L’ITALIA, L’EU E LA POLITICA INDUSTRIALE
Giuseppe Pennisi
In che misura una “politica industriale” italiana in questo primo scorcio di 21simo secolo può essere in linea con quel documento Ue “Europa 2020” che dovrebbe costituire la stella polare delle strategie di integrazione europea nei prossimi anni?
E’ utile ricordare quali sono i punti essenziali di “Europa 2020” e cosa si è inteso in Italia per “politica industriale”.Il primo è un compito semplice. Più complesso il secondo poiché il significato del termine ha avuto un’evoluzione considerevole neegli ultimi decenni.
“Europa 2020” è un documento snello di 30 pagine a stampa fitta- un merito importante data la nota predilezione di Bruxelles per volumi ponderosi. La crisi economica – afferma la premessa del documento - ha messo a nudo le gravi carenze di un'economia già resa fragile dalla globalizzazione, dal depauperamento delle risorse e dall'invecchiamento demografico. La Commissione dichiara che questi ostacoli possono essere superati, se l'Europa decide di optare per un mercato “più verde e innovativo”. La strategia individua le seguenti priorità: sostenere le industrie a basse emissioni di CO2, investire nello sviluppo di nuovi prodotti, promuovere l'economia digitale e modernizzare l'istruzione e la formazione. Propone inoltre cinque obiettivi quantitativi, compreso l'innalzamento del tasso di occupazione ad almeno il 75% dall'attuale 69% e l'aumento della spesa per ricerca e sviluppo al 3% del prodotto interno lordo. Attualmente quest'ultima rappresenta soltanto il 2% del PIL, un livello di gran lunga inferiore a quello di Usa e Giappone. La nuova strategia riconferma gli ambiziosi obiettivi dell'UE in materia di cambiamenti climatici (20/20/20) e propone di ridurre il tasso di povertà del 25% per aiutare circa 20 milioni di persone ad uscire dall'indigenza. Nel campo dell'istruzione, la Commissione vuole portare il tasso di abbandono scolastico al di sotto del 10% (dall'attuale 15%) e accrescere in maniera significativa (dal 31% al 40%) la percentuale dei giovani trentenni con un'istruzione universitaria. Nessuno di questi obiettivi sottintende una “politica industriale” nei vari significati che, di volta in volta, ha avuto il termine.
Il documento propone che i governi concordino obiettivi nazionali che tengano conto delle condizioni di ciascun paese, aiutando nel contempo l'UE nel suo insieme a raggiungere i suoi traguardi. La Commissione controllerà i progressi compiuti e, in caso di "risposta inadeguata", formulerà un monito. L'UE già sorveglia le finanze pubbliche per evitare squilibri tali da mettere in pericolo l'area dell'euro. La nuova strategia va tuttavia oltre e affronta anche altri problemi che potrebbero minare la competitività dell'UE.
Vengono individuate sette iniziative prioritarie per stimolare la crescita e l'occupazione. Tra queste figurano i programmi per migliorare le condizioni e l'accesso ai finanziamenti nel settore della R&S, l'introduzione in tempi rapidi dell'Internet ad alta velocità e il maggiore ricorso alle energie rinnovabili. Programmi che potrebbero essere letti come parte di una “politica industriale” “a basso potenziale” e tale ds guardare al lungo periodo, piuttosto che al breve e medio (quali le situazioni di crisi di questa o quella azienda o di questo o quel comparto).
L’Italia, Paese definito di “tarda industrializzazione” nelle storie economiche dell’Europa, non ha parlato di “politica industriale”, ma ne ha fatta a partire dell’età giolittiana, intensificandola (ed, in gran misura, razionalizzandola durante il fascismo). “Politica industriale” è stata uno dei temi principale di dibattito a partire dall’inizio degli Anni Sessanta e, quindi, dall’inizio del centro-sinistra. In una prima lunga fase si è seguita quella che veniva chiamata “la politica dei settori”, ossia l’identificazione di settori che, tramite poli di sviluppo ed interdipendenze, fossero in grado di trainare il resto dell’economia. Si è favorita l’industria di base (metallurgia, siderurgia, chimica), unitamente, sin troppo ovviamente, con la metalmeccanica. I risultati sono stati inferiori alle aspettative, in gran misura perché puntavamo su comparti i cui costi di produzione erano notevolmente inferiori ai nostri in Paesi del vicino Mediterraneo. Negli ultimi due decenni del 20simo secolo, l’accento è passato ad una “politica dei fattori”, sgravi tributari e deroghe alla normativa generale sul lavoro, sia generalizzati sia diretti a comparti od ad aree territoriali da promuovere o d cui alleviare il declino. La “politica dei fattori” è stata accompagnata da strumenti etichettati “incentivi” che celavano sussidi più o meno espliciti a questo o quel comparto da incoraggiare o di cui attenuare le difficoltà. La “politica dei fattori” è stata rivalutata recentemente in analisi retrospettive degli Anni Ottanta, ma è stata gradualmente abbandonata in quanto molti dei suoi aspetti, e delle sue misure specifiche, non in linea con le regole EU in materia di concorrenza. Anche ove una lettura forzata della normativa europea, rendesse possibile un rilancio della “politica dei fattori”, le difficoltà di bilancio pubblico non rendono pratica una “politica dei fattori” (ed ancor meno una “politica dei settori) analoghe a quelle del passato.
Come affrontare allora i nodi delle vertenze per industrie in difficoltà che si accumulano al Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) ? E, soprattutto, come rilanciare il manifatturiero in modo che l’Italia sia in grado di agganciarsi ai segni di ripresa mondiale?
Nel breve periodo, la strada più facilmente percorribile consiste nel facilitare ristrutturazioni e riorganizzazioni mirate ad una migliore produttività ed ad una maggiore competitività ; occorre ,però, un’attenta valutazione finanziaria ed economica dei piani specifici di riorganizzazione e ristrutturazione. Il MISE dispone a riguardo di un’apposita unità di valutazione, che dovrebbe essere utilizzata a pieno regime.
Per il più lungo termine, le giaculatorie di “Europa 2020” per una maggiore e migliore ricerca ed innovazione minacciano di diventare mere novene se non accompagnate da risorse finanziarie (anche esse attentamente valutate) che la finanza pubblica non è in grado di fornire. Una possibilità da esplorare con attenzione consiste nell’attirare l’attenzione e l’interesse del Long Term Investors Club, l’associazione di grandi investitori istituzionali come la Cassa Depositi e Prestiti, la Caisse de Depots et Consignations, la Banca europea degli investimenti, ed alcuni fondi sovrani. E’ una strada perfettamente in linea con “Europa 2020”.
sabato 30 ottobre 2010
venerdì 29 ottobre 2010
Un Elisir innovativo che rispetta la tradizione MILANO FINANZA 30 Ottobre
inscena
Un Elisir innovativo che rispetta la tradizione
di Giuseppe Pennisi
Elisir d'Amore, la delicata commedia in musica di Franco Romani e Gaetano Donizetti, è stata spesso ambientata in agriturismi, pizzerie e anche postriboli. Il primo merito dell'allestimento in scena a La Fenice di Venezia fino al 10 novembre (e successivamente in altre piazze) è la regia di Beppe Morassi.
La sua lettura, affiancata alle scene e ai costumi di Gian Maurizio Fercioni segue, per molti punti di vista, la tradizione: fondali dipinti, teatro-nel-teatro, colori sfumati (non è una farsa, ma un dramma giocoso con punti di riflessione molto profondi). La recitazione è moderna-veloce, densa di ammiccamenti ma senza scivolare mai nel comico. Morassi condivide oneri e onori dello spettacolo con un giovane maestro concertatore, Matteo Beltrami, che si sta facendo le ossa anche all'estero (Dresda, San Pietroburgo). Il maestro merita di essere seguito con attenzione perché è una vera promessa per il teatro musicale italiano. L'Elisir richiede quattro cantanti-attori di classe per rendere credibile la vicenda del giovanotto povero che tenta di fare innamorare una bella possidente grazie a un filtro magico. La vera scoperta è Celso Albelo, nel ruolo che fu il preferito da Pavarotti. Desirée Rancatore conferma le sue doti: deve restare in questo repertorio per evitare il rischio di rovinarsi lo strumento vocale. Di livello Roberto De Candia e Bruno De Simone, impegnati in parti di cui sono veterani. (riproduzione riservata)
Un Elisir innovativo che rispetta la tradizione
di Giuseppe Pennisi
Elisir d'Amore, la delicata commedia in musica di Franco Romani e Gaetano Donizetti, è stata spesso ambientata in agriturismi, pizzerie e anche postriboli. Il primo merito dell'allestimento in scena a La Fenice di Venezia fino al 10 novembre (e successivamente in altre piazze) è la regia di Beppe Morassi.
La sua lettura, affiancata alle scene e ai costumi di Gian Maurizio Fercioni segue, per molti punti di vista, la tradizione: fondali dipinti, teatro-nel-teatro, colori sfumati (non è una farsa, ma un dramma giocoso con punti di riflessione molto profondi). La recitazione è moderna-veloce, densa di ammiccamenti ma senza scivolare mai nel comico. Morassi condivide oneri e onori dello spettacolo con un giovane maestro concertatore, Matteo Beltrami, che si sta facendo le ossa anche all'estero (Dresda, San Pietroburgo). Il maestro merita di essere seguito con attenzione perché è una vera promessa per il teatro musicale italiano. L'Elisir richiede quattro cantanti-attori di classe per rendere credibile la vicenda del giovanotto povero che tenta di fare innamorare una bella possidente grazie a un filtro magico. La vera scoperta è Celso Albelo, nel ruolo che fu il preferito da Pavarotti. Desirée Rancatore conferma le sue doti: deve restare in questo repertorio per evitare il rischio di rovinarsi lo strumento vocale. Di livello Roberto De Candia e Bruno De Simone, impegnati in parti di cui sono veterani. (riproduzione riservata)
giovedì 28 ottobre 2010
Come dare la scossa Ffwebnagazine 28 ottobre
A Venezia un'iniziativa da seguire con attenzione
Come dare la scossa
all'Italia che non cresce
di Giuseppe Pennisi
Il risveglio del 27 ottobre è stato accompagnato da una serie di dati inquietanti sulla “ripresina” in atto. Il Fondo monetario avverte che quest’anno nell’area dell’euro la crescita sarà appena dell’1,7 – dopo la contrazione del 4,1% nel 2009. Non solo, ma sempre secondo il Fondo, su 180 paesi, l’Italia è stata la penultima (prima di Haiti) in termini di tasso di crescita tra il 1999 ed il 2009.
Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la cifra di disoccupati mondiali è cresciuta di 30 milioni; nei prossimi dieci anni l’economia mondiale dovrebbe generare 440 milioni di nuovi posti di lavoro unicamente per assorbire i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro. In questo quadro, l’Italia espone una crescita appena dell’1%, e un aumento del tasso di disoccupazione che si accinge ad arrivare al 10%. I dati della regione-chiave, la Lombardia, indicano che nel terzo trimestre c’è stato un rallentamento dell’attività industriale e un calo dell’occupazione.
Cosa fare? Un’analisi interessante di 15 anni di stagnazione dell’economia italiana viene offerta da due giovani dell’Università di Bologna , Renzo Orsi e Francesco Turino nel Quaderno DSE No 707 della Facoltà. Utilizzando una strumentazione econometrica, l’analisi individua le determinanti della crescita rasoterra o sottozero nell’inefficienza della pubblica amministrazione e del sistema produttivo, nonché in una serie di politiche restrittive. Senza i provvedimenti che hanno reso più flessibile il mercato del lavoro (“pacchetto Treu”, “legge Biagi”), l’esito sarebbe stato ancora peggiore in termini non solo di disoccupazione ma di rallentamento del reddito pro-capite. Lo studio non presenta quali dovrebbero essere le politiche di crescita. Non era, d’altronde, il suo scopo.
È il tema centrale, invece, della conferenza internazionale che la Cassa Depositi e Prestiti ospita a Venezia il 28 e il 29 ottobre. Vi partecipano non solo le maggiori organizzazioni internazionali (Fondo monetario, Banca mondiale, Ocse, Bei, Commissione Europei) ma anche i 14 soci del Long Term Investiments Club – un’associazione nata due anni fa tra investitori (come i “fondi sovrani”) che mirano ad investimenti di lungo periodo nelle infrastrutture, nelle reti, in capitale umano a rendimento economico e sociale elevato anche se differito nel tempo.
È una “politica dell’offerta” intelligente, pienamente rispettosa dei vincoli di finanza pubblica. Nella fase di cantiere l’investimento a lungo termine attiva capacità di produzione non utilizzata (in Italia ce n’è tanta) . A regime, l’investimento nei settori indicati aumenta la produttività, il cui declino è una delle componenti cruciali della stagnazione italiana. L’iniziativa e i suoi sviluppi meritano di essere seguiti con attenzione.
INVIA AD UN AMICO | STAMPA | ARCHIVIO
Come dare la scossa
all'Italia che non cresce
di Giuseppe Pennisi
Il risveglio del 27 ottobre è stato accompagnato da una serie di dati inquietanti sulla “ripresina” in atto. Il Fondo monetario avverte che quest’anno nell’area dell’euro la crescita sarà appena dell’1,7 – dopo la contrazione del 4,1% nel 2009. Non solo, ma sempre secondo il Fondo, su 180 paesi, l’Italia è stata la penultima (prima di Haiti) in termini di tasso di crescita tra il 1999 ed il 2009.
Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la cifra di disoccupati mondiali è cresciuta di 30 milioni; nei prossimi dieci anni l’economia mondiale dovrebbe generare 440 milioni di nuovi posti di lavoro unicamente per assorbire i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro. In questo quadro, l’Italia espone una crescita appena dell’1%, e un aumento del tasso di disoccupazione che si accinge ad arrivare al 10%. I dati della regione-chiave, la Lombardia, indicano che nel terzo trimestre c’è stato un rallentamento dell’attività industriale e un calo dell’occupazione.
Cosa fare? Un’analisi interessante di 15 anni di stagnazione dell’economia italiana viene offerta da due giovani dell’Università di Bologna , Renzo Orsi e Francesco Turino nel Quaderno DSE No 707 della Facoltà. Utilizzando una strumentazione econometrica, l’analisi individua le determinanti della crescita rasoterra o sottozero nell’inefficienza della pubblica amministrazione e del sistema produttivo, nonché in una serie di politiche restrittive. Senza i provvedimenti che hanno reso più flessibile il mercato del lavoro (“pacchetto Treu”, “legge Biagi”), l’esito sarebbe stato ancora peggiore in termini non solo di disoccupazione ma di rallentamento del reddito pro-capite. Lo studio non presenta quali dovrebbero essere le politiche di crescita. Non era, d’altronde, il suo scopo.
