più le esperienze musicali
recenti, da Strauss all’espressionismo, fino ai confini della crisi atonale”.
Negli Anni Cinquanta, Mila ha anche detto: “se Janácek fosse stato francese,
oggi sarebbe importante e famoso quanto Ravel”.
Tuttavia, solo negli Anni Settanta, le sue opere vengono rappresentate
pure al di fuori dei pochi enti lirici principali della Penisola, giungono nel
circuito lombardo ed in quello emiliano-romagnolo, arrivano nei teatri
siciliani. Unicamente negli Anni Ottanta e Novanta, vengono eseguite in moravo
(con l’ausilio essenziale dei sopratitoli) ed in edizioni critiche frutto,
principalmente, delle fatiche attente ed appassionate di Sir Charles Mckerras.
Adesso, anche in Italia Janácek è riconosciuto, con Strauss e Britten, tra i
tre massimi autori del teatro musicale del Novecento; i suoi lavori vengono
programmati abbastanza regolarmente dalle nostre fondazioni liriche.
Pure in Patria, il successo è stato tardivo: Jenufa
- si è detto - è stata allestita in modo approssimativo a Brno (al cui
conservatorio insegnava) quando Janácek aveva cinquant’anni ed, in forma
mutilata, a Praga quando ne aveva quasi 62. Le difficoltà erano di natura
estetica.
In una piccola Nazione (la Moravia) di quello che allora era un
grande Impero, la corrente di moda della musica “colta” guardava al passato:
una combinazione di nazionalismo e di wagnerismo. Janácek, invece, voltava le
spalle al ceppo tedesco e si rivolgeva al mondo slavo, a Mussorgskij , alla
musica contadina. Rifiutava il verso: come, dopo di lui, Berg e Poulenc, optava
per una prosa in cui la musica e la parola fossero fuse; tagliava drasticamente
i drammi in modo che i tre atti rituali fossero contenuti in non più di 90
minuti complessivi; prendeva a prestito le tecniche di quello che allora era la
nuova forma di spettacolo.
Queste difficoltà di natura estetica nell’Europa centrale della
prima parte del secolo scorso - ancora più forti, quindi, in un’Italia dove
dominava il “verismo” - sono anche alla base del successo che Janácek ha oggi
pure con il pubblico più giovane. L’espressionismo janácekiano esce dal
romanticismo e dal post-romanticismo, nonché dal wagnerismo di maniera, grazie
ad una struttura musicale fondata sull’alternanza di frammenti differenti e
contradditori nello stesso movimento (nonché insistentemente reiterati come
avverrà più tardi nella musica dodecafonica), con l’inserimento di abbandoni
lirici unicamente in certi momenti specialmente liberatori (si pensi alle scene
conclusive di Jenufa ).
Anche i tempi ed i metri si alternano con frequenza insolita,
rompendo con l’unità emotiva dei movimenti della musica dell’Ottocento. Infine,
come sottolinea il suo compatriota Milan Kundera (che meglio di molti di noi
più apprezzare l’impasto tra vocali, consonanti e note), la coesistenza di più
emozioni contraddittorie in spazi limitatissimi crea una semantica
originale in cui si hanno, parallelamente, “la inattesa contiguità delle
emozioni” e la “polifonia delle emozioni”
Ma andiamo allo spettacolo .
E’ ‘la prima’ italiana di una produzione di Robert Carsen e
Patrick Kinmonth (scene e costumi). Si differenzia da altre
versioni viste in questi ultimi anni in Italia (Trieste, Spoleto, Scala, San
Carlo, Bologna) perché l’azione viene portata agli anni quaranta del
secolo scorso; anche allora si sentivano nel sottofondo rulli di guerra come
nel 1904. Una serie pannelli a forma di porte trasformano la scena nella
piazza del villaggio, nella casa della Secrestana e nella scena nuda
dell’arioso finale. Sono porte in cui dal di fuori la comunità farisea assiste
e commenta il dramma: un fattaccio di rivalità di due fratelli per amore della
protagonista, figliastra della sacrestana del villaggio, imperniato su un
infanticidio attuato paradossalmente per amore. La pietà ed il perdono di Dio
sono l’elemento fondante.
Eccellente l’esecuzione musicale. Gabriele Ferro e
l’orchestra del Massimo (che ha un ottimo livello) rendono incisivo il lavoro,
utilizzando sapientemente di ‘ostinati’ di Janácek, insistenti, incalzanti e le
‘figurazioni’ discendenti e ruotanti; ossessivi e primi ed implacabili le
seconde. Sino allo scioglimento finale, l’arioso del perdono.
Di livello tutte le voci (i numerosi comprimari agiscono da coro),
specialmente Ángeles Balcan Gulín (la Sacrestana), Andrea Danková (Jenufa),
Peter Berger (Laça) e Martin Šrejma (Steva).
Teatro pieno, per un lavoro che mancava da Palermo da circa 40 anni. Molti giovani. Pubblico entusiasta.
Teatro pieno, per un lavoro che mancava da Palermo da circa 40 anni. Molti giovani. Pubblico entusiasta.
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