FINANZA E POLITICA/ Italia, il
pericolo viene dagli Usa
Pubblicazione:
lunedì 31 ottobre 2016
Janet Yellen (LaPresse)
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NEWS Economia e Finanza
Il primo e
il due novembre, nel Palazzone in stile tardo fascista di Constitution Ave.,
N.W., in quel di Washington D.C. (denominazione esatta della capitale degli
Stati Uniti), si riunisce il Comitato federale del mercato aperto (in gergo il
Fomc), la massima autorità monetaria degli Stati Uniti. L’appuntamento
successivo è calendarizzato per 13-14 dicembre. È altamente probabile che in
nessuna di queste due riunioni verranno toccati (ossia aumentati) i tassi di
interesse (ossia il federal fund rate, il tasso per le transazioni
interbancarie “overnight”, di notte e a mercati chiusi, di diretta competenza
del Fomc e, di conseguenza, gli altri).
Il Fomc non
muoverà paglia non per ragioni economiche o finanziarie, ma strettamente
politiche: aumentare i tassi una settimana prima delle elezioni o durante il transition
period, quando il Presidente cede le consegne al nuovo eletto, potrebbe
essere letto come interferenza sulla politica. È altamente probabile, invece,
che la misura venga rinviata alla sessione del 31 gennaio-1 febbraio, dopo
l’insediamento del nuovo inquilino della Casa Banca.
Che si
tratti di un provvedimento non più rinviabile per troppe settimane lo affermano
non solamente i dati sull’andamento interno dell’economia americana
(specialmente quelli sul mercato del lavoro), ma il forte afflusso di capitali
dall’estero verso gli Stati Uniti. In un documento, ancora inedito, per il
Council on Foreign Relations degli Stati Uniti, Brad W. Setser, a lungo
dirigente del Tesoro Usa, riassume studi tecnici sui flussi di capitale entrati
negli Usa negli ultimi due anni.
Si tratta di
ben 750 miliardi di dollari, una cifra pari a circa un terzo del Pil
dell’Italia: circa 500 miliardi vengono da operatori finanziari europei e
asiatici che acquistano prevalentemente obbligazioni (titoli di stato Usa o
emissioni di grande imprese come la General Electric e l’Ibm), mentre gli altri
250 miliardi sono principalmente fondi di operatori americani che ritornano a
casa dati i bassi tassi d’interesse (e gli ancora più bassi rendimenti) in
Europa.
Ancor più
interessante, l’analisi monumentale di Sydney Homer e Richard Sylla A
History of Interest Rates (Whiley Finance 2007), un lavoro che in queste
settimane andrebbe letto e riletto: i due studiosi tracciano la storia di
cinquemila anni di tassi di interesse (dai tempi dei Sumeri a oggi); quella
rilevante è dalla fine del Medio Evo e, soprattutto, dall’inizio del
Rinascimento (quando l’Italia, specialmente Firenze e Siena, dettavano la rotta
in materia di tassi d’interesse). Come mostra il grafico a fondo pagina, i
tassi (in termini sia di tasso di sconto che di rendimento delle obbligazioni)
non sono mai stati così bassi dai decenni successivi alla scoperta dell’America
quando l’afflusso di oro, argento e altri preziosi dal “Nuovo Mondo” provocò
quella che in termini moderni si definirebbe una grande e lunga deflazione.
Kevin A.
Hassett, in uno degli ultimi fascicoli della National Review,
sottolinea, in un editoriale, come ormai la svolta sia imminente. Hassett ne
scava gli aspetti per le politica monetaria americana. Setser si sofferma sul savings
glut (l’eccesso di risparmi rispetto alle possibilità di investimenti) che
a livello mondiale supererebbe 1,2 milioni di miliardi di dollari, il livello
raggiunto (è al tempo stesso un segnale e un avvertimento) alla vigilia della
crisi finanziaria del 2008, quando il glut fu all’origine di
investimenti spericolati (dal subprime lending ai derivati più complessi
e più opachi).
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