È il tema centrale, invece, della conferenza internazionale che la Cassa Depositi e Prestiti ospita a Venezia il 28 e il 29 ottobre. Vi partecipano non solo le maggiori organizzazioni internazionali (Fondo monetario, Banca mondiale, Ocse, Bei, Commissione Europei) ma anche i 14 soci del Long Term Investiments Club – un’associazione nata due anni fa tra investitori (come i “fondi sovrani”) che mirano ad investimenti di lungo periodo nelle infrastrutture, nelle reti, in capitale umano a rendimento economico e sociale elevato anche se differito nel tempo.
È una “politica dell’offerta” intelligente, pienamente rispettosa dei vincoli di finanza pubblica. Nella fase di cantiere l’investimento a lungo termine attiva capacità di produzione non utilizzata (in Italia ce n’è tanta) . A regime, l’investimento nei settori indicati aumenta la produttività, il cui declino è una delle componenti cruciali della stagnazione italiana. L’iniziativa e i suoi sviluppi meritano di essere seguiti con attenzione.
INVIA AD UN AMICO | STAMPA | ARCHIVIO
mercoledì 27 ottobre 2010
con l’Orchestra sinfonica romana La Vecchia ricomincia da tre Il Vellino 27 ottobre
CLT - Musica, con l’Orchestra sinfonica romana La Vecchia ricomincia da tre
Per la nuova stagione esecuzione integrale di tutte le sinfonie di Mahler, Brahms e Schumann
Roma, 27 ott (Il Velino) - È iniziata lunedì e proseguirà sino al 13 giugno la stagione dell’Orchestra Sinfonica Romana (Osr), l’unica formazione sinfonica in Europa completamente privata che non riceve neanche un euro da Stato ed enti locali. In programma due concerti la settimana (la domenica pomeriggio e il lunedì sera) nell’auditorium di via della Conciliazione, da circa duemila posti e sempre affollatissimo grazie a una politica di prezzi diretta ad incoraggiare il pubblico. L’abbonamento a 30 concerti è infatti di 300 euro ma giunge a 180 per gli anziani e scende ulteriormente a 100 per gli studenti. L’Orchestra - che ha il supporto della Fondazione Roma, di alcuni sponsor e di un pubblico entusiasta - oltre alla stagione in via della Conciliazione suona in luoghi di dolore, come ospedali e carceri. Senza mai fare alcuno sconto sulla qualità: diretti da Francesco La Vecchia, la scorsa estate la Sinfonica ha effettuato un’applaudita tournée negli Stati Uniti in luoghi dove il pubblico è noto per l’esigenza: Carnegie Hall di New York, Kennedy Center di Washington, Kimmel Center di Philadelphia, Shubert Theatre di Boston.
Nonostante queste qualità e salvo rare eccezioni, l’Osr è stata spesso snobbata da testate collegate ai “poteri forti” del mondo della musica e non ha avuto il rilievo che La Vecchia ed i suoi giovani colleghi meritano. Forse perché dà fastidio, soprattutto se si hanno riconoscimenti sulle maggiori testate internazionali, dimostrare che si può essere una grande orchestra sinfonica con professori giovani (l’età media era sui 23 anni quando l’avventura è iniziata) senza godere di appoggi politici. Questa stagione, La Vecchia e i suoi ragazzi ricominciano da tre. Il programma non ignora il grande sinfonismo italiano, specialmente Casella, ma prevede l’esecuzione integrale di tutte le sinfonie di Mahler (tranne l’ottava, chiamata “dei mille” perché richiede oltre 500 esecutori), Brahms e Schumann. Un programma ambizioso ma in cui, come dimostrato dal concerto inaugurale (L’Elegia Eroica di Casella e la prima Sinfonia di Mahler), l’orchestra promette un’ottima prova, non a caso già notata dalla critica straniera.
(Hans Sachs) 27 ott 2010 13:56
TOP
edizione completa
condividi con:
Stampa l'articolo
« torna indietro
Per la nuova stagione esecuzione integrale di tutte le sinfonie di Mahler, Brahms e Schumann
Roma, 27 ott (Il Velino) - È iniziata lunedì e proseguirà sino al 13 giugno la stagione dell’Orchestra Sinfonica Romana (Osr), l’unica formazione sinfonica in Europa completamente privata che non riceve neanche un euro da Stato ed enti locali. In programma due concerti la settimana (la domenica pomeriggio e il lunedì sera) nell’auditorium di via della Conciliazione, da circa duemila posti e sempre affollatissimo grazie a una politica di prezzi diretta ad incoraggiare il pubblico. L’abbonamento a 30 concerti è infatti di 300 euro ma giunge a 180 per gli anziani e scende ulteriormente a 100 per gli studenti. L’Orchestra - che ha il supporto della Fondazione Roma, di alcuni sponsor e di un pubblico entusiasta - oltre alla stagione in via della Conciliazione suona in luoghi di dolore, come ospedali e carceri. Senza mai fare alcuno sconto sulla qualità: diretti da Francesco La Vecchia, la scorsa estate la Sinfonica ha effettuato un’applaudita tournée negli Stati Uniti in luoghi dove il pubblico è noto per l’esigenza: Carnegie Hall di New York, Kennedy Center di Washington, Kimmel Center di Philadelphia, Shubert Theatre di Boston.
Nonostante queste qualità e salvo rare eccezioni, l’Osr è stata spesso snobbata da testate collegate ai “poteri forti” del mondo della musica e non ha avuto il rilievo che La Vecchia ed i suoi giovani colleghi meritano. Forse perché dà fastidio, soprattutto se si hanno riconoscimenti sulle maggiori testate internazionali, dimostrare che si può essere una grande orchestra sinfonica con professori giovani (l’età media era sui 23 anni quando l’avventura è iniziata) senza godere di appoggi politici. Questa stagione, La Vecchia e i suoi ragazzi ricominciano da tre. Il programma non ignora il grande sinfonismo italiano, specialmente Casella, ma prevede l’esecuzione integrale di tutte le sinfonie di Mahler (tranne l’ottava, chiamata “dei mille” perché richiede oltre 500 esecutori), Brahms e Schumann. Un programma ambizioso ma in cui, come dimostrato dal concerto inaugurale (L’Elegia Eroica di Casella e la prima Sinfonia di Mahler), l’orchestra promette un’ottima prova, non a caso già notata dalla critica straniera.
(Hans Sachs) 27 ott 2010 13:56
TOP
edizione completa
condividi con:
Stampa l'articolo
« torna indietro
L’anarchia delle troppe regole Il Velino 27 ottobre
ECO - L’anarchia delle troppe regole
Roma, 27 ott (Il Velino) - Il pomeriggio del 26 ottobre è stato presentato nella Sala della Regina della Camera dei Deputati il saggio di Roger Abravanel e Luca D’Agnese “REGOLE- Perché tutti gli italiani devono rispettare quelle giuste e rispettarle per rilanciare il Paese”. La presentazione era affidata ad un panel di alto livello; in sala un vero e proprio “parterre des rois”. In altre sedi, viene riportata la cronaca del dibattito (da cui è emerso un consenso sostanziale di esponenti della maggioranza e dell’opposizione sulle tesi proposte del libro di Abravanel e D’Agnese (che verrà ampiamente recensito nelle sedi appropriate da specialisti della materia). Un semplice economista, a cui da alcuni decenni vengono affidate schiere di giovani donne ed uomini, tuttavia, può aggiungere una chiosa ed una proposta alla ricerca ci Abravanel e D’Agnese. In primo luogo, ricordare loro le lezioni di economia politica, e di politica legislativa, impartite, in materia di regole, da due economisti in pectore ma che, a ragione dei casi della vita, fecero mestieri ben differenti: il Gen. George Clark ed Alessandro Manzoni. Nel maggio 1944, dopo l’ingresso trionfale a Roma, il Gen. Clark venne scortato a vedere i “Palazzi del Potere”. Non poteva mancare l’enorme edificio in quel di Via Venti Settembre, di cui oggi ha lo studio il Prof. On. Giulio Tremonti. Dopo aver camminato per corridoi coperti di cicche di sigarette e dall’intonaco scrostato, e vistato gabinetti (il termini più adatto sarebbe cessi) privi di carta igienica arrivò, con il piccolo corteo, allo scalone di marmo che ora porta agli uffici del Ministro, a saloni con mobili d’epoca, soffitti istoriati. Chiese di cosa si trattava; gli venne risposto che erano i locali della Corte dei Conti (che in effetti albergava colà). Si fece spiegare di cosa di trattasse. Gli venne illustrato il sistema dei controlli amministrativi (Corte dei Conti, inclusa). Dopo avere proferito un termine molto anglosassone (da non pronunciare in pubblico, e , quindi, da non tradurre) disse: “Che cosa meravigliosa! Peccato che in America non ce lo possiamo permettere”. Ai suoi fidi, aggiunse che con meccanismi analoghi forse gli Usa non avrebbero potuto vincere la guerra e, forse, neanche iniziarla. Don Lisander aveva messo già a confronto la Lombardia piena di regole e di grida sotto il dominio spagnolo: la corruttela imperversa pure nei conventi, le attività economiche vanno a ramengo, manca il pane, imperversano le pandemie, le filature tessili sono sull’orlo della rovina. Traversato l’Adda, Renzo tocca con mano la differenza quando arriva nella Repubblica Veneta: le regole sono poche e chiare, l’industria tessile di suo cugino prospera, viene bloccata pure la peste. Una dozzina di anni fa, l’attuale inquilino di Via Venti Settembre scrisse un saggio su “Lo Stato Criminogeno” in cui si documentava come la montagna di norme (spesso contraddittorie) inducono a cercare scorciatoie od a scavalcare leggi e decreti. Da allora, nonostante le promesse di ridurre tale macigno sull’economia del Paese, la montagna è diventata un proprio Himalaya: o si dispone di deroghe (suscitando quanto meno il livore di chi deve seguire il percorso formale previsto per tutti) o si resta immobili (come il figlio di Guglielmo Tell allo scoccare della freccia fatale). Nonostante la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione abbia gestito, ai tempi della “sinistra di governo”, una ricerca costata – pare - oltre 500.000 euro ed i cui esiti sono tali che, a differenza di tutti gli altri lavori della Sspa, il rapporto finale (ove completato) non è stato né pubblicato né messo sul sito (la Corte dei Conti – immagino – era in letargo). Cosa fare? Negli ultimi mesi, c’è stata molta attenzione sulle deroghe alle “regole” per la Protezione Civile ed i Grandi Eventi. Pochi sanno che la tutela del patrimonio archeologico (dalla Roma Antica a Pompei) è in gran parte nella mani di commissari che operano sulla base di ordinanze che prevedono deroghe a questo ed a quello. Poveri malcapitati che ogni giorno rischiano di essere trattati da criminali da colleghi invidiosi oppure da quei controllori che avrebbero fatto perdere la guerra al Gen.Clark o diffondere le malattie infettive della Milano sotto il giogo spagnolo. La soluzione è una sola: una normativa costituzionale come la “sunset legislation” anglosassone – nessuna legge può restare in vita più di 5-7 anni se approvato di nuovo dal Legislativo. Senza di essa le cinque strategie di Abramavel e D’Agnese rischiano di essere inghiottite da barracuda – esperti.
(Giuseppe Pennisi) 27 ott 2010 10:33
Roma, 27 ott (Il Velino) - Il pomeriggio del 26 ottobre è stato presentato nella Sala della Regina della Camera dei Deputati il saggio di Roger Abravanel e Luca D’Agnese “REGOLE- Perché tutti gli italiani devono rispettare quelle giuste e rispettarle per rilanciare il Paese”. La presentazione era affidata ad un panel di alto livello; in sala un vero e proprio “parterre des rois”. In altre sedi, viene riportata la cronaca del dibattito (da cui è emerso un consenso sostanziale di esponenti della maggioranza e dell’opposizione sulle tesi proposte del libro di Abravanel e D’Agnese (che verrà ampiamente recensito nelle sedi appropriate da specialisti della materia). Un semplice economista, a cui da alcuni decenni vengono affidate schiere di giovani donne ed uomini, tuttavia, può aggiungere una chiosa ed una proposta alla ricerca ci Abravanel e D’Agnese. In primo luogo, ricordare loro le lezioni di economia politica, e di politica legislativa, impartite, in materia di regole, da due economisti in pectore ma che, a ragione dei casi della vita, fecero mestieri ben differenti: il Gen. George Clark ed Alessandro Manzoni. Nel maggio 1944, dopo l’ingresso trionfale a Roma, il Gen. Clark venne scortato a vedere i “Palazzi del Potere”. Non poteva mancare l’enorme edificio in quel di Via Venti Settembre, di cui oggi ha lo studio il Prof. On. Giulio Tremonti. Dopo aver camminato per corridoi coperti di cicche di sigarette e dall’intonaco scrostato, e vistato gabinetti (il termini più adatto sarebbe cessi) privi di carta igienica arrivò, con il piccolo corteo, allo scalone di marmo che ora porta agli uffici del Ministro, a saloni con mobili d’epoca, soffitti istoriati. Chiese di cosa si trattava; gli venne risposto che erano i locali della Corte dei Conti (che in effetti albergava colà). Si fece spiegare di cosa di trattasse. Gli venne illustrato il sistema dei controlli amministrativi (Corte dei Conti, inclusa). Dopo avere proferito un termine molto anglosassone (da non pronunciare in pubblico, e , quindi, da non tradurre) disse: “Che cosa meravigliosa! Peccato che in America non ce lo possiamo permettere”. Ai suoi fidi, aggiunse che con meccanismi analoghi forse gli Usa non avrebbero potuto vincere la guerra e, forse, neanche iniziarla. Don Lisander aveva messo già a confronto la Lombardia piena di regole e di grida sotto il dominio spagnolo: la corruttela imperversa pure nei conventi, le attività economiche vanno a ramengo, manca il pane, imperversano le pandemie, le filature tessili sono sull’orlo della rovina. Traversato l’Adda, Renzo tocca con mano la differenza quando arriva nella Repubblica Veneta: le regole sono poche e chiare, l’industria tessile di suo cugino prospera, viene bloccata pure la peste. Una dozzina di anni fa, l’attuale inquilino di Via Venti Settembre scrisse un saggio su “Lo Stato Criminogeno” in cui si documentava come la montagna di norme (spesso contraddittorie) inducono a cercare scorciatoie od a scavalcare leggi e decreti. Da allora, nonostante le promesse di ridurre tale macigno sull’economia del Paese, la montagna è diventata un proprio Himalaya: o si dispone di deroghe (suscitando quanto meno il livore di chi deve seguire il percorso formale previsto per tutti) o si resta immobili (come il figlio di Guglielmo Tell allo scoccare della freccia fatale). Nonostante la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione abbia gestito, ai tempi della “sinistra di governo”, una ricerca costata – pare - oltre 500.000 euro ed i cui esiti sono tali che, a differenza di tutti gli altri lavori della Sspa, il rapporto finale (ove completato) non è stato né pubblicato né messo sul sito (la Corte dei Conti – immagino – era in letargo). Cosa fare? Negli ultimi mesi, c’è stata molta attenzione sulle deroghe alle “regole” per la Protezione Civile ed i Grandi Eventi. Pochi sanno che la tutela del patrimonio archeologico (dalla Roma Antica a Pompei) è in gran parte nella mani di commissari che operano sulla base di ordinanze che prevedono deroghe a questo ed a quello. Poveri malcapitati che ogni giorno rischiano di essere trattati da criminali da colleghi invidiosi oppure da quei controllori che avrebbero fatto perdere la guerra al Gen.Clark o diffondere le malattie infettive della Milano sotto il giogo spagnolo. La soluzione è una sola: una normativa costituzionale come la “sunset legislation” anglosassone – nessuna legge può restare in vita più di 5-7 anni se approvato di nuovo dal Legislativo. Senza di essa le cinque strategie di Abramavel e D’Agnese rischiano di essere inghiottite da barracuda – esperti.
