OPERA/ Il ritorno di Wozzeck alla Scala
Giuseppe Pennisi
Pubblicazione: martedì 3 novembre 2015
Il Teatro La Scala
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Per tutti coloro che amano il teatro
in musica del Novecento dovrebbe essere un must correre alla Scala per
la ripresa di Wozzeck di Alban Berg in una produzione che debuttò
nel 1997 con la direzione orchestrale del mai troppo compianto Giuseppe
Sinopoli. La regia è sempre quella di Jürgen Flimm, con scene, costumi e
coreografia di Erich Wonder, Florence von Gerkan e Catharina Luhr. Sul podio
Ingo Metzmacher. Tra i protagonisti, Michael Volle, Roberto Saccà, Riccarda
Marbeth.
Occorre sottolineare che la riprese
(la quinta dalla prima nel 1997) è stata decisa quasi a cartellone definito, quando
György Kurtàg informò il teatro che non avrebbe potuto completare l’opera
commissionatagli Fin de Partie (dal lavoro teatrale di Samuel Beckett),
la cui prima mondiale è ora attesa il 6 novembre 2016. Non si è trattato, però,
di una messa in scena di rincalzo, andando a scavare nei magazzini del teatro e
cercando gli artisti disponibili per un lavoro comunque di repertorio.
L’interpretazione di Flimm
dell’opera di Berg è una pietra miliare che La Scala dovrebbe riproporre ogni
due anni non ogni cinque, non solo perché originale ma perché ogni volta
se ne scoprono aspetti nuovi.
In una fase, come in questi giorni,
di competitività tra Milano e Roma, è utile ricordare che nella sala del
Piermarini Wozzeck è apparso nel 1952 (con Tito Gobbi; dir. Mitropulos);
nel 1971 (Paolo Montarsolo; dir. Abbado); nel 1977 e nel 1979 (G. Sarabia; dir.
Abbado). Nel 1952, alla prima ci furono, in sala e durante lo spettacolo, forti
polemiche tra chi applaudiva un capolavoro con già un quarto di secolo di
successi in tutto il modo e chi lo considerava ‘osceno’ e ‘mera propaganda
comunista’ (così i giornali dell’epoca).
Wozzeck aveva avuto la sua
prima italiana al Teatro dell’Opera di Roma nel novembre 1942: dirigeva Tullio
Serafin, era protagonista l’allora giovanissimo Tito Gobbi. Eravamo in guerra,
alleati con i tedeschi, l’opera era vietata in Germania e in tutti i Paesi
occupati perché ritenuta “degenerata” e proibita di fatto negli Stati Uniti
perché considerata “un oltraggio al pudore” (arrivò al Metropolitan sono nel
1958). La messa in scena dell’opera a Roma nel 1942, nel teatro preferito del
Duce, voleva significare una presa di posizione “eretica”. Era il segno
della grande attenzione che allora (anche a ragione della politica governativa,
lo descrive bene il libro di Stefano Biguzzi “L’orchestra del Duce”,
Utet 2003) riceveva la musica contemporanea. In effetti il capolavoro di Berg
era inserito in una stagione dedicata alla musica allora da considerarsi
contemporanea. Altresì, una era anche una pasquinata (sberleffo) che i
romani, che applaudirono calorosamente, volevano intenzionalmente fare agli
alleati troppo vistosamente presenti in città (mentre in Nord Africa ,
Montgomery dava botte da orbi alla volpe del deserto Rommel).
Al Teatro dell’Opera di Roma, però,
non si presentava il capolavoro di Berg dal 2007 quando dopo trent’anni venne
proposto ‘fuori abbonamento’ e con poco pubblico in sala (ma una esecuzione
semiscenica è stata realizzata al Parco della Musica dall’Accademia di Santa
Cecilia nel 2003). Quella dell’Opera di Roma nel 2007 era una produzione
di Giancarlo del Monaco (con la bacchetta di Gianluigi Gelmetti ) che è
stata sfortunata ma può gareggiare con quello di Jürgen Flimm con quelle
(memorabile) di Claude d’Anna gustato al Massimo Bellini di Catania nel 1996.
Nettamente superiore a quanto a proposto a Palermo ed a Venezia nel primo
decennio di questo secolo ed alla produzione quello di Ruth Berghaus
(molto ideologizzato) importato da Berlino a Napoli alla metà degli Anni
Ottanta.
