ANCORA SU MUSICA E SOLDI PUBBLICI:LA STORIA INSEGNA CHE……
Giuseppe
Pennisi
La storia economica riconosce che ci sono stati
periodi e Paesi — la Gran Bretagna nella prima metà del Settecento, Venezia nel
Seicento, Italia e Germania nell’Ottocento in generale — in cui la cameristica,
la sinfonica e la stessa opera lirica non sono state un fardello per le casse
dello Stato ma un comparto remunerativo per chi vi investiva. Di norma, l’impressione
generale è che «la musa bizzarra e altera» (secondo l’acuta definizione del
musicologo tedesco Herbert Lindenberger) sia stata offerta dal principe o
considerata come «bene posizionale» di comunità affluenti in gara per prestigio
e sfarzo. Ciò spiegherebbe, ad esempio, il pullulare di teatri lirici in
regioni italiane relativamente piccole (come l’Umbria e le Marche) ma con città
molto competitive. Questa tesi viene ribaltata da un interessante studio di
Olivier Falck (dell’Ifo, il maggior centro di ricerca economica della
Repubblica Federale), Michael Fritsch (dell’università di Jena) e di Stephan
Heblich (del Max-Planck-Institut) e pubblicato dall’Iza (l’istituto tedesco di
studi sul capitale umano) come Discussion Paper No. 5065.
Il lavoro utilizza una complessa strumentazione
statistica per studiare i nessi tra musica e sviluppo utilizzando come campione
ventinove teatri costruiti in età barocca in differenti località di un’area che
va dalla Renania alla Silesia. La ricerca impiega una vasta gamma di indicatori
per comprendere se i teatri sono stati localizzati in aree già in fase di
sviluppo prima della decisione di costruirli (l’ipotesi dominante) o se invece,
nati in contesti non più avanzati della media dell’area di espressione tedesca,
abbiano innescato un processo di espansione economica. I dati disponibili
permettono di affermare che Trier, Bautzen, Stralsund, Rostock, Dessau, Passau,
Regensburg — per non citare che alcuni dei luoghi dove sono localizzati teatri
del campione — non avevano indici di sviluppo economico e sociale migliori del
resto dei territori di quello che sarebbe diventato nel 1870 l’impero tedesco.
In molti casi, nel periodo precedente la costruzione e la messa in funzione del
teatro esponevano indicatori inferiori alla media. L’analisi non si limita a
offrire una fotografia di quella che era la situazione quando la comunità
decise di darsi un teatro. Affronta il tema centrale: se e perché il teatro ha
contribuito allo sviluppo della zona circostante. Alla prima domanda, i dati
forniscono una risposta positiva. Per affrontare la seconda, lo studio fa
ricorso alle scuole economiche più recenti relative allo sviluppo endogeno e al
capitale umano. In gran parte delle 29 aree, l’esistenza del teatro dedicato
alla musica ha comportato, da un lato, una concentrazione di capitale umano
(lavoratori specializzati, musicisti, orchestrali, cantanti) e, da un altro,
un’apertura al resto del mondo (tramite le compagnie di giro impiegate per
numerosi spettacoli). In effetti, il capitale umano attira altro capitale umano
e avvia e sostiene il processo di sviluppo.
Occorre
che il ceto politico italiano rifletta su queste analisi. In una fase di legge
di stabilità che hanno portato, ad esempio, nella captale alla chiusura
dell’Orchestra Sinfonica di Roma (dopo quelle delle orchestre Rai e di Roma e
del Lazio)e stanno mettendo a repentaglio La Verdi di Milano. Così non si fa sviluppo, ma si aggrava la
recessione.
Rivista Musica No 263
Nessun commento:
Posta un commento