(Giuseppe Pennisi) 27 ott 2010 10:33
Se Bondi vuole salvare la lirica, corra a Firenze a vedere e ascoltare “Pollicino” di Hans Werner Henze Il Foglio 27 ottobre
Se Bondi vuole salvare la lirica, corra a Firenze a vedere e ascoltare “Pollicino” di Hans Werner Henze
Gallerie immagini:
•
Se il ministro Sandro Bondi vuole davvero salvare l’opera lirica, il primo passo non consiste necessariamente nel chiedere al collega titolare dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti, una esenzione dai “tagli” inferti a tutti i dicasteri. Meglio correre – se del caso in compagnia del titolare della borsa della finanza pubblica – a Firenze per una delle repliche di “Pollicino” di Hans Werner Henze (in scena sino al 29 ottobre), scegliendo, preferibilmente, una di mattina alle 10.
Troverà il teatro pieno di ragazzi (dai bambini delle elementari agli adolescenti delle superiori) e, tra loro, qualche adulto (che giovane è rimasto nel cuore) – annidato nelle poltrone laterali, per non dare nell’occhio. Per poco più di un’ora e mezza, senza intervallo, li vedrà seguire entusiasti una favola (il libretto è di Giuseppe Di Leva) che è anche un’allegoria – della vita e, quindi, della politica. Ascolterà una partitura che è un corso intensivo di musica: riesce a fondere (con una piccola orchestra, 14 giovanissimi cantanti-attori, un baritono, un soprano , un mezzo soprano e qualche comprimario) Scarlatti con echi dodecafonici, con due canzoni popolari e con alcune citazioni dal “Rigoletto”. Scene a basso costo, un minimo di proiezioni negli interludi ed un abile regia fanno il resto. La direzione musicale è di Francesco Bonnin, l’allestimento di Italo Grassi, la regia di Dieter Kaegi.
“Pollicino”, tratta da fiabe di Collodi, Grimm e Perrault, è un’opera per bambini, genere sparito in Italia, mentre negli Stati Uniti ed in Germania i teatri mettono spesso in scena non solo questa – è l’opera di Henze più rappresentata al mondo – ma anche “Hansel and Gretel” di Humperdinck, “Hans Hailing” di Marschner e “Amahl and the Night Visitors” e “Help, Help, the Globolinks” , ambedue di Giancarlo Menotti (la seconda è in cartellone al Massimo di Palermo nel 2011), nonché tanti altri titoli scritti per il pubblico giovane o adattati a questo scopo.
Se non si scopre da giovani la magia del teatro in musica, i teatri assomiglieranno sempre più a Cral per pensionati a reddito medio-alto, e i manager di banche ed imprese si domanderanno perché finanziare l’intrattenimento di chi ormai pensa più all’altro mondo che a questo. Non è, però, solo divertimento per bambini ed adolescenti. “Pollicino” è anche una storia di maturazione e di crescita verso la vita (come un “bildungsroman” della tradizione tedesca) . E’ soprattutto un raffinato apologo del cambiamento di classe dirigente quando la precedente (i genitori di Pollicino e dei suoi fratelli, il “sindacato” – sic! – degli orchi) ha esaurito il proprio compito.
I ragazzi recitano, cantano e fanno musica – producono ed odono suoni con i quali più tardi s’incontreranno nelle sale di concerto e nei teatri d’opera. Per questo la partitura è densa di citazioni, dal Settecento alle tecniche del nostro tempo. Per questo prevede anche un pianoforte ed un violino solisti (che facciano annusare la cameristica ai giovani spettatori). Per questo la fisarmonica melanconica accompagna il mondo degli adulti (la classe dirigente del passato), i flauti dolci rappresentando l’animo dei ragazzi, mentre il violoncello ed il contrabbasso, unitamente alle percussioni, il loro maturare sino a varcare il guado di un fiume e (sono in sette) avere, su un prato, la prima esperienza con sette coetanee. Facendo musica e cantando, la accettano come parte della nostra realtà. Da giovani e per tutta la vita.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
Categorie articolo: Cultura / Politica it
Gallerie immagini:
•
Se il ministro Sandro Bondi vuole davvero salvare l’opera lirica, il primo passo non consiste necessariamente nel chiedere al collega titolare dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti, una esenzione dai “tagli” inferti a tutti i dicasteri. Meglio correre – se del caso in compagnia del titolare della borsa della finanza pubblica – a Firenze per una delle repliche di “Pollicino” di Hans Werner Henze (in scena sino al 29 ottobre), scegliendo, preferibilmente, una di mattina alle 10.
Troverà il teatro pieno di ragazzi (dai bambini delle elementari agli adolescenti delle superiori) e, tra loro, qualche adulto (che giovane è rimasto nel cuore) – annidato nelle poltrone laterali, per non dare nell’occhio. Per poco più di un’ora e mezza, senza intervallo, li vedrà seguire entusiasti una favola (il libretto è di Giuseppe Di Leva) che è anche un’allegoria – della vita e, quindi, della politica. Ascolterà una partitura che è un corso intensivo di musica: riesce a fondere (con una piccola orchestra, 14 giovanissimi cantanti-attori, un baritono, un soprano , un mezzo soprano e qualche comprimario) Scarlatti con echi dodecafonici, con due canzoni popolari e con alcune citazioni dal “Rigoletto”. Scene a basso costo, un minimo di proiezioni negli interludi ed un abile regia fanno il resto. La direzione musicale è di Francesco Bonnin, l’allestimento di Italo Grassi, la regia di Dieter Kaegi.
“Pollicino”, tratta da fiabe di Collodi, Grimm e Perrault, è un’opera per bambini, genere sparito in Italia, mentre negli Stati Uniti ed in Germania i teatri mettono spesso in scena non solo questa – è l’opera di Henze più rappresentata al mondo – ma anche “Hansel and Gretel” di Humperdinck, “Hans Hailing” di Marschner e “Amahl and the Night Visitors” e “Help, Help, the Globolinks” , ambedue di Giancarlo Menotti (la seconda è in cartellone al Massimo di Palermo nel 2011), nonché tanti altri titoli scritti per il pubblico giovane o adattati a questo scopo.
Se non si scopre da giovani la magia del teatro in musica, i teatri assomiglieranno sempre più a Cral per pensionati a reddito medio-alto, e i manager di banche ed imprese si domanderanno perché finanziare l’intrattenimento di chi ormai pensa più all’altro mondo che a questo. Non è, però, solo divertimento per bambini ed adolescenti. “Pollicino” è anche una storia di maturazione e di crescita verso la vita (come un “bildungsroman” della tradizione tedesca) . E’ soprattutto un raffinato apologo del cambiamento di classe dirigente quando la precedente (i genitori di Pollicino e dei suoi fratelli, il “sindacato” – sic! – degli orchi) ha esaurito il proprio compito.
I ragazzi recitano, cantano e fanno musica – producono ed odono suoni con i quali più tardi s’incontreranno nelle sale di concerto e nei teatri d’opera. Per questo la partitura è densa di citazioni, dal Settecento alle tecniche del nostro tempo. Per questo prevede anche un pianoforte ed un violino solisti (che facciano annusare la cameristica ai giovani spettatori). Per questo la fisarmonica melanconica accompagna il mondo degli adulti (la classe dirigente del passato), i flauti dolci rappresentando l’animo dei ragazzi, mentre il violoncello ed il contrabbasso, unitamente alle percussioni, il loro maturare sino a varcare il guado di un fiume e (sono in sette) avere, su un prato, la prima esperienza con sette coetanee. Facendo musica e cantando, la accettano come parte della nostra realtà. Da giovani e per tutta la vita.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
Categorie articolo: Cultura / Politica it
lunedì 25 ottobre 2010
Opera, che delizia il “Pollicino” fiorentino Il Velino 25 ottobre
CLT - Opera, che delizia il “Pollicino” fiorentino
Roma, 25 ott (Il Velino) - “C’era una volta”, si potrebbe dire come nelle fiabe, l’opera lirica per bambini. Un genere curato da compositori giovani, si pensi a “Bastien und Bastienne” di Mozart a ad alcuni lavori di Schubert, o anche maturi, come Menotti e Britten, che hanno concepito e composto opere per bambini. A Singapore, dove è stato costruito da alcuni anni un nuovissimo teatro d’opera, c’è addirittura una piccola compagnia specializzata nell’allestimento di opere liriche occidentali per bambini; è un modo per avvicinarli a una componente della loro cultura inter-etnica (la tradizione britannica). Il genere non ha mai avuto grande diffusione in Italia (le opere di Menotti per bambini erano per il mondo anglosassone), nonostante alcuni esempi come “Lupus in Fabula” di Raffaele Sargenti e “Mandrake” di Nicola Colabianchi. Gli italiani, si sa, sono scettici e disincantati: non hanno mai amato le favole che nel teatro in musica tedesco e britannico hanno un ruolo importante. Unica eccezione di rilievo: “Turandot” di Giacomo Puccini, peraltro non certo pensata per un pubblico di giovanissimi.
Altra eccezione importante, concepita non soltanto per un pubblico adulto ma anche per un “cast” di ragazzi e di ragazzi di Montepulciano è “Pollicino” di Hans Werner Henze, forse il maggior compositore contemporaneo vivente. L’opera, un atto unico in dodici scene, con tre interludi orchestrali, per una durata complessiva di circa 90 minuti è stata composta, una trentina di anni fa, su libretto di Giuseppe Di Leva ed è diventata l’opera di Henze più rappresentata al mondo nelle sue numerose traduzioni ritmiche. Dal 21 ottobre “Pollicino” è in scena al Piccolo Teatro del Comunale di Firenze. Le opere per bambini avevano una funzione importante: avvicinare le giovani generazioni a una forma di spettacolo teatrale in cui non si parla ma si canta con accompagnamento musicale e con interludi solo strumentali nei cambi scena. Il pubblico fiorentino ascolterà una partitura che è un corso intensivo di musica: riesce a fondere, con una piccola orchestra, 14 giovanissimi cantanti-attori, un baritono, un soprano, un mezzo soprano e qualche comprimario, un autore come Scarlatti con echi dodecafonici, con due canzoni popolari e con alcune citazioni dal “Rigoletto”. Scene a basso costo, un minimo di proiezioni negli interludi e un abile regia fanno il resto. La direzione musicale è di Francesco Bonnin, l’allestimento di Italo Grassi, la regia di Dieter Kaegi.
Non è, però, solo divertimento per bambini e adolescenti. “Pollicino” è anche una storia di maturazione e di crescita verso la vita (come un “bildungsroman” della tradizione tedesca). E’ soprattutto un raffinato apologo del cambiamento di classe dirigente quando la precedente (i genitori di Pollicino e dei suoi fratelli, il “sindacato” – sic!- degli orchi) ha esaurito il proprio compito. I ragazzi recitano, cantano, fanno musica, producono e odono suoni con i quali nei prossimi anni s’imbatteranno nelle sale di concerto e nei teatri d’opera. Merita un salto a Firenze per goderselo.
(Hans Sachs) 25 ott 2010 11:42
Roma, 25 ott (Il Velino) - “C’era una volta”, si potrebbe dire come nelle fiabe, l’opera lirica per bambini. Un genere curato da compositori giovani, si pensi a “Bastien und Bastienne” di Mozart a ad alcuni lavori di Schubert, o anche maturi, come Menotti e Britten, che hanno concepito e composto opere per bambini. A Singapore, dove è stato costruito da alcuni anni un nuovissimo teatro d’opera, c’è addirittura una piccola compagnia specializzata nell’allestimento di opere liriche occidentali per bambini; è un modo per avvicinarli a una componente della loro cultura inter-etnica (la tradizione britannica). Il genere non ha mai avuto grande diffusione in Italia (le opere di Menotti per bambini erano per il mondo anglosassone), nonostante alcuni esempi come “Lupus in Fabula” di Raffaele Sargenti e “Mandrake” di Nicola Colabianchi. Gli italiani, si sa, sono scettici e disincantati: non hanno mai amato le favole che nel teatro in musica tedesco e britannico hanno un ruolo importante. Unica eccezione di rilievo: “Turandot” di Giacomo Puccini, peraltro non certo pensata per un pubblico di giovanissimi.
Altra eccezione importante, concepita non soltanto per un pubblico adulto ma anche per un “cast” di ragazzi e di ragazzi di Montepulciano è “Pollicino” di Hans Werner Henze, forse il maggior compositore contemporaneo vivente. L’opera, un atto unico in dodici scene, con tre interludi orchestrali, per una durata complessiva di circa 90 minuti è stata composta, una trentina di anni fa, su libretto di Giuseppe Di Leva ed è diventata l’opera di Henze più rappresentata al mondo nelle sue numerose traduzioni ritmiche. Dal 21 ottobre “Pollicino” è in scena al Piccolo Teatro del Comunale di Firenze. Le opere per bambini avevano una funzione importante: avvicinare le giovani generazioni a una forma di spettacolo teatrale in cui non si parla ma si canta con accompagnamento musicale e con interludi solo strumentali nei cambi scena. Il pubblico fiorentino ascolterà una partitura che è un corso intensivo di musica: riesce a fondere, con una piccola orchestra, 14 giovanissimi cantanti-attori, un baritono, un soprano, un mezzo soprano e qualche comprimario, un autore come Scarlatti con echi dodecafonici, con due canzoni popolari e con alcune citazioni dal “Rigoletto”. Scene a basso costo, un minimo di proiezioni negli interludi e un abile regia fanno il resto. La direzione musicale è di Francesco Bonnin, l’allestimento di Italo Grassi, la regia di Dieter Kaegi.
