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Questa settimana si riunisce il massimo organo di governo della politica monetaria dell’eurozona: il Consiglio della Banca centrale europea. Rispetto all’ultima riunione, due settimane fa, il quadro generale ha subito notevoli cambiamenti. Molti di questi sono al di fuori delle competenze della Bce - segnatamente, gli effetti sulle politiche di bilancio delle spese addizionali per la sicurezza interna e internazionale a ragione dell’inasprirsi del terrorismo. Alcuni, però, riguardano direttamente le autorità monetarie.Da un canto, l’ormai scontato (almeno dai mercati finanziari) cambiamento di rotta della politica monetaria degli Stati Uniti: a metà dicembre, dopo politiche monetarie espansioniste tenute sin dal 2008, il Comitato per le operazioni sul mercato aperto (in gergo Fomc, massimo organo di governo della politica americana) inizierà una graduale manovra restrittiva per il timore che il basso tasso di disoccupazione (5% della forza di lavoro) preluda a una ripresa dell’inflazione. Da un altro, ci si chiede se il “principe” degli strumenti (oltre ai tassi d’interesse rasoterra e in certi momenti negativi) utilizzato da Francoforte, il Quantitative easing, abbia veri effetti sulla crescita della produzione e dell’occupazione.
Lo stesso Presidente della Bce, Mario Draghi, ha fatto
intendere, nella conferenza stampa che ha fatto seguito all’ultima riunione del
Consiglio, che una revisione del Qe sarebbe imminente, forse già a dicembre. A
metà novembre, la conferenza annuale del Fondo monetario sulla ricerca, è stata
dedicata agli effetti (sull’economia reale) di strumenti innovativi di politica
monetaria come il Qe. Numerosi papers rivolti all’esperienza americana (più
lunga e più consistente) mettono in rilievo che la trasmissione della liquidità
all’economia reale è stata inferiore alla aspettative. In Europa, più che negli
Usa, le risorse rimarrebbero “incastrate” nella pancia delle banche o delle
imprese che non le starebbero ancora utilizzando per investimenti e quindi non
ci sarebbe creazione di posti di lavoro. Crescono peraltro, fra gli
osservatori, gli scettici sulla effettiva utilità del Qe, se il
programma non è accompagnato da una strategia comune di politica di bilancio
espansionista e di riforme (per lo più microeconomiche) atte a favorire gli
investimenti pubblici e privati di lungo periodo e l’aumento della
produttività. Le determinanti più importanti dipendono, quindi, non dalle
autorità monetarie ma dai Governi e dai Parlamenti.
In Italia, questo è stato il tema di fondo dell’annuale “Marco
Minghetti Lecture” in ricordo del ministro delle Finanze del nascente (ed
economicamente dissestato) Regno d’Italia, ministro che portò al pareggio di
bilancio nel 1875. L’ha tenuta l’economista e banchiere centrale William R.
White, il quale tra l’altro ha predetto, con anni di anticipo, la crisi
finanziaria scoppiata nel 2007. Secondo White, il Qe serve poco per
riprendere a crescere; il primo passo consiste nel ristrutturare il debito
sovrano, una palla di piombo al piede dell’eurozona. Ragionamenti analoghi sono
apparsi in questi giorni in lavori di Rubert Ungher della Bundesbank e di Paolo
Manasse dell’Università di Bologna, nonché di Jörg Bibow del Bard College.
A queste critiche se ne aggiungono altre secondo cui il Qe aggraverebbe
le diseguaglianze di reddito e di ricchezza. Le prime bordate sono state
sparate dall’economista francese Thomas Piketty (ormai una celebrità) con un
editoriale su un centinaio di quotidiani pubblicati in vari continenti. Gli
hanno fatto seguito numerosi altri. Raramente - si può dire - la politica
monetaria ha l’obiettivo di migliorare la distribuzione del reddito. Inoltre, è
noto che politiche monetarie espansioniste privilegiano la finanza prima di
incidere sull’economia reale.
Della vasta pubblicistica sul tema il saggio più equilibrato (e
con tecniche innovative di analisi quantitative) mi pare essere quello di Juan
Antonio Montecino e Gerald Epstein - ambedue della University of Massachusetts
ad Ahmers (Did Quantitative Easing Increased Income Inequality? Institute
for New Economic Thinking Working Paper N0 28). La conclusione, su dati
americani, è che il Qe ha leggermente inciso negativamente sulle
diseguaglianze.
Ce n’è a sufficienza perché al prossimo Consiglio Bce si faccia
un vero e approfondito “tagliando” al Qe.
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