Che legame c’è fra assetti
istituzionali e andamenti dell’economia?
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Il commento
dell'economista Giuseppe Pennisi
Alla
Università Johns Hopkins, che io frequentavo a Washington, il professore di
economia internazionale, Isaiah Frank, sempre molto formale, si accomiatava
dalla classe, al termine della lezione, con un Arrivederci Signori Studenti…
Non fatevi mai illusioni.
La frase mi
è tornata in mente in questi giorni in materia della interpretazioni, più varie
e più distanti, a proposito dei dati forniti dall’Istat sull’andamento
dell’economia. Non sono dati congiunturali perché ormai da anni l’Italia è in
una fase di crescita o negativa o molto prossima allo zero, la capacità di
produzione industriale è diminuita del 25% circa, la disoccupazione resta tra
le più alte in Europa (nonostante i benefici di brevissimo periodo forniti da
forti incentivi a convertire contratti di vario tipo nella tipologia di
rapporti di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti), il debito
pubblico cresce sia in valore assoluto sia in rapporto al Pil, pare sempre più
arduo raggiungere gli obiettivi di equilibrio strutturale di bilancio che
avremmo dovuto raggiungere nel 2014.
Non mi
faccio illusione. Non credo che un po’ di flessibilità (in termini di
rapporto indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e Pil) che forse
ci verrà concessa dalle autorità europee potrà fare da volano a un andamento
dell’economia scoraggiante.
Le determinanti
sono molteplici: una popolazione che invecchia, un apparato produttivo obsoleto
(a parte alcune “eccellenze”), un ceto imprenditoriale sostanzialmente
immobile, una specializzazione produttiva assuefattasi a periodiche
svalutazioni competitive (prima dell’avvento dell’unione monetaria). Su queste
ed altre determinanti si discute da anni e sono stati presentati studi
pregevoli.
Non si
parla, però, di una determinante che si è aggiunta negli ultimi due anni:
l’incertezza correlata al futuro istituzionale del Paese. L’incertezza è stata
tanto maggiore in quanto il progetto di riforma costituzionale (da essere,
peraltro, convalidato per referendum) ha numerosi aspetti controversi, e si
accompagna ad una legge elettorale ancora più controversa. Ambedue sono stati
approvati da un Parlamento in cui il partito vincente ha avuto alle ultime
elezioni circa il 25% dei suffragi e grazie ad una manciata di voti si è
assicurato la maggioranza dei seggi alla Camera dei Deputati. Quindi si tratta
non di riforme condivise ma tali, al contrario, da dividere ulteriormente gli
italiani, da aggravare l’incertezza e distogliere l’attenzione dai temi
economici. Un quarto di secolo fa, Douglas C. North ebbe il Premio Nobel con un
breve libro in cui dimostrava che in questi condizioni l’andamento
dell’economia non può essere che deludente.
Ciò vuol
dire che ci sarà una svolta quale che sia l’esito? Non proprio. Mi baso sempre
su North. Se vince il Sì alla grande, ci vorranno almeno cinque anni per
l’apprendimento delle nuove regole. Se vince il Sì di misura, si acuirà il
contrasto tra chi ritiene (a torno o a ragione) che la riforma sia l’esito del
lavoro di un Parlamento delegittimato a causa di un premio di maggioranza
giudicato “abnorme” dalla stessa Corte Costituzionale. Se vince il No, Governo
e Parlamento dovranno trarne le conseguenze.
Arrivederci
Signori Studenti… Non fatevi mai illusioni
05/09/2016
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