Non è, però, solo divertimento per bambini e adolescenti. “Pollicino” è anche una storia di maturazione e di crescita verso la vita (come un “bildungsroman” della tradizione tedesca). E’ soprattutto un raffinato apologo del cambiamento di classe dirigente quando la precedente (i genitori di Pollicino e dei suoi fratelli, il “sindacato” – sic!- degli orchi) ha esaurito il proprio compito. I ragazzi recitano, cantano, fanno musica, producono e odono suoni con i quali nei prossimi anni s’imbatteranno nelle sale di concerto e nei teatri d’opera. Merita un salto a Firenze per goderselo.
(Hans Sachs) 25 ott 2010 11:42
sabato 23 ottobre 2010
ECCO COSA STA SUCCEDENDO SUI MERCATI VALUTARI Avvenire 23 ottobre
ECCO COSA STA SUCCEDENDO SUI MERCATI VALUTARI
Giuseppe Pennisi
Perché è in corso una guerra dei cambi?
La “guerra dei cambi” in corso in questi giorni ha radici nell’economia reale: l’Europa dalla fine della seconda guerra mondiale, l’Estremo Oriente dagli Anni Settanta e la Cina dalle “quattro liberalizzazioni” della metà degli Anni Ottanta seguono politiche di sviluppo al traino dei mercati esteri; gli Usa hanno, invece, politiche di crescita basate sulla domanda interna e le importazioni contribuiscono anche a calmierare l’inflazione. Negli ultimi 12 mesi , gli Usa hanno avuto un disavanzo dei conti con l’estero circa 430 miliardi di dollari, a fronte di uno di 65 miliardi di dollari per l’unione monetaria europea e di surplus di 290 miliardi di dollari riportati dalla Cina e di 180 miliardi di dollari dal Giappone. In queste condizioni – che si protraggono da anni- scena la fiducia nel valore internazionale nel dollaro degli Stati Uniti. D’altro canto, la Cina non pare avare alcuna intenzione di sganciare la propria moneta da un cambio fisso con il biglietto verde.
Ci siamo trovati altre volte in questa situazione?
Le “guerre” più recenti risalgano agli Anni Settanta , dopo la fine del regime monetario creato nel 1944 a Bretton Woods e prima dell’”accordo del Plaza” del 1985 quando si cercò di mettere ordine a politiche economiche e valutaria nell’area atlantica ampliata al Giappone. Allora non si prevedeva ancora la rapida ascesa, sulla scena monetaria, di Cina, India, Brasile, Messico ed altri “emergenti”.
Alla fine chi saranno i vincitori e chi i vinti?
E’ difficile sapere chi saranno i vincitori e chi i vinti. Un apprezzamento dello yuan non sarebbe di per se una vittoria :non solo perché la crescita cinese è una delle locomotive dell’economia internazionale e potrebbe subire un rallentamento ad una modifica del cambio, ma soprattutto in quanto tale decelerazione potrebbe provocare seri problemi interni in un Paese di 1,4 miliardi di persone con etnie differenti, nessuna lingua “franca” parlata e tensioni razziali fortissime.. Nessuno sa quante guerre o guerriglie sono in corso in quello che un tempo era il Celeste Impero. Un eventuale implosione della Cina sarebbe foriera di danni per tutti.
Quali rischi invece per la moneta unica europea?
In questo quadro, si dischiudono opportunità all’euro che- come dimostrato da Avvenire il 19 ottobre ha un raggio di estensione molto più vasto dei confini dell’unione monetaria europea. Sempre che l’Europa sappia agire all’unisono.
Giuseppe Pennisi
Perché è in corso una guerra dei cambi?
La “guerra dei cambi” in corso in questi giorni ha radici nell’economia reale: l’Europa dalla fine della seconda guerra mondiale, l’Estremo Oriente dagli Anni Settanta e la Cina dalle “quattro liberalizzazioni” della metà degli Anni Ottanta seguono politiche di sviluppo al traino dei mercati esteri; gli Usa hanno, invece, politiche di crescita basate sulla domanda interna e le importazioni contribuiscono anche a calmierare l’inflazione. Negli ultimi 12 mesi , gli Usa hanno avuto un disavanzo dei conti con l’estero circa 430 miliardi di dollari, a fronte di uno di 65 miliardi di dollari per l’unione monetaria europea e di surplus di 290 miliardi di dollari riportati dalla Cina e di 180 miliardi di dollari dal Giappone. In queste condizioni – che si protraggono da anni- scena la fiducia nel valore internazionale nel dollaro degli Stati Uniti. D’altro canto, la Cina non pare avare alcuna intenzione di sganciare la propria moneta da un cambio fisso con il biglietto verde.
Ci siamo trovati altre volte in questa situazione?
Le “guerre” più recenti risalgano agli Anni Settanta , dopo la fine del regime monetario creato nel 1944 a Bretton Woods e prima dell’”accordo del Plaza” del 1985 quando si cercò di mettere ordine a politiche economiche e valutaria nell’area atlantica ampliata al Giappone. Allora non si prevedeva ancora la rapida ascesa, sulla scena monetaria, di Cina, India, Brasile, Messico ed altri “emergenti”.
Alla fine chi saranno i vincitori e chi i vinti?
E’ difficile sapere chi saranno i vincitori e chi i vinti. Un apprezzamento dello yuan non sarebbe di per se una vittoria :non solo perché la crescita cinese è una delle locomotive dell’economia internazionale e potrebbe subire un rallentamento ad una modifica del cambio, ma soprattutto in quanto tale decelerazione potrebbe provocare seri problemi interni in un Paese di 1,4 miliardi di persone con etnie differenti, nessuna lingua “franca” parlata e tensioni razziali fortissime.. Nessuno sa quante guerre o guerriglie sono in corso in quello che un tempo era il Celeste Impero. Un eventuale implosione della Cina sarebbe foriera di danni per tutti.
Quali rischi invece per la moneta unica europea?
In questo quadro, si dischiudono opportunità all’euro che- come dimostrato da Avvenire il 19 ottobre ha un raggio di estensione molto più vasto dei confini dell’unione monetaria europea. Sempre che l’Europa sappia agire all’unisono.
giovedì 21 ottobre 2010
Un lodo per Santa Cecilia Il Velino 21 ottobre
Il Velino presenta, in esclusiva per gli abbonati, le notizie via via che vengono inserite.
ECO - Un lodo per Santa Cecilia
Roma, 21 ott (Il Velino) - In una rubrica di commenti economici come questa, i “lodi” giudiziari e le orchestre sinfoniche hanno posto unicamente se incidono sul funzionamento dell’economia. Quello che sta avvenendo attorno a una vicenda poco nota ai non addetti ai lavori può incidere in misura seria non soltanto sulle tasche di uno dei più apprezzati musicologi italiani ma sul prestigio di un’istituzione che per secoli ha onorato la capitale e la cui formazione sinfonica da oltre cento anni è considerata uno dei fiori all’occhiello di Roma: l’Accademia di Santa Cecilia e la sua orchestra sinfonica. Come ci ha insegnato Indro Montanelli, veniamo ai fatti. Il Maestro Alfredo Gasponi, professore di un prestigioso conservatorio e da anni critico musicale del Messaggero (di cui è collaboratore, non redattore), è stato condannato dalla Corte d'appello di Roma a un risarcimento per oltre 500 mila euro, compresi gli interessi, per un servizio uscito nel 1996 sull'Orchestra di Santa Cecilia. Il 9 marzo di quell’anno Gasponi aveva pubblicato sul quotidiano un'intervista in cui il noto direttore tedesco Wolfgang Sawallisch si lamentava di problemi intervenuti durante le prove per la presenza di troppi giovani aggiunti e proponeva concorsi più rigorosi prima di dare loro un contratto a tempo indeterminato, ossia a vita.
Un'intervista condotta con toni tutt'altro che scandalistici, da un professionista noto per equilibrio e che alle parole del direttore tedesco affianca le repliche affidate alla voce degli stessi musicisti e a quelle del presidente-a-vita dell'istituzione, il professor Bruno Cagli. Un occhiello sulla prima pagina del quotidiano - allora diretto da Giulio Anselmi - ha una frase mirata ad attirare l'attenzione: “A Santa Cecilia non sanno suonare”. Di qui, per iniziativa di circa 80 componenti dell'orchestra, parte una querela per diffamazione, che nel suo secondo grado di giudizio condanna Gasponi al pagamento di 500 mila euro di danni. In quanto collaboratore del Messaggero, Gasponi non ha titolo - si perdoni il calambour - a fare alcun titolo. Ciò spetta esclusivamente alla redazione; la prima pagina è poi appannaggio del direttore, dei suoi vice e al più dei redattori capo. Secondo la sentenza di secondo grado, Gasponi avrebbe confezionato “un articolo volutamente scandalistico”, distorcendo “il pensiero” di Sawallisch, nonostante il Maestro tedesco abbia rilasciato una dichiarazione scritta in cui afferma che Gasponi ha riportato fedelmente le sue parole.
Il caso è gravissimo non solo per i 14 anni di processi sostenuti da Gasponi "colpevole" di aver svolto il suo lavoro ma per la ferita alla libertà di stampa. Ora la vicenda giudiziaria è in Cassazione. L’Associazione nazionale dei critici musicali (Ancm) ha inviato un appello al Presidente (in scadenza) dell’Accademia, Cagli, perché eserciti la propria autorevolezza nei confronti dei musicisti. Non soltanto tutti i critici musicali italiani hanno stigmatizzato la loro azione, ma alcuni hanno declinato l’invito ad accompagnare l’orchestra in tournée e le recenti recensioni del Guillaume Tell mostrano come si tenda a parlare del maestro concertatore, dei solisti del coro ma a ignorare l’orchestra, copertasi quanto meno d’imbarazzo. Anche la stampa specializzata straniera sta cominciando a parlare dell’“insolito caso” di musicisti che vietano ai critici e a Numi come Sawallisch di esprimere le proprie idee. Il danno d’immagine è serio. Non solo all’Accademia e all’orchestra (forti riserve sono state espresse al ministero dei Beni culturali, dal cui supporto dipende) ma per l’Italia. Prima del termine del suo mandato, il professor Cagli dovrebbe farsi promotore di un “lodo”: dopo 14 anni, chi ha avuto, ha avuto e chi ha dato, ha dato. È nell’interesse degli stessi orchestrali fare sparire una macchia, oggetto di perplessità in Italia e all’estero. E di danni per tutti.
ECO - Un lodo per Santa Cecilia
Roma, 21 ott (Il Velino) - In una rubrica di commenti economici come questa, i “lodi” giudiziari e le orchestre sinfoniche hanno posto unicamente se incidono sul funzionamento dell’economia. Quello che sta avvenendo attorno a una vicenda poco nota ai non addetti ai lavori può incidere in misura seria non soltanto sulle tasche di uno dei più apprezzati musicologi italiani ma sul prestigio di un’istituzione che per secoli ha onorato la capitale e la cui formazione sinfonica da oltre cento anni è considerata uno dei fiori all’occhiello di Roma: l’Accademia di Santa Cecilia e la sua orchestra sinfonica. Come ci ha insegnato Indro Montanelli, veniamo ai fatti. Il Maestro Alfredo Gasponi, professore di un prestigioso conservatorio e da anni critico musicale del Messaggero (di cui è collaboratore, non redattore), è stato condannato dalla Corte d'appello di Roma a un risarcimento per oltre 500 mila euro, compresi gli interessi, per un servizio uscito nel 1996 sull'Orchestra di Santa Cecilia. Il 9 marzo di quell’anno Gasponi aveva pubblicato sul quotidiano un'intervista in cui il noto direttore tedesco Wolfgang Sawallisch si lamentava di problemi intervenuti durante le prove per la presenza di troppi giovani aggiunti e proponeva concorsi più rigorosi prima di dare loro un contratto a tempo indeterminato, ossia a vita.
Un'intervista condotta con toni tutt'altro che scandalistici, da un professionista noto per equilibrio e che alle parole del direttore tedesco affianca le repliche affidate alla voce degli stessi musicisti e a quelle del presidente-a-vita dell'istituzione, il professor Bruno Cagli. Un occhiello sulla prima pagina del quotidiano - allora diretto da Giulio Anselmi - ha una frase mirata ad attirare l'attenzione: “A Santa Cecilia non sanno suonare”. Di qui, per iniziativa di circa 80 componenti dell'orchestra, parte una querela per diffamazione, che nel suo secondo grado di giudizio condanna Gasponi al pagamento di 500 mila euro di danni. In quanto collaboratore del Messaggero, Gasponi non ha titolo - si perdoni il calambour - a fare alcun titolo. Ciò spetta esclusivamente alla redazione; la prima pagina è poi appannaggio del direttore, dei suoi vice e al più dei redattori capo. Secondo la sentenza di secondo grado, Gasponi avrebbe confezionato “un articolo volutamente scandalistico”, distorcendo “il pensiero” di Sawallisch, nonostante il Maestro tedesco abbia rilasciato una dichiarazione scritta in cui afferma che Gasponi ha riportato fedelmente le sue parole.
Il caso è gravissimo non solo per i 14 anni di processi sostenuti da Gasponi "colpevole" di aver svolto il suo lavoro ma per la ferita alla libertà di stampa. Ora la vicenda giudiziaria è in Cassazione. L’Associazione nazionale dei critici musicali (Ancm) ha inviato un appello al Presidente (in scadenza) dell’Accademia, Cagli, perché eserciti la propria autorevolezza nei confronti dei musicisti. Non soltanto tutti i critici musicali italiani hanno stigmatizzato la loro azione, ma alcuni hanno declinato l’invito ad accompagnare l’orchestra in tournée e le recenti recensioni del Guillaume Tell mostrano come si tenda a parlare del maestro concertatore, dei solisti del coro ma a ignorare l’orchestra, copertasi quanto meno d’imbarazzo. Anche la stampa specializzata straniera sta cominciando a parlare dell’“insolito caso” di musicisti che vietano ai critici e a Numi come Sawallisch di esprimere le proprie idee. Il danno d’immagine è serio. Non solo all’Accademia e all’orchestra (forti riserve sono state espresse al ministero dei Beni culturali, dal cui supporto dipende) ma per l’Italia. Prima del termine del suo mandato, il professor Cagli dovrebbe farsi promotore di un “lodo”: dopo 14 anni, chi ha avuto, ha avuto e chi ha dato, ha dato. È nell’interesse degli stessi orchestrali fare sparire una macchia, oggetto di perplessità in Italia e all’estero. E di danni per tutti.
mercoledì 20 ottobre 2010
Musica, una grande idea per far scoprire una grande orchestra Il Velino 20 ottobre
CLT - Musica, una grande idea per far scoprire una grande orchestra
Roma, 20 ott (Il Velino) - Dell’Istituzione Universitaria dei Concerti, annidata nella splendida aula Magna de La Sapienza di Roma con una scena fissa firmata Sironi (un grandioso e magnifico murale), anche la stampa romana parla poco. Schiacciata, come è, dal Parco della Musica, dall’Orchestra Sinfonica Romana, dalla Filarmonica Romana e da tante altre iniziative. Eppure, nonostante viva molto di volontariato, è una delle istituzioni musicali più dinamiche e vitali della Capitale. Offre due serie di abbonamenti: una il sabato pomeriggio e l’altra il martedì sera. Ha prezzi contenuti e un programma di qualità. La stagione “pomeridiana” è stata aperta dai concerti brandeburghesi di Bach con Jordi Savall alla guida de Les Concerts des Nations. La vera sorpresa è stata l’inaugurazione della stagione “serale” di ieri, affidata a The Isreali Camerata Jerusalem diretta dal fondatore Avner Biron e con il giovane pianista Roman Rabonovich. Si pensava a una serata “celebrativa” in quanto dedicata ai 15 anni della morte di Itzhak Rabin, premio Nobel per la Pace, e con un programma tranne il primo pezzo consueto (Mozart, Sostakovic, Haydn). Invece, come ha osservato dopo lo spettacolo un noto musicologo, ci è parso di essere non a Roma ma a Lucerna, per il grande festival sinfonico. Suono purissimo da parte di solisti di grande talento, trasformati da Avner Biron in un complesso coeso, un pianista venticinquenne destinato a diventare uno dei grandi interpreti sulla scena mondiale, un complesso snello (tra il cameristico e il “piccolo sinfonico”) ma tale da fare ascoltare suoni da grande organico (specialmente ne la Sinfonia da Camera di Sostakovic). Il pubblico è rimasto incantato e ha richiesto e ottenuto il bis sia da Rabonovich che dall’intero complesso.
