Opera
Jenufa, il dramma E poi il perdono
PALERMO
In un villaggio della Moravia all’inizio del
Novecento, la bella Jenufa, figliastra della Sacrestana, è corteggiata
dall’aitante Steva, che, messala incinta, l’abbandona. Il fratellastro di
Steva, Laça, ne è innamorato (e continua ad esserlo pur al corrente dello stato
della ragazza). Per far sì che Laça non desista dai propositi matrimoniali, la
Sacrestana, madrigna di Jenufa, fa morire il neonato esponendolo al freddo.
L’infanticidio viene scoperto proprio durante la festa di nozze tra Jenufa e
Laça, il quale si stringe ancora di più alla moglie, aiutandola a cercare
speranza nonostante la riprovazione della società che li circonda. Nel grande
arioso finale, perdonano insieme la Sacrestana infanticida e il gretto mondo
del villaggio che, invece, sembra condannare tanto l’anziana quanto i tre
giovani.
La coppia è perdonata dall’Alto. Per Leos
Janácek, autore tanto del testo (tratto da un romanzo popolare) quanto della
musica, Jenufa «rappresentò l’opportunità di
scavare nella complessità dell’animo umano e di innovare profondamente nella
scrittura musicale. Furono necessari 12 anni (e l’entusiasmo dell’intellettuale
tedesco Max Brod) perché da un teatro di provincia (quello di Brno), il lavoro
raggiungesse l’opera nazionale di Praga e, quindi, i maggiori palcoscenici
tedeschi e Londra, per essere considerato uno dei capolavori del Novecento.
In Italia, arrivò alla Biennale veneziana del
1941. Il dramma è incentrato nel confronto tra due donne (entrambe soprano,
anche se di differente tessitura): l’austera, altera e lucida ma tormentata
Sacrestana e la passionale figliastra: ambedue sono riscattate dalla preghiera,
Jenufa dall’Ave Maria del primo atto e dal
Salve Regina del secondo; la matrigna dall’invocazione a
Dio con cui inizia il secondo atto e dalla richiesta di comprensione e perdono
all’Alto nel terzo. A un passo di distanza, il confronto tra due uomini
(entrambi tenori, pur se di differente timbro e registro): Laça nevrotico e
passionale come Jenufa e Steva, ragazzaccio amorale. Nel fondale, la gretta
società morava. Nei cento minuti dei tre intensissimi atti, la partitura è in
gran misura fatta di cellule musicali e di frammenti emotivi che si fondono a
perfezione con il parlato in prosa; la scrittura orchestrale e vocale richiede,
accanto alla tenuta d’insieme, virtuosismo da parte dei singoli strumenti. Lo
spettacolo di Robert Carsen, nato ad Anversa, giunge per la prima volta in Italia.
Si differenzia dalle versioni viste nove anni fa alla Scala e l’anno scorso a
Bologna (per non citare che le più note). Con Patrick Kinmonth (scene e
costumi), Carsen porta l’azione agli anni Quaranta o Cinquanta del secolo
scorso. La scena, unica, sono pannelli a forma di porte che si trasformano
nella piazza del villaggio, nella casa della Secrestana e nella scena nuda
dell’arioso finale.
Sono porte in cui dal di fuori la comunità
farisea assiste e commenta il dramma. Molto buona l’esecuzione musicale. Il
direttore Gabriele Ferro e l’orchestra del Massimo (che ha un ottimo livello)
rendono incisivo il lavoro, utilizzando sapientemente da “ostinati” di Janácek,
le “figurazioni” discendenti e ruotanti. Sino allo scioglimento finale,
l’arioso del perdono. Di livello tutte le voci (i numerosi comprimari agiscono
da coro), specialmente Ángeles Balcan Gulín (la Sacrestana), Andrea Danková (
Jenufa), Peter Berger (Laça) e Martin Šrejma (Steva). Teatro pieno, per un
lavoro che mancava da Palermo da circa 40 anni. Molti giovani. Pubblico
entusiasta.
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Al Massimo di Palermo tutto esaurito per la
prima nazionale del capolavoro di Janácek Regia di Carsen Sul podio Gabriele
Ferro. Di livello tutte le voci
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