L’ultimo Wozzeck da
me visto (prima di questa ripresa scaligera) è al festival Unesco di Bucarest
lo scorso settembre. Ho ragione di pensare, sulla base di una ricerca fatta su
internet, che Wozzeck mancasse da diversi anni dall’Opera
Nazionale di Bucarest, un bel teatro di medie dimensioni che ha raggiunto una
buona qualità. E’ da augurarsi che il Wozzeck proposto in
versione di mise en éspace nella Sala Grande (4000 posti) del
Palazzo dei Congressi di Bucarest preluda ad un ritorno di Wozzeck nel
repertorio del Teatro dell’Opera della capitale romeno. Mise en espace vuol
dire che gli uomini erano in smoking (tranne il protagonista ed il capitano) e
le donne in abito da sera. Ma sul boccascena, ed in un momento, anche in sala,
non mancava la recitazione (e recitazione di alto livello).
Ma andiamo alla produzione
scaligera, vista ed ascoltata non alla prima ma una domenica pomeriggio alle 14
in quelle rappresentazione di Scala Aperta a prezzi
scontatissimi a cui assistono coloro che non sono in grado di pagare gli alti
prezzi dei biglietti nelle serate ‘normali’. I 15 quadri della vicenda non sono
divisi in tre atti ma costituiscono novanta minuti senza interruzione. Si
svolgono in una scena unica , uno spazio concavo in cui, con pochissimi
elementi di attrezzeria, si indicano i luoghi del dramma.
Tutti i personaggi, anche quelli che
dovrebbero rappresentare la ‘normalità borghese’ (il Capitano , il Dottore) si
muovono come allucinati ad indicare che sono loro gli psicopatici non il povero
soldato semplice che arrotonda il proprio ‘soldo’ facendo il barbiere del
capitano e prestandosi ad esperimenti para-scientifici del dottore. Deve
portare il necessario alla donna, una ex-prostituta, (Marie) che ama ed al loro
bambino da ambedue adorato. La grande idea di vincente di Flimm è di non
dipingere il protagonista come un ossesso ma come un profeta ed un artista,
accanto al quale vive una quotidianità solo apparentemente normale. In questo
clima si accentua la parabola di Wozzeck in quanto discesa all’inferno in 15
velocissimi quadri (ciascuno con una sua forma musicale puntuale): l’orgoglio
del buon soldato viene umiliato dal Capitano (in una suite in 5 parti); vende
(o più crudemente affitta) il proprio corpo perché sia oggetto di esperimenti
da parte del Dottore (a tempo di passacaglia); la sua donna (Marie) si fa
sedurre dal Tamburmaggiore (in un trascinante rondò); nel piccolo ambiente
della caserma e dintorni lo sanno tutti, tranne il più diretto interessato che
se ne accorge poco a poco (scherzo e trio); e così via sino all’assassinio di
Marie da parte di Wozzeck (in si naturale) ed al suicidio (in cui ad
un’invenzione su un accordo segue un’invenzione su una tonalità).
Questi dettagli apparentemente
tecnici sono essenziali perché la bacchetta di Ingo Metzmacher era una delle
poche che riusciva a coglierli a pieno. Alla Scala lo fece Sinopoli nel 1997 e
prima di lui Abbado nel 1977 e nel 1979, ma pochi altri maestri concertatori
‘novecentisi’ (come James Conlon) furono perfettamente all’altezza di una
scrittura musicale ancora oggi così innovativa. Altro aspetto, Metzamacher
rende Wozzek un’opera piena di tenerezza, non solo il finale
con lo hop hop del bambino, ma la lettura del Vangelo di parte
di Marie (Riccarda Merbeth) e di ironia (il gradasso Tamburmaggiore- Roberto Saccà-
, lo stupido Dottore – Alaine Coulombe- , il miserevole Capitano- Wolfang
Ablinger- Sperrhacher). Lo stesso Wozzeck- Michael Volle visto ed ascoltato nel
medesimi ruolo a Bucarest a metà settembre – ha momenti di estrema dolcezza
quando consegna a Marie ciò che ha raggranellato dal Capitano e dal Dottore,
quando è con il figlio, quando si dispera per avere ucciso Marie e si annega,
lentamente, in uno stagno.
Per gran parte del pubblico – molti
i giovani- era il primo contatto con la musica ed il capolavoro di Berg. Hanno
seguito con attenzione e tensione. Si sono commossi ed hanno applaudito
calorosamente e genuinamente.
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