Le “Prayers” di Norman Sheriff, con cui è stato introdotto il concetto, sono una novità per l’Italia. Risalgono al 1883. Commissionati dai Berliner Philarmoniker risentono dello stile di Alfred Schnittke, il compositore russo creatore del polistilismo musicale. L’atmosfera di preghiera viene creata da un nucleo centrale (imperniato sul “La” iniziale) e da brevi cadenze con cui le sezioni degli archi dialogano fra loro. Un vero “pièce d’atmosphère” sino al climax finale all’unisono. Nel concerto in “si” bemolle K 595 ha primeggiato lo straordinario Rabonovich per la maestria con cui ha affrontato la difficile scrittura di un Mozart appena tornato, dopo una pausa di tre anni, ai concerti per piano e orchestra. Intrigante la Sinfonia da camera di Sostakovic, di rara esecuzione in Italia. La Camerata ne ha fatto risaltare tutta la tinta autobiografica: da un lato il ricordo della distruzione di Dresda, dall’altro i presentimenti dell’avvicinarsi di una malattia che gli sarebbe risultata fatale. Opera matura nella produzione di Sostakovic, affrontata dall’orchestra con estrema delicatezza. E per concludere, prima dei bis, la grande serenità della Sinfonia n. 34 di Haydn in cui, formalizzata la struttura in quattro movimenti, vengono sovrapposti differenti stili.
Roma, 20 ott (Il Velino) - Dell’Istituzione Universitaria dei Concerti, annidata nella splendida aula Magna de La Sapienza di Roma con una scena fissa firmata Sironi (un grandioso e magnifico murale), anche la stampa romana parla poco. Schiacciata, come è, dal Parco della Musica, dall’Orchestra Sinfonica Romana, dalla Filarmonica Romana e da tante altre iniziative. Eppure, nonostante viva molto di volontariato, è una delle istituzioni musicali più dinamiche e vitali della Capitale. Offre due serie di abbonamenti: una il sabato pomeriggio e l’altra il martedì sera. Ha prezzi contenuti e un programma di qualità. La stagione “pomeridiana” è stata aperta dai concerti brandeburghesi di Bach con Jordi Savall alla guida de Les Concerts des Nations. La vera sorpresa è stata l’inaugurazione della stagione “serale” di ieri, affidata a The Isreali Camerata Jerusalem diretta dal fondatore Avner Biron e con il giovane pianista Roman Rabonovich. Si pensava a una serata “celebrativa” in quanto dedicata ai 15 anni della morte di Itzhak Rabin, premio Nobel per la Pace, e con un programma tranne il primo pezzo consueto (Mozart, Sostakovic, Haydn). Invece, come ha osservato dopo lo spettacolo un noto musicologo, ci è parso di essere non a Roma ma a Lucerna, per il grande festival sinfonico. Suono purissimo da parte di solisti di grande talento, trasformati da Avner Biron in un complesso coeso, un pianista venticinquenne destinato a diventare uno dei grandi interpreti sulla scena mondiale, un complesso snello (tra il cameristico e il “piccolo sinfonico”) ma tale da fare ascoltare suoni da grande organico (specialmente ne la Sinfonia da Camera di Sostakovic). Il pubblico è rimasto incantato e ha richiesto e ottenuto il bis sia da Rabonovich che dall’intero complesso.
Le “Prayers” di Norman Sheriff, con cui è stato introdotto il concetto, sono una novità per l’Italia. Risalgono al 1883. Commissionati dai Berliner Philarmoniker risentono dello stile di Alfred Schnittke, il compositore russo creatore del polistilismo musicale. L’atmosfera di preghiera viene creata da un nucleo centrale (imperniato sul “La” iniziale) e da brevi cadenze con cui le sezioni degli archi dialogano fra loro. Un vero “pièce d’atmosphère” sino al climax finale all’unisono. Nel concerto in “si” bemolle K 595 ha primeggiato lo straordinario Rabonovich per la maestria con cui ha affrontato la difficile scrittura di un Mozart appena tornato, dopo una pausa di tre anni, ai concerti per piano e orchestra. Intrigante la Sinfonia da camera di Sostakovic, di rara esecuzione in Italia. La Camerata ne ha fatto risaltare tutta la tinta autobiografica: da un lato il ricordo della distruzione di Dresda, dall’altro i presentimenti dell’avvicinarsi di una malattia che gli sarebbe risultata fatale. Opera matura nella produzione di Sostakovic, affrontata dall’orchestra con estrema delicatezza. E per concludere, prima dei bis, la grande serenità della Sinfonia n. 34 di Haydn in cui, formalizzata la struttura in quattro movimenti, vengono sovrapposti differenti stili.
I DOVERI DI UN EURO IMPERIALE Avvenire 20 ottobre
I DOVERI DI UN EURO IMPERIALE
Giuseppe Pennisi
Nell’ultima settimana l’euro si è apprezzato del 10 per cento rispetto al dollaro Usa. Ciò frena le esportazioni dell’area della moneta unica; dato che dal 1945 l’Europa continentale segue un modello di crescita basato sull’export, ne rallenta l’aumento del Pil, con un inevitabile aggravio delle tensioni sociali.
C’è un aspetto poco notato. In parte per ragioni giuridico-formali, in parte per l’attrazione innescata dall’apprezzamento degli ultimi anni, l’euro è diventata o la moneta comune o l’ancora di un sistema molto più vasto di quello dell’Eurogruppo. E’l’unità di misura, di transazione e di riserva non solo di “piccoli” Stati europei (Andorra, Monaco, San Marino, Vaticano), ma anche di Stati e territori associati a Stati membri dell’Eurozona (Guadeloupa, la Guiana francese, la Martinica, Réunion, Saint-Barthélemy, Saint-Martin, le Azorre, Madeira Saint-Pierre-et-Miquelon, Mayotte, e le Canarie). Inoltre, in base ad accordi precedenti la creazione della moneta unica europea, le valute di numerosi Stati sono ancorate a quelle della ex-metropoli (in epoca coloniale) a tasso di cambio fisso . Si spazia dalla Nuova Caledonia, la Polinesia, Wallis e Futuna nel Pacifico a mezza Africa (tramite i trattati, sempre in vigore, tra la Francia, da un lato, e le Comunità Monetarie dell’Africa centrale ed occidentale, nonché la Repubblica delle Comore) e quello del Portogallo con Capo Verde. Ove la geografia dell’euro non fosse abbastanza confusa e straripante, ci sono Paesi neocomunitari (e che aspirano a fare parte dell’eurozona) che hanno definito, unilateralmente, un cambio fisso con l’euro: la Repubblica Cèca, la Romania, l’Ungheria. La Croazia, la Serbia, la Repubblica Macedone, e la Tunisia hanno seguito il loro esempio , sperando che l’ancora faciliti il loro ingresso nell’Ue o la loro associazione all’Ue. A questi Stati occorre aggiungere la Bosnia-Erzegovina e la Bulgaria – in ambedue vige un sistema di commissariamento valutario basato sull’euro (ossia l’emissione di moneta locale è basato sulle riserve in euro). In Kossovo e Montegro l’euro è la valuta commerciale. Il tasso di cambio d Botswana, Israel, Giordania, Libia, Marocco, Russia, Seychelles e Vanuatu è ancorato ad un paniere di monete in cui domina l’euro. L’elenco – si tenga presente – è unicamente indicativo e può aumentare se , come annunciato, future nuove unioni monetarie (quali quella del Golfo persico) si agganciano all’euro.
L’Euro Imperiale pone molteplici problemi giuridici; nessuna autorità monetaria , anche degli Stati più direttamente legati all’euro, partecipa al Sistema europeo di banche centrali (Sbce) ed ha voce in capitolo nelle politiche della Banca centrale Europea (Bce). Ad un recente (fine settembre) convegno giuridico a Bruges, i barracuda-esperti delle pandette si sono accapigliati sul grado a cui a ciascuna categoria si applichi “il patto di crescita e di stabilità”.
Sotto il profilo economico , il primo e più certo impatto è che la valorizzazione internazionale dell’euro incide sulle loro esportazioni tanto quanto influenza quelle dell’euro-zona. C’è, però, un aspetto politico più importante: circa 40 anni fa, il consigliere di Kennedy, Arthur Schlesinger jr., in un libro su “Imperial America”, sottolineava le responsabilità verso il resto del mondo dell’America Imperiale. Non ne ha analoghe l’Euro Imperiale nei confronti della complessa geografia della moneta unica?
Non se parla mai. Ma il problema non può essere eluso.
Giuseppe Pennisi
Nell’ultima settimana l’euro si è apprezzato del 10 per cento rispetto al dollaro Usa. Ciò frena le esportazioni dell’area della moneta unica; dato che dal 1945 l’Europa continentale segue un modello di crescita basato sull’export, ne rallenta l’aumento del Pil, con un inevitabile aggravio delle tensioni sociali.
C’è un aspetto poco notato. In parte per ragioni giuridico-formali, in parte per l’attrazione innescata dall’apprezzamento degli ultimi anni, l’euro è diventata o la moneta comune o l’ancora di un sistema molto più vasto di quello dell’Eurogruppo. E’l’unità di misura, di transazione e di riserva non solo di “piccoli” Stati europei (Andorra, Monaco, San Marino, Vaticano), ma anche di Stati e territori associati a Stati membri dell’Eurozona (Guadeloupa, la Guiana francese, la Martinica, Réunion, Saint-Barthélemy, Saint-Martin, le Azorre, Madeira Saint-Pierre-et-Miquelon, Mayotte, e le Canarie). Inoltre, in base ad accordi precedenti la creazione della moneta unica europea, le valute di numerosi Stati sono ancorate a quelle della ex-metropoli (in epoca coloniale) a tasso di cambio fisso . Si spazia dalla Nuova Caledonia, la Polinesia, Wallis e Futuna nel Pacifico a mezza Africa (tramite i trattati, sempre in vigore, tra la Francia, da un lato, e le Comunità Monetarie dell’Africa centrale ed occidentale, nonché la Repubblica delle Comore) e quello del Portogallo con Capo Verde. Ove la geografia dell’euro non fosse abbastanza confusa e straripante, ci sono Paesi neocomunitari (e che aspirano a fare parte dell’eurozona) che hanno definito, unilateralmente, un cambio fisso con l’euro: la Repubblica Cèca, la Romania, l’Ungheria. La Croazia, la Serbia, la Repubblica Macedone, e la Tunisia hanno seguito il loro esempio , sperando che l’ancora faciliti il loro ingresso nell’Ue o la loro associazione all’Ue. A questi Stati occorre aggiungere la Bosnia-Erzegovina e la Bulgaria – in ambedue vige un sistema di commissariamento valutario basato sull’euro (ossia l’emissione di moneta locale è basato sulle riserve in euro). In Kossovo e Montegro l’euro è la valuta commerciale. Il tasso di cambio d Botswana, Israel, Giordania, Libia, Marocco, Russia, Seychelles e Vanuatu è ancorato ad un paniere di monete in cui domina l’euro. L’elenco – si tenga presente – è unicamente indicativo e può aumentare se , come annunciato, future nuove unioni monetarie (quali quella del Golfo persico) si agganciano all’euro.
L’Euro Imperiale pone molteplici problemi giuridici; nessuna autorità monetaria , anche degli Stati più direttamente legati all’euro, partecipa al Sistema europeo di banche centrali (Sbce) ed ha voce in capitolo nelle politiche della Banca centrale Europea (Bce). Ad un recente (fine settembre) convegno giuridico a Bruges, i barracuda-esperti delle pandette si sono accapigliati sul grado a cui a ciascuna categoria si applichi “il patto di crescita e di stabilità”.
Sotto il profilo economico , il primo e più certo impatto è che la valorizzazione internazionale dell’euro incide sulle loro esportazioni tanto quanto influenza quelle dell’euro-zona. C’è, però, un aspetto politico più importante: circa 40 anni fa, il consigliere di Kennedy, Arthur Schlesinger jr., in un libro su “Imperial America”, sottolineava le responsabilità verso il resto del mondo dell’America Imperiale. Non ne ha analoghe l’Euro Imperiale nei confronti della complessa geografia della moneta unica?
Non se parla mai. Ma il problema non può essere eluso.
lunedì 18 ottobre 2010
Opera, il “Guillaume Tell” di Rossini da Roma a Londra Il Velino 18 ottobre
CLT - Opera, il “Guillaume Tell” di Rossini da Roma a Londra
Roma, 18 ott (Il Velino) - Dopo il grande successo di tre anni fa, l’Accademia di Santa Cecilia ha prodotto una nuova edizione quasi integrale dell’ultima e più complessa opera di Gioacchino Rossini, “Guillaume Tell”. Sono state eliminate le danze del terzo atto, ma sono stati riaperti alcuni “tagli di tradizione” e il terzetto del quarto, nonché effettuati alcuni tagli minori al fine di contenere lo spettacolo entro poco più di quattro ore. E’ una sfida che pochi raccolgono. Negli ultimi venti anni, in Italia si ricordano soltanto le produzioni del Teatro Filarmonico di Verona nel 1992, diretta di Evelino Pidò, e del Rossini Opera Festival (Rof) del 1995, diretta da Gianluigi Gelmetti (nell’edizione critica, in francese, la più vicina a quella che andò in scena il 3 agosto 1829). Alla Scala, l’opera venne presentata integrale nel 1988 (con la direzione musicale di Riccardo Muti), ma in una nuova versione ritmica italiana di Paolo Cattelan ed ebbe poco successo anche a ragione di un allestimento che definire “curioso” sarebbe un eufemismo. A Roma, “Guillaume Tell” mancava dal 1969 quando venne rappresentata alle Terme di Caracalla in una versione molto tagliata e in traduzione ritmica in italiano, accorciata pure rispetto alla “versione Calisto Bassi” seguita correntemente (anche nella edizioni di Riccardo Muti al Maggio Fiorentino nel 1972). Alla Scala, nel 1988 la regia di Luca Ronconi sperimentò, peraltro con poco successo, una scenografia con proiezioni. Suggestivo, nonostante i limiti del palcoscenico del Filarmonico di Verona, l’impianto di Luciano Damiani per la produzione del 1992. Al Rof, nel 1995, l’intero Palafestival venne trasformato da Pier Luigi Pizzi in montagne e valli dei cantoni svizzeri. Era previsto, data la durata dello spettacolo, un intervallo sufficientemente lungo per una cena organizzata in un parcheggio trasformato in ristorante all’aperto. Si entrava in teatro alle 17,30 e si usciva ben dopo la mezzanotte. Alla Staastoper di Vienna e altri teatri stranieri si sta affermando la versione integrale dopo circa due secoli in cui ha prevalso l’”edizione Calisto Bassi” in tre atti e con tagli tali da rendere difficile la comprensione di certi passaggi drammaturgici.
Le molteplici difficoltà di un allestimento scenico dell’ultimo capolavoro rossiniano per il teatro vengono risolte, nella produzione dell’Accademia di Santa Cecilia, offrendo un’esecuzione in forma di concerto. Non inferiori alla messa in scena e alla regia sono i trabocchetti in orchestra e le voci, specialmente il tenore nel ruolo di Arnold e il soprano in quello di Mathilde, mentre il baritono, che impersona il protagonista, ha una parte vocale lunga ma relativamente facile. Ciò rende particolarmente importante la produzione dell’Accademia di Santa Cecilia, perché dopo la lunga serie di repliche all’Accadémie Royal de Musique di Parigi (allora Teatro Nazionale dell’Opera), le difficoltà dell’opera indussero, sino a tempi recenti, alla diffusione di edizioni mutilate e modificate in varie lingue. Tagli ci sono, come si è detto, pure nella produzione romana, ma tutto sommato di poco rilievo anche a ragione del limitato spessore musicale delle danze del terzo atto, una concessione alla prassi dell’epoca. La produzione è destinata a diventare “di riferimento” poiché, dopo le recite romane, andrà alla Royal Albert Hall di Londra nei popolari concerti Proms. Rossini aveva 37 anni quando compose “Guillaume Tell”. Successivamente, entrò in una profonda depressione e, sino alla morte del 1868, non lavorò più a opere liriche, ma unicamente ad alcune rare composizione di musica sacra (lo “Stabat Mater” e la “Petite Messe Solennelle”) e cameristica (“Les Péchés de Vielliesse”).
Secondo la vulgata corrente, Rossini decise di affrontare “Guillaume Tell” per mostrare, a se stesso e al resto del mondo del teatro in musica, di essere in grado di gareggiare con il grand opéra che allora iniziava a mietere successi in Francia e altrove e che la successiva lunga depressione sarebbe stata causata essenzialmente dal fatto di riconoscere di non essere più al passo con i tempi (in materia musicale). Il dramma di Schiller sarebbe stato scelto proprio per le opportunità che offriva di fare un grande spettacolo (cambiamenti di scena tali da includere, montagne, valli, laghi in tempesta, balletti, incendi). In effetti, il sottostante libertario e liberale di “Guillaume Tell” (la liberazione dei cantoni svizzeri dal giogo asburgico grazie ad un eroe tutto di un pezzo) pare poco affine a un Rossini tendenzialmente conservatore, ove non reazionario, e vicino più ai principi del Congresso di Vienna che a quelli della rivoluzione francese ed ancor meno a quelli del terremoto che nel 1848, poco meno di venti anni dalla prima rappresentazione di “Guillaume Tell” avrebbero attraversato mezza Europa.
E’ utile innanzitutto precisare alcuni punti che smentiscono la vulgata corrente. L’“opéra” monumentale (quali la “Vestale” di Gaspare Spontini) già da decenni era sui palcoscenici dei maggiori teatri francesi in quanto legati alla concezione imperial-napoleonica del teatro in musica. Il grand opéra di Auber e Meyerbeer (intimamente legato alla ricca borghesia dell’industrializzazione nascente) era ancora ai primi passi, in effetti solitamente “La Muette de Portici” precede di appena un anno il debutto del rossiniano “Guillaume Tell”. Quindi, se Rossini ebbe un modello da sfidare non fu il grand opéra , ma le vera rivoluzione musicale apportata in Europa da “Der Frieschütz” (“Il Franco Tiratore”) di Carlo Maria von Weber che dopo il trionfale debutto alla Staatsoper di Berlino nel 1821 era approdato, non all’Accademie Royale de Musique, ma al più piccolo Odéon in versione francese (“Robin de Bois ou les trois balles”. Nonostante fosse un adattamento, con numerosi tagli, dell’originale tedesco, ebbe un successo non previsto (327 repliche) e recò un vento nuovo (la descrizione della natura, il demoniaco, il protagonismo del coro) che si riallacciava, però, in parte a quanto Rossini aveva sperimentato in “La Donna del Lago”. Il patriottismo libertario di Tell poco aveva a che fare con i principi di democrazia rappresentativa della rivoluzione francese e, successivamente, del 1848. Rossini era sensibile alle mode, quindi alle ventate di liberazione nazionale (temi allora di successo specialmente in Francia e che pervadono già “Moise et Pharaon” e “Le Siège de Corinthe”). Alla conclusione dell’opera, il liberatore Tell non è alla guida di qualche forma di processo democratico ma il leader carismatico, e giacobino, del proprio popolo.
Il silenzio di Rossini dopo “Tell” viene adesso attribuito ad un problema di salute: una malattia venerea contratta in una delle case di tolleranza che il pescarese era uso frequentare sin dall’adolescenza, la conseguente astinenza sessuale per diversi anni e la depressione a essa inerente proprio in un periodo in cui il gran opéra francese, il melodramma verdiano e il musik drama wagneriano cambiavano profondamente il teatro in musica. Le congetture si reggono su ipotesi e rari indizi presenti proprio nel “Guillaume Tell”: se Rossini non fosse andato in pensione a 37 anni (con un lauto assegno del Tesoro francese dopo cinque anni di vertenza civile e una sentenza della Cassazione) probabilmente la sua evoluzione sarebbe stata più prossima a quella dell’opera romantica tedesca che al melodramma verdiano e del grand opéra francese. Un’ultima notazione: delle tante opere tratte da drammi di Schiller da compositori dell’Ottocento, “Guillaume Tell” è quella più fedele all’originale per la scena drammatica, non musicale. Questa è un’altra delle determinanti della sua complessità. Il lavoro di Schiller, infatti, ha tre temi paralleli: il conflitto personale tra Tell ed il governatore austriaco Gesler; b) la rivolta dei contadini e pescatori svizzeri contro gli asburgici; la tensione tra patriottismo e amore nel rapporto tra uno dei leader della rivolta e una aristocratica asburgica. Il tutto, poi, si svolge in tre differenti cantoni (Url, Sxwyz e Unterwalden), comportando frequenti movimenti di spazio.
Per quanto riguarda l’allestimento a Santa Cecilia, Antonio Pappano ha dato, come nel 1997 ha lettura pittorica, quasi visiva, della partitura: anche senza scene e costumi, dall’orchestra emergono i colori dei picchi nevosi delle Alpi, delle vallate verdi, dei ruscelli azzurri, dei laghi grigi in quanto in tempesta. E’ in questo immenso affresco che viene immerso il dramma politico e personale dei personaggi. Curati i singoli strumenti: dai clarinetti ai fagotti alle arpe così cruciali nella partitura dell’opera. E’ questa ricchezza pittorica che rende “Guillaume Tell” così vicino all’opera romantica tedesca, non solo Weber, ma anche Marschner, Hoffmann e del primo Wagner. Una lettura marcatamente differente a quelle di Gelmetti, Pidò e Muti e che lo avvicina all’interpretazione di Gardelli all’inizio degli anni ‘70. Il trionfo della libertà è, come indica Rossini nella scrittura orchestrale ancor più che nei versi del libretti, il trionfo sgargiante della natura, della purezza dell’aria nelle valli, dopo la tempesta e dopo la catarsi. Il coro, univoco e multianime anche quando canta monodicamente (altro contatto con l’opera romantica tedesca) è, con l’orchestra, l’altro protagonista effettivo di Guillaume Tell. Altre edizioni viste o ascoltate in disco non colgono tale rilievo perché non dispongono del coro dell’Accademia di Santa Cecilia guidato da Ciro Visco con uno spessore wagneriano: l’esultanza finale anticipa quella dei “Die Meistersinger” . Tanto coro quanto orchestra hanno ricevuto applausi a scena aperta e ovazioni al termine dello spettacolo.
Ben superiore alla media il complesso vocale, molto differente rispetto a quello del 1997. Trattandosi di opera che richiede ben undici solisti, ci soffermiamo soltanto su alcuni. In primo luogo, il tenore di agilità americano John Osborn nel ruolo di Arnold, uno dei pochi già presenti nel 1997, ha affrontato con grande maestria, una parte terrificante densa di “do” e di “sì naturale”, nonché sempre tesa verso l’alto. Ha sfoderato i propri mezzi sin dal primo atto, mostrandoli a pieno nel duetto e nel terzetto del secondo atto per poi colmare la Sala Santa Cecilia di agilità (e di volume) in “Asile héréditaire” all’inizio del quarto atto che ha ricevuto dal pubblico circa cinque minuti di applausi. Bella, affascinante e vocalmente perfetta Malin Bryström. E’ un soprano lirico puro del timbro chiarissimo, dal fraseggio perfetto e da un registro molto esteso. Dolcissima nel “Sombre foret”, diventa sempre più imperiosa e regale nel confronto con il Gesler. Occorre ricordare che nell’affresco rossiniano Arnold e Mathilde sono i soli personaggi che hanno un vero sviluppo psicologico, tormentati tra amore e lealtà ai loro rispettivi status personali.
(Hans Sachs) 18 ott 2010 11:40
Roma, 18 ott (Il Velino) - Dopo il grande successo di tre anni fa, l’Accademia di Santa Cecilia ha prodotto una nuova edizione quasi integrale dell’ultima e più complessa opera di Gioacchino Rossini, “Guillaume Tell”. Sono state eliminate le danze del terzo atto, ma sono stati riaperti alcuni “tagli di tradizione” e il terzetto del quarto, nonché effettuati alcuni tagli minori al fine di contenere lo spettacolo entro poco più di quattro ore. E’ una sfida che pochi raccolgono. Negli ultimi venti anni, in Italia si ricordano soltanto le produzioni del Teatro Filarmonico di Verona nel 1992, diretta di Evelino Pidò, e del Rossini Opera Festival (Rof) del 1995, diretta da Gianluigi Gelmetti (nell’edizione critica, in francese, la più vicina a quella che andò in scena il 3 agosto 1829). Alla Scala, l’opera venne presentata integrale nel 1988 (con la direzione musicale di Riccardo Muti), ma in una nuova versione ritmica italiana di Paolo Cattelan ed ebbe poco successo anche a ragione di un allestimento che definire “curioso” sarebbe un eufemismo. A Roma, “Guillaume Tell” mancava dal 1969 quando venne rappresentata alle Terme di Caracalla in una versione molto tagliata e in traduzione ritmica in italiano, accorciata pure rispetto alla “versione Calisto Bassi” seguita correntemente (anche nella edizioni di Riccardo Muti al Maggio Fiorentino nel 1972). Alla Scala, nel 1988 la regia di Luca Ronconi sperimentò, peraltro con poco successo, una scenografia con proiezioni. Suggestivo, nonostante i limiti del palcoscenico del Filarmonico di Verona, l’impianto di Luciano Damiani per la produzione del 1992. Al Rof, nel 1995, l’intero Palafestival venne trasformato da Pier Luigi Pizzi in montagne e valli dei cantoni svizzeri. Era previsto, data la durata dello spettacolo, un intervallo sufficientemente lungo per una cena organizzata in un parcheggio trasformato in ristorante all’aperto. Si entrava in teatro alle 17,30 e si usciva ben dopo la mezzanotte. Alla Staastoper di Vienna e altri teatri stranieri si sta affermando la versione integrale dopo circa due secoli in cui ha prevalso l’”edizione Calisto Bassi” in tre atti e con tagli tali da rendere difficile la comprensione di certi passaggi drammaturgici.
Le molteplici difficoltà di un allestimento scenico dell’ultimo capolavoro rossiniano per il teatro vengono risolte, nella produzione dell’Accademia di Santa Cecilia, offrendo un’esecuzione in forma di concerto. Non inferiori alla messa in scena e alla regia sono i trabocchetti in orchestra e le voci, specialmente il tenore nel ruolo di Arnold e il soprano in quello di Mathilde, mentre il baritono, che impersona il protagonista, ha una parte vocale lunga ma relativamente facile. Ciò rende particolarmente importante la produzione dell’Accademia di Santa Cecilia, perché dopo la lunga serie di repliche all’Accadémie Royal de Musique di Parigi (allora Teatro Nazionale dell’Opera), le difficoltà dell’opera indussero, sino a tempi recenti, alla diffusione di edizioni mutilate e modificate in varie lingue. Tagli ci sono, come si è detto, pure nella produzione romana, ma tutto sommato di poco rilievo anche a ragione del limitato spessore musicale delle danze del terzo atto, una concessione alla prassi dell’epoca. La produzione è destinata a diventare “di riferimento” poiché, dopo le recite romane, andrà alla Royal Albert Hall di Londra nei popolari concerti Proms. Rossini aveva 37 anni quando compose “Guillaume Tell”. Successivamente, entrò in una profonda depressione e, sino alla morte del 1868, non lavorò più a opere liriche, ma unicamente ad alcune rare composizione di musica sacra (lo “Stabat Mater” e la “Petite Messe Solennelle”) e cameristica (“Les Péchés de Vielliesse”).
