Verità e frottole sull’avanzo
commerciale della Germania
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E’ in corso
un animato dibattito sull’avanzo commerciale della Repubblica federale tedesca
e del suo eventuale impiego a fini di sviluppo (anche delle infrastrutture
interne alla Repubblica) al fine di contribuire alla crescita europea,
specialmente dei Paesi, come l’Italia, in serio ritardo (da numerosi anni). Lo
ha innescato lo stesso Presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
E’ materia
sulla quale, come su molte altre, si possono avere idee diverse e divergenti.
Occorre, però, essere chiari su alcuni dati ed elementi essenziali.
In primo
luogo, nessuno articolo del Trattato di Maastricht o degli accordi
intergovernativi ad esso successivi (come il Fiscal Compact) fornisce
obblighi o anche solo indicazioni in materia. Nel novembre 2013, la Commissione
Europea, in seguito ad un dibattito tra Stati Membri ed economisti su
avanzi/disavanzi commerciali nell’unione monetaria (scrisse un documento importante
il compianto Luigi Spaventa, in uno dei suoi ultimi paper), la
Commissione Europea emise una raccomandazione auspicando per l’avanzo di un
Paese dell’eurozona non superi il 4% del Pil. Una raccomandazione non è un mero
suggerimento (come a Roma ed a Napoli si considerano i semafori), ma neanche un
regolamento europeo (che esprime regole) o una direttiva (che contiene
indicazioni). E’, possiamo dire, un invito o poco di più. Non contiene alcuna
sanzione come invece è tipico nei regolamenti e nelle direttive.
In secondo
luogo, il problema degli squilibri commerciali fu nel 1944 al centro delle
discussioni di Bretton Woods. La conclusione fu che in un’economia aperta
unicamente tramite manovre del tasso di cambio (od allineamenti della
produttività) si possono ridurre tale squilibri. Amava ripeterlo Robert
Mundell negli anni in cui la bilancia dei pagamenti americana era in forte
deficit; in effetti, il Ferragosto del 1971 gli Usa effettuarono una
svalutazione massiccia per porre ordine alla bilancia commerciale e ai loro
conti con l’estero. Oggi, una manovra della Germania sul cambio (o
l’introduzione dell’euro aureo come propongono da anni alcuni Stati nordici),
vorrebbe dire una forte svalutazione dei Paesi mediterranei, specialmente
dell’Italia (il cui massiccio debito pubblico è indirettamente e parzialmente
garantito dall’appartenenza all’unione monetaria). A ragione della situazione
delle banche italiane (Mps e relativo contagio su numerosi altri istituti), il
governo si troverebbero in una situazione anche più grave di quella in cui il
governo Amato si trovò nell’estate-autunno del 1992. Con le conseguenze, anche
politiche, che si possono congetturare.
In terzo
luogo, circa la metà dell’avanzo commerciale tedesco è da attribuire a un
numero limitato di grandi ziende ed al loro interscambio con gli Stati
Uniti e l’Asia. Ci vorrebbe un sistema stalinista perché il Governo tedesco
possa indurre queste aziende o a contenere le loro esportazioni oppure a
rivolgere gli utili d’impresa verso investimenti di utilità collettiva oppure
verso gli Stati del Sud Europa oppure ancora verso aumenti salariali. A
riguardo è utile notare che l’inflazione media tedesca dal 1999 al 2016 è
dell’1,4% l’anno in armonia con l’obiettivo Bce di giungere ad un tasso armonizzato
dell’aumento dei prezzi al consumo leggermente inferiore al 2% l’anno.
In quarto
luogo, negli ultimi dodici mesi l’avanzo tedesco è aumentato anche a causa del
deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro, di cui hanno beneficiato pure le
nostre imprese. La ragione di fondo è che la produttività multi fattoriale
della Germania è tra le più alte dell’economia europea, anche a ragione delle
più elevate ore di lavoro annuali degli occupati (e del più basso tasso
disoccupazione). Lo sottolineò Edward Prescott nel 2004 (l’anno in cui
prese il Nobel), chiedendosi come l’unione monetaria potesse sopravvivere senza
una ‘convergenza” delle produttività. Lo ribadisce un lavoro freschissimo di Alexander
Bick (Arizona State University), Bettina Bruggemann (McMaster University)
e Nicola Fuchs–Schundeln (Goethe Univeistaat di Francoforte). In
effetti, numerosi Paesi si sono illusi che entrando nell’unione monetaria
avrebbero acquisito una produttività tedesca senza cambiare,però, prassi di
organizzazione e lavoro. Era un’illusione umana negli anni Novanta.
Perseverare, dopo circa un ventennio in cui si prova il contrario, è
diabolico.
Occorre
aggiungere che ci sono segnali che la politica economica tedesca si sta
orientando verso un modello guidato dalla domanda interna. I dati sono
reperibili su Eurostat e Destatis (l’Istat tedesco). Lo stesso segretario
del Tesoro USA Lew ha detto di recente che la Germania sta reflazionando
la propria economia. Il bilancio a medio termine prevede aumenti spesa
(infrastrutture, ricerca, sicurezza) e Schauble ha promesso ribassi di tasse
per 15 miliardi dopo le elezioni. La crescita economica prevista (1,9 % nel
2016, 1,7 % nel 2017 e 2,2% nel 2018) è trainata dalla domanda interna. I
salari e le pensioni dopo i rinnovi contrattuali crescono del 5%.
Cosa
vogliamo di più? Invece di intonare geremiadi, pensiamo piuttosto a migliorare
la nostra produttività in ristagno da oltre tre lustri.
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