VERDI/ Santa Cecilia: un Requiem imperdibile
Pubblicazione: giovedì 12 novembre 2015
Foto di Riccardo Musacchio
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NEWS ROMA
Nella mia vita di appassionato di
Verdi, non so quanti Requiem ho ascoltato in vari Paesi del mondo, anche
in numerose sale di concerto americane , nonché in Corea ed in Tanzania (nei
diciotto anni in cui lavoravo in Banca Mondiale). Quindi dopo il ciclo
beethoveniano di cinque concerti con cui l’Accademia Nazionale di Santa
Cecilia, ha aperto la stagione 2015-2016, avevo deciso di rinunciare
all’esecuzione diretta da Manfred Honeck le sere dal 7, 9 e 10 novembre. Ma la
mattina di domenica 8 novembre, mi è arrivato un mail del musicologo Luigi
Bellingardi (classe 1929) che dopo una carriera accademica di rilievo ed una
lunga serie di libri è oggi uno dei più autorevoli critici musicali de ‘Il
Corriere della Sera’. Poche parole:’ non ti ho visto in sala, se non c’eri
corri perché è imperdibile’. Grazie all’efficientissimo ufficio stampa
dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, la sera del 9 novembre ero, con mia
moglie, in fila 9 di platea, posti 29 e 30.
Secondo numerosi studiosi verdiani .
in primo luogo Massimo Mila, il Requiem di Verdi si differenzia
marcatamente da altre musiche per Messe in quanto è un grande melodramma laico
ed eroico di riflessione sulla morte: il ventottesimo se lo si aggiunge ai 27
appositamente concepiti per la scena lirica oppure il ventiseiesimo se si li
conta in ordine cronologico di composizione e rappresentazione. Come
molte figure del Risorgimento nazionale (Manzoni, Rosmini e pochi altri
rappresentano eccezioni), Verdi era agnostico o quanto meno ‘dubbioso’ in
materia religiosa. Lo era diventato dopo la morte della prima moglie e lo era rimasto
per tutta la vita. Lo testimoniano non solo i suoi carteggi (disponibili anche
in edizioni abbreviate) ma soprattutto le sue opere, specialmente quelle degli
anni più prossimi al Requiem; in Don Carlos ed in Aida la
Chiesa, sia cattolica sia egiziana, e le sue gerarchie sono rappresentate come
opprimenti e spietate nei confronti di tutti (anche del potere politico); ne La
forza del destino (che pur si svolge tra chiostri e conventi), la presenza
di Dio è confinata nell’ultima scena dell’edizione approntata per l’Italia (ma
non c’era nella versione originale per il debutto a San Pietroburgo); in Falstaff,
l’addio alla vita è una fuga in cui si sogghigna che “tutto il mondo è una
burla”.
Affermare ed anzi ribadire la
natura laica di un Requiem, composto per un’occasione puntuale (il
ricordo di Alessandro Manzoni), non vuole dire sminuirne il valore e il
significato. E’ un grande capolavoro la cui parte centrale (quel Dies Irae
articolato come un immesso atto d’opera) evoca la violenza e vastità del suono
di una vita intensamente vissuta e la cui conclusione (la dolcissima Lacrimos”e
la struggente Libera Me) è una meditazione sulla fragilità umana di
fronte al cosmo. La grandezza, tanto più tragica quanto più immanente, del Requiem
appare nelle sue dimensioni se lo si raffronta con i quattro pezzi sacri,
tanto eleganti nei loro equilibri da parere quasi artificiali.
Il Requiem diretto
da Manfred Honeck e con solisti di grande vaglio (Krassmira Stoyanova, Luciana
d’Intino, Giorgio Berrugi, Liang Li) ed il coro guidato da Ciro Visco, si differenzia
da quasi tutte le esecuzioni da me in precedenza ascoltate, anche di quelle
nella Cattedrale di Parma o nella Basilica di Santa Maria in Trastevere ed
altre Chiese doveva veniva eseguito durante la celebrazione ecclesiastica.
Honeck, austriaco figlio di un postino che ha avuto nove figli e lui stesso
padre di sei figli, è profondamente cattolico (come lo era Alessandro Manzoni
alla cui memoria il lavoro è dedicato). Cosa vuol dire dare una lettura
musicale cattolica ad una composizione da sempre considerata un grande
melodramma laico, anche se scritto su un testo religioso in latino?
Lo si avverte, in primo luogo,
dall’introduzione iniziale e dal finale. L’entrata del coro è in pianissimo,
segno del raccoglimento essenziale per comprendere l’opera. Nel finale, dopo
il Libera me Domine da morte aeternamKrassmira Stoyanova china il
capo ma Honeck non abbassata subito la bacchetta. La tiene sospesa per circa un
minuto e poi la discende molto lentamente per indurre ad una breve ma intesa
fase di meditazione. Parte del pubblico romano dei concerti del lunedì sera
(quello considerato più mondano dove molti vanno principalmente per farsi
vedere) in un primo momento non aveva compreso che dopo un’intensissima ora e
mezzo, il concerto era terminato. Hanno poi compreso e sono esplosi oltre dieci
minuti di applausi ed ovazioni-
La direzione cattolica di Honeck
si avverte nelle sonorità violente , quasi terrificanti del Dies
Irae (le cui proporzioni sono quasi quelle di un atto di una normale
opera verdiana) e dolcissime invece nell’Agnus Dei(segno dell’eterno
riposo).
Ciò non vuol dire che manchi
l’approccio teatrale: Verdi compone principalmente per il teatro e nella mani
di Honeck, il Requiem diventa un melodramma sacro. Il corso
assume dimensioni di maggior rilievo che in Don Carlos ed Aida: diventa
uno dei protagonisti . I quattro solisti, nelle arie, nei duetti,
nel grande quartetto, non sono voci da concerto ma personaggi in carne ed ossa
di fronte al mistero, ed al timore, della morte ed alla speranza della
Resurrezione.
C’è da augurarsi che dalle tre
serate esca un CD.
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