Carlo Azeglio Ciampi, il non economista che pilotò
l’economia in bilico fra stagnazione e inflazione
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La prima
leggenda da sfatare è che Carlo Azeglio Ciampi fu un economista, come
scrivono le principali enciclopedie telematiche. Nato a Livorno il 9 dicembre
1920, studiò filosofia alla Scuola Normale di Pisa sotto la guida di Guido
Calogero (un “liberale eretico” che fu tra i fondatori del Partito
D’Azione). Dopo la guerra (e l’attiva partecipazione alla Resistenza) prese, su
impulso della moglie (che temeva un futuro di docente liceale di filosofia) una
laurea in Giurisprudenza e partecipò al primo concorso indetto dalla Banca
d’Italia dopo la liberazione. Iscritto alla Cgil dal giorno in cui varcò il
portone di Via Nazionale al 1980 (quando diventò Governatore dell’istituto),
per circa tre lustri la sua carriera fu principalmente nelle sedi periferiche
della Banca, acquisendo, prima di approdare alla sede centrale nel 1960 ed
assumerne la direzione generale nel 1978. Per diversi anni lavorò all’ufficio
studi, dove con Antonio Fazio e Franco Modigliani contribuì alla
messa a punto di quello che sarebbe diventato il modello econometrico
dell’Italia con il marchio di fabbrica dell’istituto d’emissione. I verbali e
gli appunti (pubblicati una quindicina di anni fa in un pregevole volume di
Vallecchi) mostrano come il suo fu un contributo importante, anche se non da
economista quantitativo, ed ancor meno da econometrico. Il suo ruolo fu quello
di essere l’”avvocato del diavolo” , di sollevare interrogativi e dubbi che
stimolavano Fazio e Modigliani (con l’ausilio di Guido Rey e pochi
altri) a migliorare lo strumento. Dal 1973 assunse via via incarichi sempre più
di taglio organizzativo e manageriale: segretario generale, vice-direttore
generale e infine direttore generale. Gli avvenimenti dell’autunno del 1979,
che portarono all’incriminazione (per reati rivelatisi mai compiuti) del
Governatore Paolo Baffi e del vice direttore generale Mario
Sarcinelli, lo portano alla carica di guida dell’istituto, prima che lo
avesse aspettato, o desiderato.
Come descrive
accuratamente Paolo Peluffo, suo portavoce per circa 15 anni, nel volume
“Carlo Azeglio Ciampi, l’uomo ed il Presidente” (edito dalla Rizzoli) la stella
polare che lo orientò nei suoi anni da Governatore fu la stabilità dell’Italia
guardando a una sempre maggiore integrazione europea. Si trovò a collaborare
strettamente con i governi degli anni ’80 (dominati dalla figura di Bettino
Craxi anche quando quest’ultimo non era a Palazzo Chigi). In quel periodo,
il nodo centrale dell’economia italiana – come documentato in tre libri
collettanei curati da Gennaro Acquaviva – era la riduzione del saggio
d’inflazione (che alla fine degli Anni 70 aveva raggiunto le due cifre),
mantenendo al tempo stesso un livello adeguato di crescita economica. La Banca
d’Italia, guidata da Ciampi, ebbe un ruolo importante, anche se, specialmente
dal 1983 al 1988, la cabina di pilotaggio era chiaramente al terzo piano di
Palazzo Chigi (nell’ufficio del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio
Giuliano Amato). Di particolare rilievo fu la funzione dell’istituto
presieduto da Ciampi nell’attuazione di quegli accordi di cambio europei
(giornalisticamente chiamati, lo Sme) in varie fasi delicate. La Banca
d’Italia, tuttavia, fa tenuta fuori dalla porta nei due momenti cruciali:
l’accordo del Plaza del settembre 1985 su tassi di cambio e crescita economia e
l’accordo del Louvre del febbraio 1987; quest’ultimo l’architrave effettiva di
quella che sarebbe diventata l’unione monetaria europea. Gli anni ’80 si
conclusero con quello che Ciampi considerò uno dei suoi maggiori successi: la
fine delle ultime vestigia dei controlli valutari e l’ingresso della lira nella
fascia stretta (1.5% attorno al tasso di cambio centrale, invece del 3%) degli
accordi di cambio europei. Alcuni economisti, tra cui chi scrive, notò che la
manovra non fu attuata nel modo ottimale e che ne avremo avuto conseguenze
negative: sarebbe stato auspicabile rimuovere gli ultimi controlli valutari,
aspettare alcune settimane e vedere dove si sarebbe situato il cambio della
lira e successivamente entrare nella fascia stretta. In effetti, con il senno
del poi, si può dire che le modalità della manovra posero la lira ad un cambio
sovrapprezzato rispetto a quello delle monete dell’accordo del Louvre (Francia,
Germania, Benelux, Austria), giudicato poco credibile dai mercati al momento
della crisi valutaria del 1992 e quindi tra le componenti sia della
svalutazione del settembre 1992 sia nel 1996 quando rientrammo nello Sme ad un
cambio (quello del dicembre 1989) che forse sopravvalutava la nostra situazione
complessiva rispetto alle altre monete europee- il cambio ormai cementato
nell’euro. Fu quindi una vittoria amara. Con conseguenze che si sentono ancora
oggi.
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