giovedì 6 ottobre 2016

Che succede allo spread? in Formiche 7 ottobre



Che succede allo spread?

AddThis Sharing Buttons
Share to WhatsAppShare to TwitterShare to FacebookShare to Google+Share to LinkedInShare to E-mail
Che succede allo spread?
Il commento dell'economista Giuseppe Pennisi
Parafrasando il titolo di una divertentissima commedia di Achille Campanile (Ma che cosa è questo amore?) occorre chiedersi che cosa è questo spread? Ha raggiunto 140 punti rispetto al Bund tedesco, ma, quel che più conta, supera di quaranta punti (sempre rispetto al Bund) il Bono spagnolo, ossia il titolo di Stato principale di un Paese privo di un Governo da dieci mesi e considerato non solo a reddito pro capite inferiore al nostro, ma anche con un parco infrastrutturale peggio messo del nostro e con la parte più avanzata sempre pronta alla recessione.
Uno spread elevato rispetto alle obbligazioni ritenute più solide dell’eurozona – ricordiamolo – significa poco appetito per i nostri titoli, mentre uno basso vuol dire che i money managers corrono appresso alle emissioni del nostro Tesoro. In parole povere, uno spread elevato è indice di salute cagionevole, mentre uno basso vuol dire che si è in piena forma.
L’aumento dello spread e il confronto con la Spagna hanno accesso un animato dibattito on line tra economisti. Un dibattito con forti colorazioni politico-referendarie. Secondo alcuni colleghi l’incremento dello spread sarebbe almeno in parte responsabilità dei sondaggisti che danno il no in vantaggio e mostrerebbe la grave crisi di fiducia dei mercati internazionali (nei confronti dell’Italia) in caso di sconfitta del sì. Occorre, quindi, “stringersi a coorte” e far sì che tutti i media (proprio tutti) supportino le revisioni della Costituzione proposte del Governo. Secondo altri, invece, l’aumento (peraltro non fortissimo) dello spread vorrebbe dire che i mercati hanno già metabolizzato la sconfitta del sì e non si agiteranno più di tanto se ciò si verificasse.
Cerchiamo di porre un po’ d’ordine. In primo luogo, l’aumento dello spread nelle settimane precedenti il referendum era atteso, come si è più volte sostenuto su questa testata, perché il referendum è stato caricato di tali personalismi e di tale emotività da trasformarlo quasi in un plebiscito sulla vita e la morte del Paese. Forse, se si fosse riflettuto sul fatto che una parte importante delle proposte di riforma riguarda l’annullamento di gran parte della riforma costituzionale del 2001, e che dopo il fallimento del referendum del 2006 nessuno si agita più di tanto, si sarebbe posto il voto del 5 dicembre nella prospettiva appropriata. Sempre che prima di allora fosse stata cambiata una legge elettorale che può dare la maggioranza assoluta del parlamento a chi, al primo turno, ha il 25 per cento del voto popolare. Non aver corretto un combinato disposto tra riforma costituzionale e legge elettorale prima del referendum induce diversi strati dell’elettorato a pensare che, a torto o a ragione, si sta costruendo un’autostrada verso l’autoritarismo.
In secondo luogo, l’aumento dello spread è un giudizio sulla politica economica degli ultimi anni. Presi dalla riforma istituzionale e da provvedimenti come le unioni civili e le droghe leggere, governo e parlamento si sono poco interessati di economia. Il frutto principale è stato il Jobs Act, i cui esiti sono controversi. Sono stati effettuati annunci in materia di istruzione, politica industriale e riassetto del territorio, ma di concreto si è visto molto poco. Nel contempo, nonostante si siano alternati commissari alla spending review, non si è fatto abbastanza in materia di consolidamento di bilancio con il risultato che abbiamo un debito pubblico da far tremare. Ove ciò non bastasse, i dirigenti pubblici sono in rivolta a ragione di una riforma che li porrebbe in balia dei politici di turno, limitando drasticamente la loro indipendenza di giudizio.
Infine, mostriamo produttività piatta e crescita rasoterra, a differenza di una Spagna che ha un debito pubblico sotto controllo ed espone un tasso di crescita del 3 per cento l’anno. In queste condizioni è quasi miracoloso che lo spread sia solo 140. Se continuiamo a cercare di acchiappare le farfalle e non affrontiamo i problemi veri dell’economia, si prospetta una crisi analoga a quella dell’estate–autunno 1992.



Nessun commento: