giovedì 12 marzo 2015

ANCORA SU MUSICA E SOLDI PUBBLICI:LA STORIA INSEGNA CHE……in Musica mensile n.263



ANCORA SU MUSICA E SOLDI PUBBLICI:LA STORIA INSEGNA CHE……
         Giuseppe Pennisi
La storia economica riconosce che ci sono stati periodi e Paesi — la Gran Bretagna nella prima metà del Settecento, Venezia nel Seicento, Italia e Germania nell’Ottocento in generale — in cui la cameristica, la sinfonica e la stessa opera lirica non sono state un fardello per le casse dello Stato ma un comparto remunerativo per chi vi investiva. Di norma, l’impressione generale è che «la musa bizzarra e altera» (secondo l’acuta definizione del musicologo tedesco Herbert Lindenberger) sia stata offerta dal principe o considerata come «bene posizionale» di comunità affluenti in gara per prestigio e sfarzo. Ciò spiegherebbe, ad esempio, il pullulare di teatri lirici in regioni italiane relativamente piccole (come l’Umbria e le Marche) ma con città molto competitive. Questa tesi viene ribaltata da un interessante studio di Olivier Falck (dell’Ifo, il maggior centro di ricerca economica della Repubblica Federale), Michael Fritsch (dell’università di Jena) e di Stephan Heblich (del Max-Planck-Institut) e pubblicato dall’Iza (l’istituto tedesco di studi sul capitale umano) come Discussion Paper No. 5065.
Il lavoro utilizza una complessa strumentazione statistica per studiare i nessi tra musica e sviluppo utilizzando come campione ventinove teatri costruiti in età barocca in differenti località di un’area che va dalla Renania alla Silesia. La ricerca impiega una vasta gamma di indicatori per comprendere se i teatri sono stati localizzati in aree già in fase di sviluppo prima della decisione di costruirli (l’ipotesi dominante) o se invece, nati in contesti non più avanzati della media dell’area di espressione tedesca, abbiano innescato un processo di espansione economica. I dati disponibili permettono di affermare che Trier, Bautzen, Stralsund, Rostock, Dessau, Passau, Regensburg — per non citare che alcuni dei luoghi dove sono localizzati teatri del campione — non avevano indici di sviluppo economico e sociale migliori del resto dei territori di quello che sarebbe diventato nel 1870 l’impero tedesco. In molti casi, nel periodo precedente la costruzione e la messa in funzione del teatro esponevano indicatori inferiori alla media. L’analisi non si limita a offrire una fotografia di quella che era la situazione quando la comunità decise di darsi un teatro. Affronta il tema centrale: se e perché il teatro ha contribuito allo sviluppo della zona circostante. Alla prima domanda, i dati forniscono una risposta positiva. Per affrontare la seconda, lo studio fa ricorso alle scuole economiche più recenti relative allo sviluppo endogeno e al capitale umano. In gran parte delle 29 aree, l’esistenza del teatro dedicato alla musica ha comportato, da un lato, una concentrazione di capitale umano (lavoratori specializzati, musicisti, orchestrali, cantanti) e, da un altro, un’apertura al resto del mondo (tramite le compagnie di giro impiegate per numerosi spettacoli). In effetti, il capitale umano attira altro capitale umano e avvia e sostiene il processo di sviluppo.
Occorre che il ceto politico italiano rifletta su queste analisi. In una fase di legge di stabilità che hanno portato, ad esempio, nella captale alla chiusura dell’Orchestra Sinfonica di Roma (dopo quelle delle orchestre Rai e di Roma e del Lazio)e stanno mettendo a repentaglio La Verdi di Milano.  Così non si fa sviluppo, ma si aggrava la recessione.
Rivista Musica No 263

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