Secondo la vulgata corrente, Rossini decise di affrontare “Guillaume Tell” per mostrare, a se stesso e al resto del mondo del teatro in musica, di essere in grado di gareggiare con il grand opéra che allora iniziava a mietere successi in Francia e altrove e che la successiva lunga depressione sarebbe stata causata essenzialmente dal fatto di riconoscere di non essere più al passo con i tempi (in materia musicale). Il dramma di Schiller sarebbe stato scelto proprio per le opportunità che offriva di fare un grande spettacolo (cambiamenti di scena tali da includere, montagne, valli, laghi in tempesta, balletti, incendi). In effetti, il sottostante libertario e liberale di “Guillaume Tell” (la liberazione dei cantoni svizzeri dal giogo asburgico grazie ad un eroe tutto di un pezzo) pare poco affine a un Rossini tendenzialmente conservatore, ove non reazionario, e vicino più ai principi del Congresso di Vienna che a quelli della rivoluzione francese ed ancor meno a quelli del terremoto che nel 1848, poco meno di venti anni dalla prima rappresentazione di “Guillaume Tell” avrebbero attraversato mezza Europa.
E’ utile innanzitutto precisare alcuni punti che smentiscono la vulgata corrente. L’“opéra” monumentale (quali la “Vestale” di Gaspare Spontini) già da decenni era sui palcoscenici dei maggiori teatri francesi in quanto legati alla concezione imperial-napoleonica del teatro in musica. Il grand opéra di Auber e Meyerbeer (intimamente legato alla ricca borghesia dell’industrializzazione nascente) era ancora ai primi passi, in effetti solitamente “La Muette de Portici” precede di appena un anno il debutto del rossiniano “Guillaume Tell”. Quindi, se Rossini ebbe un modello da sfidare non fu il grand opéra , ma le vera rivoluzione musicale apportata in Europa da “Der Frieschütz” (“Il Franco Tiratore”) di Carlo Maria von Weber che dopo il trionfale debutto alla Staatsoper di Berlino nel 1821 era approdato, non all’Accademie Royale de Musique, ma al più piccolo Odéon in versione francese (“Robin de Bois ou les trois balles”. Nonostante fosse un adattamento, con numerosi tagli, dell’originale tedesco, ebbe un successo non previsto (327 repliche) e recò un vento nuovo (la descrizione della natura, il demoniaco, il protagonismo del coro) che si riallacciava, però, in parte a quanto Rossini aveva sperimentato in “La Donna del Lago”. Il patriottismo libertario di Tell poco aveva a che fare con i principi di democrazia rappresentativa della rivoluzione francese e, successivamente, del 1848. Rossini era sensibile alle mode, quindi alle ventate di liberazione nazionale (temi allora di successo specialmente in Francia e che pervadono già “Moise et Pharaon” e “Le Siège de Corinthe”). Alla conclusione dell’opera, il liberatore Tell non è alla guida di qualche forma di processo democratico ma il leader carismatico, e giacobino, del proprio popolo.
Il silenzio di Rossini dopo “Tell” viene adesso attribuito ad un problema di salute: una malattia venerea contratta in una delle case di tolleranza che il pescarese era uso frequentare sin dall’adolescenza, la conseguente astinenza sessuale per diversi anni e la depressione a essa inerente proprio in un periodo in cui il gran opéra francese, il melodramma verdiano e il musik drama wagneriano cambiavano profondamente il teatro in musica. Le congetture si reggono su ipotesi e rari indizi presenti proprio nel “Guillaume Tell”: se Rossini non fosse andato in pensione a 37 anni (con un lauto assegno del Tesoro francese dopo cinque anni di vertenza civile e una sentenza della Cassazione) probabilmente la sua evoluzione sarebbe stata più prossima a quella dell’opera romantica tedesca che al melodramma verdiano e del grand opéra francese. Un’ultima notazione: delle tante opere tratte da drammi di Schiller da compositori dell’Ottocento, “Guillaume Tell” è quella più fedele all’originale per la scena drammatica, non musicale. Questa è un’altra delle determinanti della sua complessità. Il lavoro di Schiller, infatti, ha tre temi paralleli: il conflitto personale tra Tell ed il governatore austriaco Gesler; b) la rivolta dei contadini e pescatori svizzeri contro gli asburgici; la tensione tra patriottismo e amore nel rapporto tra uno dei leader della rivolta e una aristocratica asburgica. Il tutto, poi, si svolge in tre differenti cantoni (Url, Sxwyz e Unterwalden), comportando frequenti movimenti di spazio.
Per quanto riguarda l’allestimento a Santa Cecilia, Antonio Pappano ha dato, come nel 1997 ha lettura pittorica, quasi visiva, della partitura: anche senza scene e costumi, dall’orchestra emergono i colori dei picchi nevosi delle Alpi, delle vallate verdi, dei ruscelli azzurri, dei laghi grigi in quanto in tempesta. E’ in questo immenso affresco che viene immerso il dramma politico e personale dei personaggi. Curati i singoli strumenti: dai clarinetti ai fagotti alle arpe così cruciali nella partitura dell’opera. E’ questa ricchezza pittorica che rende “Guillaume Tell” così vicino all’opera romantica tedesca, non solo Weber, ma anche Marschner, Hoffmann e del primo Wagner. Una lettura marcatamente differente a quelle di Gelmetti, Pidò e Muti e che lo avvicina all’interpretazione di Gardelli all’inizio degli anni ‘70. Il trionfo della libertà è, come indica Rossini nella scrittura orchestrale ancor più che nei versi del libretti, il trionfo sgargiante della natura, della purezza dell’aria nelle valli, dopo la tempesta e dopo la catarsi. Il coro, univoco e multianime anche quando canta monodicamente (altro contatto con l’opera romantica tedesca) è, con l’orchestra, l’altro protagonista effettivo di Guillaume Tell. Altre edizioni viste o ascoltate in disco non colgono tale rilievo perché non dispongono del coro dell’Accademia di Santa Cecilia guidato da Ciro Visco con uno spessore wagneriano: l’esultanza finale anticipa quella dei “Die Meistersinger” . Tanto coro quanto orchestra hanno ricevuto applausi a scena aperta e ovazioni al termine dello spettacolo.
Ben superiore alla media il complesso vocale, molto differente rispetto a quello del 1997. Trattandosi di opera che richiede ben undici solisti, ci soffermiamo soltanto su alcuni. In primo luogo, il tenore di agilità americano John Osborn nel ruolo di Arnold, uno dei pochi già presenti nel 1997, ha affrontato con grande maestria, una parte terrificante densa di “do” e di “sì naturale”, nonché sempre tesa verso l’alto. Ha sfoderato i propri mezzi sin dal primo atto, mostrandoli a pieno nel duetto e nel terzetto del secondo atto per poi colmare la Sala Santa Cecilia di agilità (e di volume) in “Asile héréditaire” all’inizio del quarto atto che ha ricevuto dal pubblico circa cinque minuti di applausi. Bella, affascinante e vocalmente perfetta Malin Bryström. E’ un soprano lirico puro del timbro chiarissimo, dal fraseggio perfetto e da un registro molto esteso. Dolcissima nel “Sombre foret”, diventa sempre più imperiosa e regale nel confronto con il Gesler. Occorre ricordare che nell’affresco rossiniano Arnold e Mathilde sono i soli personaggi che hanno un vero sviluppo psicologico, tormentati tra amore e lealtà ai loro rispettivi status personali.
(Hans Sachs) 18 ott 2010 11:40
ALLE ORIGINI DELL’ECONOMIA DELLA FELICITA’ in CHARTA MINUTA Ottobre
ALLE ORIGINI DELL’ECONOMIA DELLA FELICITA’
Giuseppe Pennisi
Il dibattito sintetizzato, in Italia, con l’etichetta “Oltre il Pil”, è antico quasi quanto le disciplina economica o , almeno la contabilità economica nazionale. Angus Maddison (“Monitoring the World Economy”, OECD 1995 ), scomparso di recente ma certamente il maggiore specialista in materia degli ultimi sei decenni, è riuscito a ricostruire la contabilità economica nazionale dei maggiori (ricostruendo, quindi, la contabilità economica mondiale) dal 1830 o giù di lì. Prima di allora le tecniche di raccolta ed elaborazione dei dati non erano tali da consentire una stima anche solo approssimativa di quanto venisse prodotto e consumato nell’economia di un Paese: può interessare che, secondo il certosino lavoro di Maddison, nel 1830 oltre il 40% del Pil mondiale venisse prodotto e consumato in due soli Paesi – Cina ed India: prima della rivoluzione industriale, in un mondo dominato dall’economia di sussistenza , è naturale che gran parte della produzione fosse per auto consumo e, di conseguenza, il Pil fosse essenzialmente funzione della popolazione.
Nella mia attività professionale, mi sono interessati a tematiche tecnico-statistiche connesse alla contabilità economica nazionale solamente all’inizio delle mia carriera in Banca mondiale: ancora allora, in molti Paesi dell’Africa a sud del Sahara , l’agricoltura di sussistenza rappresentava circa la metà del prodotto lordo di un Paese e, di conseguenza, il Pil era in gran misura funzione della popolazione e della propria produzione per autoconsumo (non sempre agevole da stimare). Negli ultimi anni, mi sono riavvicinato a queste tematiche più per le implicazioni di politica economica in Paesi ad alto livello di sviluppo e di reddito che sotto il profilo tecnico-statistico.
In effetti si è sviluppata una letteratura scientifica molto vasta che ha influito su una pubblicistica divulgativa pure essa vastissima (anche se, spesso, poco accurata) . Insieme questi due tipi (pur molto differenti) di letteratura hanno alimentato un dibattito anche in “think tanks” e fondazioni d’ispirazione politica. Questa nota ha l’obiettivo di facilitare la comprensione di alcuni concetti di base poiché il dibattito in corso rischia di diventare confuso. Riguarda essenzialmente uno dei quattro aspetti in cui è stato declinato il dibattito: quello dell’”economia della felicità” che non aspira a nuove convenzioni statistico- contabilità internazionali (che , al pari di quelle attualmente seguite- in gergo SEC 95, richiedere un utopistico accordo internazionale, meglio se in seno alle Nazioni Unite , ossia un trattata ratificato da circa 200 parlamenti), ma meramente integrazioni alle prassi correnti.
Per un’analisi di come “l’economia della felicità” si coniughi con il dibattito “oltre il Pil) , credo che tutti gli interessati debbano leggere e meditare il saggio di Marc Fleurbaey “Beyond the GDP : the Quest for a Measure of Social Welfare”, pubblicato sul numero di dicembre 2009 del Journal of Economic Literature . Si tratta, a mio avviso, della più completa rassegna della letteratura disponibile (circa 300 titoli), molti dei quali facilmente reperibile sui principali siti di ricerca in materia di economia. Fleurbaey costruisce una tassonomia dei principali filoni del dibattito:
• a) in primo luogo, l’introduzione di correzioni alle attuale regole e prassi di contabilità economica nazionale, una strada impervia non solo per l’aspetto giuridico-organizzativo a cui si è fatto cenno ma anche per difficoltà tecnico-statistiche quali quelle attinenti alla “contabilità verde” ed alla “contabilità degli impatti sulle generazioni future”. In breve , le integrazioni più promettenti riguardano stime di produzione e lavoro non retribuito e di certe categorie di consumi (integrazioni non troppo dissimili da quelle per le stime dell’economia di sussistenza.
• b) in secondo luogo, la scuola di pensiero che mette l’accento sulla “capacitazione”, ossia sulle opportunità di cui fruiscono i componenti della collettività di cui si cerca di misurare il “Pil esteso”. Il concetto di “capacitazione” deriva dalle analisi di Amartya Sen in materia di “nuova economia del benessere”. La sua applicazione alla contabilità economica nazionale, ed alla “misurazione del Pil esteso”, ha sino ad ora prodotto unicamente un lungo elenco di problemi (non solo statistici ma soprattutto di scelte collettive) da risolvere. Una strada, quindi, lunga ed impervia.
• c) In terzo luogo, il percorso degli “indicatori sintetici”, sovente adottato in documenti della Commissione Europea ed analogo ad esercizi effettuati nei primi passi della programmazione economica in Italia, negli Anni Sessanta. E’ stato riproposto, soprattutto in Francia ed in Italia, ma non si aggancia ad una teoria economica solida e può facilmente dare luogo a conclusioni arbitrarie.
• d) in quarto luogo, la strada dell’”economia della felicità” , con attenzione speciale alle difficoltà di raffrontare stati di soddisfazione di vari gruppi della società. Nonostante i suoi limiti, l’”economia della felicità” ha il vantaggio di collegarsi a vari aspetti della “nuova economia del benessere” tutti tesi a giungere ad una maggiore e migliore comprensione della distribuzione di preferenze e valori tra varie categorie della società, campi su cui si lavora da anni e che, proprio a ragione di analisi iniziate alcuni decenni fa, possono rappresentare un percorso utile per andare “oltre il Pil”.
Negli ultimi cinque anni, alla ricerca di un sentiero che porti “oltre il Pil”, Joseph Stiglitz ha abbracciato l’”economia della felicità” con l’entusiasmo dei neofiti. In effetti – chi sa se si ricorda ancora di quando, all’inizio anni Settanta, a Nairobi e si andava a lunch a The Thorn Tree a Kimaty Road ed a cena o da Jacques o a The Lobster Pot – il suo principale contributo alla professione è stata la teoria economica dell’informazione tanto sotto il profilo macro quanto sotto quello micro. Cominciò a lavorarci – ne fece il punto centrale della prolusione pronunciata quando gli venne conferito il Premio Nobel dell’Economia nel 2001- in quella fucina di pensiero e fantasia che era l’Istitute of Development Studies (IDS) della capitale del Kenya. Lì lavorava, fianco a fianco, con John Harris, Micheal Todaro e Richard Jolly specialmente sull’economia del lavoro e del capitale umano allo scopo di comprendere cosa inducesse tanti genitori e tanti ragazzi a completare cicli d’istruzione e migrare verso città dove non c’era lavoro per loro. Stiglitz, con Harris, Todaro e Jolly risposero che la determinante era un sistema distorto d’informazioni. Ho vivo e vivido in mente quel periodo perché, allora in Banca Mondiale, faceva luchi e frequenti soggiorni a Nairobi e frequentava l’IDS. Temi importanti ma distanti dall’”economia della felicità”ma che erano stati al centro dell’attenzione degli economisti classici scozzesi e degli studiosi di economia pubblica e scienza delle finanze italiani e svedesi all’inizio del secolo scorso.
