Perché le spending review falliscono
Dopo l’ultima defezione in pochi
anni – ma i primi tentativi organici di spending review vennero fatti
all’inizio degli Anni Ottanta dal governo Craxi- occorre chiedersi cosa blocca
in Italia i tentativi di revisione della spesa.
In primo luogo, dati alla mano,
occorre ricordare che nella breve età della ventata di liberismo quando Ronald
Reagan e Margaret Thatcher erano rispettivamente alla guida degli
Stati Uniti e della Gran Bretagna, i livelli di spesa in percentuale del Pil
restarono sostanzialmente invariati in ambedue i Paesi, nonostante le forti
riduzioni alla pressione tributaria, le liberalizzazioni e le privatizzazioni.
Lo documenta bene Paul Pierson, uno degli storici dell’economia che ha
meglio analizzato quel periodo nei due Paesi.
In secondo luogo, ha ben
sottolineato Piero Giarda (uno dei protagonisti, in passato, delle spending
review italiane) che un lavoro di revisione della spesa può essere
effettuato unicamente in una prospettiva di lungo periodo, non avendo come
obiettivo temporale la prossima Legge di stabilità o la formulazione del
prossimo bilancio dello Stato. Lo mostra indirettamente l’esperienza francese
dove il programma di razionalizzazione delle spese di bilancio venne
effettuato, negli Anni Ottanta, su un arco di oltre un lustro avendo come
obiettivo quello di giungere all’accordo franco-tedesco chiamato il Patto del
Louvre che pose fine alle periodiche svalutazione del franco francese
nell’ambito dell’accordo europeo sui cambi (chiamato giornalisticamente SME) e
stabilì una parità fissa tra le monete dei due Paesi.
In terzo luogo, deve essere compito
non straordinario ma immanente e permanente delle amministrazioni dello Stato.
Nel suo saggio, a termine del suo mandato di Direttore del Bilancio
dell’Amministrazione Reagan David Stockman nonché la già citata esperienza
francese degli Ottanta. In Italia, dovrebbe avere il proprio cuore nella
Ragioneria dello Stato, RGS (con un ufficio studi come pensato alcuni anni fa)
ma con nuclei in tutte le amministrazioni centrali e nelle Regioni; gli uffici
della RGS presso Ministeri e Regioni potrebbero essere la rete di collegamento
tra i vari gruppi ed assicurare uniformità di metodo e procedure. Formulai una
proposta del genere circa trent’anni fa. Non venne recepita. E’ riassunta in un
mio libro ‘Spesa Pubblica e Bisogno di Inefficienza’ pubblicato da Il
Mulino nel lontano 1987.
Cosa c’è alla base del ‘bisogno di
inefficienza’ della spesa pubblica? Facciamo un salto di trent’anni. In un
saggio pubblicato su Economic Affairs (Vol. 36, No. 3, pp.
349-365, 2015), due docenti dell’Università di Bologna, Gianluca Pelloni
e Marco Savioli, si chiedono Why Italy is Doing so
Badly? (Perché l’Italia va così male?). A loro avviso, i
dati mostrano “una fase di declino sistemico di grandi dimensioni”. “Il sistema
Italia” ha abbandonato – aggiungono – una visione dinamica dei vantaggi
comparati, visione cruciale per una crescita sostenibile. Ha invece optato per
una visione statica di specializzazione. La “distruzione creativa”
schumpeteriana è stata bloccata; vige la friedmaniana “tirannia dello status
quo”; non c’è stata una ristrutturazione dell’economia. Alle radici di questi
problemi – concludono – c’è un contratto implicito tra le élite e la società
civile. Un factum sceleris, un vero e proprio “patto scellerato” per
dare contentini a tutti, che si traduce in alta spesa pubblica difficile da
comprimere, alto debito pubblico e stagnazione. Se non si prende questo torno
per le corna, dubito che future spending review abbiano maggior
successo delle precedenti.
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