L’opera
Jenüfa arriva al Teatro Massimo di Palermo
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Jenüfa di Leoš
Janácek è in scena al Teatro Massimo di Palermo dal 23 ottobre al
2 novembre in coproduzione con il Teatro di Anversa. Si tratta di una delle più
importanti opere del Novecento. Di solito Jenüfa, che debuttò a
Brno in Moravia nel 1904 ma giunse in Italia solamente decenni dopo la Seconda
Guerra Mondiale, viene presentata come il drammone verista da cui è
tratta. In un villaggio della Moravia all’inizio del Novecento, la bella Jenüfa, figliastra
della Sacrestana, è corteggiata dall’aitante Steva, chi, dopo averla
messa incinta, l’abbandona. Ne è innamorato (e continua ad esserlo,
pur dopo essere messo a conoscenza dello stato della ragazza), il fratellastro
di Steva, Laça. Per far sì che Laça non desista da propositi
matrimoniali, la Sacrestana fa morire il neonato esponendolo al freddo.
L’infanticidio viene scoperto proprio durante la festa di nozze tra
Jenüfa e Laça, il quale si stringe ancora di più alla moglie, aiutandola a
cercare speranza e riscatto, nonostante la riprovazione della società che li
circonda.
Per Leoš Janácek, autore tanto
del testo quanto della musica, Jenüfa rappresentò, a circa 50 anni
d’età, l’opportunità di scavare nella complessità dell’animo umano e di
innovare profondamente nella scrittura musicale. Furono necessari dodici anni
(e l’entusiasmo dell’intellettuale tedesco Max Brod) perché da un teatro
di provincia, quello di Brno, il lavoro raggiungesse l’opera nazionale di Praga
e, quindi, i maggiori palcoscenici tedeschi e Londra. Solo dopo
fu considerato uno dei maggiori capolavori del Novecento.
Scava nell’animo umano
principalmente entrando nella psiche più profonda dei tre protagonisti (la
Sacrestana, Jenüfa e Laça); Steva è un immaturo gaglioffo e la borghesia del
villaggio (dal sindaco al prete) un contrappunto di uomini e donne piccoli
piccoli. Lo fa presentando in scena ciò che nessuno (neanche del più
granguignolesco verismo italiano) portando sul palcoscenico il dramma di una
ragazza madre e della matrigna (la Sacrestana) che più desidera il suo bene. La
soluzione è nella trascendenza: lo si avverte nello struggente Salve Regina del
secondo atto e ancor più nel sorprendente grande arioso finale.
Tanto più sorprendente in quanto
nei 90 minuti precedenti non c’è stata né un’aria né un duetto né un
concertato. Il libretto è in prosa e i versi e la scrittura musicale sono un
mosaico di frammenti emotivi, spesso contraddittori, che si scompongono e
ricompongono in continuazione, fondendosi con il parlato in quanto ogni nota ed
ogni registro è plasmato sulla parola.
A Palermo da domenica si vedrà in
prima nazionale nell’interpretazione di Robert Carsen in un allestimento
di ambientazione contemporanea. In una scena spoglia, dove il suolo in terra
battuta, ci parla con immediatezza della campagna in cui si svolge l’azione,
dominano le grandi finestre e porte che fisicamente rappresentano il villaggio
e che vengono spostate a comporre i vari ambienti dell’opera. Partendo dal
fatto che la gravidanza di Jenüfa viene tenuta nascosta a tutti per mesi perché
la matrigna rinchiude la ragazza in casa, Carsen ci mostra il voyeurismo degli
abitanti: dalle finestre si vedono occhi che scrutano, dalle porte si
affacciano curiosi, non esistono pareti solide ma solo aperture che possono da
un momento all’altro cedere alla pressione esterna e rendere pubblico ciò che
era privato.
Un’opera corale, in cui ai
protagonisti si affiancano una moltitudine di personaggi secondari ma non per
questo meno importanti, dal sindaco con moglie e figlia fino al pastorello
analfabeta, che nella regia di Carsen ricevono ciascuno la giusta attenzione.
Elemento fondamentale è poi l’acqua: l’acqua gelida del fiume in cui Kostelnička
va a gettare il bambino per permettere alla figliastra di sfuggire alla
vergogna e alla riprovazione del villaggio e consentirle di sposare Laca che ne
è innamorato, il ghiaccio che restituirà il cadaverino proprio durante le nozze
di Jenüfa, ma anche la pioggia dorata redentrice che in ultimo abbraccia la
coppia dopo tante sofferenze: il ghiaccio si è definitivamente sciolto, l’acqua
è di nuovo simbolo di vita, della nuova vita di Laca e Jenüfa.
La novità della composizione sta
nello stile musicale, che oltrepassa il modello del dramma wagneriano dei Leitmotive:
infatti non troviamo più lo sviluppo di temi conduttori ma elaborazioni di
semplici cellule, che ritornano all’interno dell’opera con delle continue
variazioni, mai uguali. “Janácek studiò le inflessioni della
lingua ceca, ricercandone la musicalità. Il nuovo linguaggio musicale che ne
deriva è funzionale alla drammaturgia, poiché permette di mettere in luce la
sonorità della sua lingua natia e lo spessore psicologico dei personaggi che,
attraverso le inflessioni del parlato, esternano sentimenti e mutamenti di
stati d’animo. L’orchestra, assecondando le cadenze del parlato e sostenendo le
voci, non fa da sfondo ai dialoghi ma diviene protagonista”, come scrive
Silvia Augello nella sua introduzione all’opera.“Jenüfa è un’opera
sospinta dal vento furioso di una musica tutta figurazioni discendenti o
ruotanti su se stesse in modo implacabile, come se la musica mimasse lo stesso
flusso inarrestabile della vita”, scrive Franco Pulcini nel
programma di sala. Janácek abbandona la citazione diretta delle canzoni
popolari e reinventa il folclore. Il cast include, nei ruoli principali, Ángeles
Blancas, Gulín Andrea Danková, Peter Berger e Martin Šrejma.
21/10/2016
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