L’”economia della felicità “ –alla voce “economics of happiness” di Goggle escono circa 10 milioni di “entry”- viene da lontano ed è entrata anche nella pubblicistica giornalistica da decenni. Alla metà degli Anni 80, ad esempio, uscì sul “Wall Street Journal” un lungo articolo di un economista d’azienda giapponese intitolato, non senza una punta di polemica, “Konatabe, GNP!” (“Vai al diavolo, Pil ”- ma in nipponico, l’espressione è molto più volgare). In breve, l’articolo sosteneva che poiché il fine pure costituzionale del Giappone moderno è il “perseguimento della felicità”, occorre misurare la crescita non in termini di aumento del valore aggiunto di beni e servizi e della sua consueta ripartizione tra consumi e risparmi/investimenti ma in termini di incremento della felicità sia pubblica sia privata. Tanto più che tecniche di indagine socio-economica e psicologica (quali quelle delle “valutazioni contingenti”) ne rendevano fattibile la misurazione.
L’”economia della felicità” è divenuta una disciplina a se stante , con cattedre ad essa specificatamente intitolate, all’inizio degli Anni 90. Da una decina d’anni c’è anche una manualistica per integrare le analisi consuete , con tecniche condivise per il calcolo della felicità, specialmente sotto il profilo micro-economico. Non si tratta, necessariamente, di letteratura che fa ricorso a modellistica arcana ed ad algoritmi complicati. Tra i lavori in italiano (nonché basati su studi ed esperienze italiane) di rilievo il libro Luigino Bruni e Stefano Zamagni “Economia civile, equità, felicità pubblica” , Il Mulino 2004.) . A livello pubblicistico, io ne ho trattato spesso sul settimanale “Il Domenicale” e su alcuni quotidiani.
Tra le applicazioni recenti, utile ricordare il dibattito su tassazione progressiva e felicità (sia pubblica sia privata) . Importante l’indagine empirica sull’impatto del benessere economico in termini di felicità in Australia , Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi ed Ungheria. L’indagine individua un tratto comune nei cinque: le spese per beni di consumo durevole contano almeno quanto i flussi di reddito in termini di felicità. Inoltre (altro tratto comune) cambiamenti in livelli di ricchezza, di reddito e di consumo producono mutamenti relativamente modesti in termini di soddisfazione, ossia di felicità. Da diversi anni, gli abbonati al servizio telematico del Social Science Resarch Network ricevono – ogni giorno – due newsletter con abstracts di saggi (con la possibilità di scaricarli) che trattano di “economia dei comportamenti” ; una delle due riguarda la metodologia, l’altra esperimenti concreti effettuati quasi in condizioni quasi di laboratorio (come un’aula universitaria allo scopo, ad esempio, di determinare cosa renda “più felice” un gruppo di giovani, voti più alti agli esami o maggior tempo libero).
Guardando verso il futuro a lungo termine, secondo un’analisi del servizio studi della Banca d’Italia, alla fine del XXI secolo, ci accontenteremo di un Pil a crescita rasoterra poiché comunque, a ragione della diminuzione della popolazione, il reddito pro-capite mostrerà leggeri aumenti.
Facciamo un passo indietro . Negli anni 80, l’”economia della felicità” non aveva ancora raggiunto il rango di una disciplina vera e propria, con cattedre ad essa attribuite e pure Premi Nobel tra i suoi cultori. Si era agli inizi. O meglio ai prolegomeni. Mahbub-ul-Haq, a lungo dirigente della Banca Mondiale, e successivamente Ministro della Programmazione del Pakistan, prima di andare alla guida del Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, aveva fondato l’Human Development Center e pubblicava ogni anno un “Human Development Report”, corredato da appositi indicatori (nonché indici compositi) di sviluppo umano che facesse da contraltare al “World Development Report” della Banca Mondiale. Richard Jolly, allora Vice Direttore generale dell’Unicef, proponeva l’utilizzazione di indicatori di sviluppo umano per la valutazione dei progetti come integrazioni di quelli dell’analisi costi benefici (ed in certi casi come loro alternativa).
Oggi, non si è più ad uno stadio meramente pionieristico. Anche se c’è ancora molta strada da fare prima di giungere ad una manualistica puntuale con tecniche condivise per il calcolo della felicità in termini sia micro-economici sia soprattutto macro-economici, non mancano lavori accessibili anche al pubblico che non ha preparazione matematico-formale. Questi lavori analizzano gli effetti economici della felicità e di converso il ruolo della felicità nel plasmare politiche economiche. Tra i più utili vale la pena citare il libro di Bruno Frey e Alois Stutzer “Happiness and Economics; how the economy and the institutions affect human well-being”, “Felicità ed economia; come l’economia e le istituzioni incidono sul benessere umano” Princeton University Press, 2002. Bruno Frey – ricordiamolo – è noto in Italia per i suoi studi teorici ed empirici in tema di economia delle arti sceniche (in particolare di quella musa bizzarra ed altera che è l’opera lirica), nonché di economia del terrorismo e nell’anti-terrorismo; economista di vasti interessi è diventato titolare della cattedra di “economia della felicità” all’Università di Zurigo. Un nesso tra lo studio delle arti sceniche, del terrorismo e della felicità c’è ed è molto forte: si ha, comunque, a che fare con l’analisi economica dei sentimenti e con l’interazione tra comportamenti economici (sia micro sia macro) e sentimenti- campo a cui ha dato apporti di grande spessore, negli ultimi dieci anni, Jon Elster ed in cui la strumentazione dell’economia deve essere coniugata con quelle della psicologia e della sociologia.
Sulla scorta del lavoro di Bruno Frey e Alois Stutzer , il Cancelliere dello Scacchiere britannico, ha fatto riferimento ai paradigmi della “nuova economia della felicità” in un paio delle relazioni di presentazione, al Parlamento di Westminister, del bilancio di previsione, un documento analogo al nostro Dpef . A convincere il flemmatico inglese non è stato solo il dotto libro di Frey e Stutzer, due svizzeri un po’ pedanti, ma anche e soprattutto le quantizzazioni di Andrew Oswald dell’Università di Warwick e di Andrew Clarck del Cnr francese in un interessante saggio dal titolo “un metodo statistico semplice per misurare gli effetti della vita che incidono sulla felicità”. Oswald è lieto di mandarne copia telematica a chi glielo chiede a.j.oswald@warwick.ac.uk. Con il “metodo statistico semplice” si quantizza ad esempio che una vita di coppia ben vissuta ed ovviamente basata sul matrimonio (non su qualche sorta di Pacs) vale € 90.000 euro l’anno di felicità economica. Il divorzio equivale ad una perdita di felicità economica per ben € 270.000 l’anno (sino a quando gli interessati non costruiscono, su nuovi matrimoni, nuove felici vite di coppia). La morte del coniuge, invece, causa una perdita di felicità economica che, in certi casi, sfiora i € 200.000 l’anno nei primi tempi dopo l’avvenimento per ridursi via via che passano gli anni. Il valore, in termini di felicità economica, della perdita del lavoro varia notevolmente su base regionale (in funzione delle opportunità dal lato della domanda e delle rigidità da quello dell’offerta).
E le pensioni? Oswald e Clarck stanno lavorando a quantizzare quanto andare in quiescenza vale in termini di aumento o perdita di felicità, individuale e nazionale. Li ha battuti sui tempi Kerwin Kofi Charles della Università del Michigan che a fine luglio ha pubblicato un voluminoso studio dal titolo: “La pensione deprime? Incentivi a restare sul mercato del lavoro ed il benessere psicologico nell’ultima fase della vita”. Charles è generoso: lo invia, per pochi dollari di spese postali, a chi (senza dirlo al suo editore) gli scrive a kcharles@unimich.edu . Il lavoro consiste in un raffinato modello econometrico dell’interazione tra vita attiva, vita da pensionato, benessere psicologico e felicità (e dei suoi effetti su aggregati e politiche). L’analisi empirica riguarda tre campioni: coorti di sessantenni e settantenni (negli Usa l’età della pensione non è obbligatoria) andati a riposo all’inizio degli Anni Novanta e coorti, sempre di sessantenni e di settantenni, in pensione dall’inizio degli Anni Ottanta. Dopo pagine e pagine di algoritmi e statistiche, le conclusioni: la pensione deprime chi ce la ha, danneggiando sia l’individuo sia il Paese. “La ricerca economica non se ne è accorta perché ha posto l’accento sulle cause non sulle conseguenze della decisione di andare in pensione”. Lo sanno, però, nella lontana Singapore, dove chiunque fa un giro turistico della città Stato, viene informato dalla guida sulle misure che vengono prese per mantenere gli anziani “attivi e mentalmente e fisicamente sani”: ginnastica in tutti i quartieri, protezione dell’ambiente e giardinaggio, cura dei bambini in età pre-scolare, supporto a fare i compiti per quelli che vanno a scuola, assistenza ai disabili (loro coetanei o meno), gestione di biblioteche, impieghi part-time nel terziario (favoritissimi i fast food) e via discorrendo.
Tra le altre applicazioni recenti, interessante il dibattito su tassazione progressiva e felicità (sia pubblica sia privata) che ha contrapposto tra l’altro due esperti americani di rango di scienza delle finanze come Thomas Griffith e Diane M. Ring. Importante , e molto attuale, l’indagine empirica condotta da Ruud Muffles (Università di Tilburg), Bruce Headey e Mark Wooden (ambedue dell’Università di Melbourne) sull’impatto del benessere economico in termini di felicità in Australia , Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi ed Ungheria. L’indagine (basata sulle inchieste periodiche sui consumi delle famiglie effettuate dagli uffici statistici dei cinque Paesi) individua un tratto comune nei cinque Paesi (per molti aspetti distinti e distanti in termini di sistema economico e di reddito-pro-capite): le spese per beni di consumo durevole contano almeno quanto i flussi di reddito in termini di felicità. Inoltre (altro tratto comune) cambiamenti in livelli di ricchezza, di reddito e di consumo producono mutamenti relativamente modesti in termini di soddisfazione, ossia di felicità.
E’ un tema solo da Paesi e società che hanno raggiunto livelli di reddito di reddito e di consumo tali da poter fare fronte alle loro esigenze di base? Non proprio. Così come un quarto di secolo fa, i contributi alla costruzione degli indici di sviluppo umano sono venuti in gran parte da economisti e sociologi dei Paesi invia di sviluppo, ancora una volta apporti teorici all’economia della felicità vengono da studiosi di economia, sociologia e psicologia (materia fondante della disciplina) di lande lontane, spesso ancora del tutto ignoti in Europa e negli Usa. Un esempio è Viswanatha Sankara Rama Subramanian che ha pubblicato, in India, un saggio molto stimolante (disponibile, in Europa, unicamente sul web o rivolgendosi a drvsrs@hotmail.com ) sullo sviluppo (e sulla gestione) della felicità come pre-requisito per la crescita economica, o per accelerarne i tempi.
Si possono applicare alcuni paradigmi dell’economia delle felicità alla situazione economica italiana? Vediamone un paio di esempi prima di lanciare una provocazione. Innanzitutto, altrove ho offerto una spiegazione dell’andamento economico italiano negli ultimi dieci anni non solamente in termini del contesto internazionale e delle politiche di forte aumento della pressione fiscale (sette punti punti percentuali del pil) attuate nella legislatura 1996-2001 dai quattro Governi di sinistra allora succedutesi proprio mentre si restringevano anche i freni monetari. E’ in gioco anche l’economia della felicità: il tenore di vita viene misurato ed avvertito in termini di reddito spendibile pro-capite, che in un Paese caratterizzato da marcato invecchiamento e demografia stazionaria (sarebbe calante senza l’apporto degli immigrati), aumenta anche quando il pil ristagna. Pertanto, se le nostre prospettive sono (come documentato da Albert Ando, Mit, e da Sergio Nicoletti Altimari, Bce, in un lavoro commissionato e pubblicato dalla Banca d’Italia) di un declino della popolazione italiana da 55 milioni nel 2005 a 25 milioni alla fine del secolo, ci accontentiamo e ci accontenteremo di un Pil a crescita rasoterra perché comunque il reddito pro-capite mostrerà leggeri aumenti. Una spiegazione analoga può essere offerta al dibattito in corso ormai da due anni sulle poche ore di lavoro effettivo svolte dagli europei (e dagli italiani in particolare) relativamente a quelle effettuate dagli americani: in un contesto di reddito pro-capite comparativamente elevato, “il salario di riserva” per l’ora aggiuntiva di lavoro (ossia quello si richiede per lavorare un’ora in più) diventa elevato, perché tale diventa la disutilità della fatica. Già alla fine degli Anni Ottanta, Luca Meldolesi scriveva “Mezzogiorno con gioia!” per indicare che i nodi dello sviluppo meridionale si sarebbero potuti affrontare unicamente mettendo nel cassetto la melanconia mediterranea e prendendoli di petto “con gioia”.
Giuseppe Pennisi
Il dibattito sintetizzato, in Italia, con l’etichetta “Oltre il Pil”, è antico quasi quanto le disciplina economica o , almeno la contabilità economica nazionale. Angus Maddison (“Monitoring the World Economy”, OECD 1995 ), scomparso di recente ma certamente il maggiore specialista in materia degli ultimi sei decenni, è riuscito a ricostruire la contabilità economica nazionale dei maggiori (ricostruendo, quindi, la contabilità economica mondiale) dal 1830 o giù di lì. Prima di allora le tecniche di raccolta ed elaborazione dei dati non erano tali da consentire una stima anche solo approssimativa di quanto venisse prodotto e consumato nell’economia di un Paese: può interessare che, secondo il certosino lavoro di Maddison, nel 1830 oltre il 40% del Pil mondiale venisse prodotto e consumato in due soli Paesi – Cina ed India: prima della rivoluzione industriale, in un mondo dominato dall’economia di sussistenza , è naturale che gran parte della produzione fosse per auto consumo e, di conseguenza, il Pil fosse essenzialmente funzione della popolazione.
Nella mia attività professionale, mi sono interessati a tematiche tecnico-statistiche connesse alla contabilità economica nazionale solamente all’inizio delle mia carriera in Banca mondiale: ancora allora, in molti Paesi dell’Africa a sud del Sahara , l’agricoltura di sussistenza rappresentava circa la metà del prodotto lordo di un Paese e, di conseguenza, il Pil era in gran misura funzione della popolazione e della propria produzione per autoconsumo (non sempre agevole da stimare). Negli ultimi anni, mi sono riavvicinato a queste tematiche più per le implicazioni di politica economica in Paesi ad alto livello di sviluppo e di reddito che sotto il profilo tecnico-statistico.
In effetti si è sviluppata una letteratura scientifica molto vasta che ha influito su una pubblicistica divulgativa pure essa vastissima (anche se, spesso, poco accurata) . Insieme questi due tipi (pur molto differenti) di letteratura hanno alimentato un dibattito anche in “think tanks” e fondazioni d’ispirazione politica. Questa nota ha l’obiettivo di facilitare la comprensione di alcuni concetti di base poiché il dibattito in corso rischia di diventare confuso. Riguarda essenzialmente uno dei quattro aspetti in cui è stato declinato il dibattito: quello dell’”economia della felicità” che non aspira a nuove convenzioni statistico- contabilità internazionali (che , al pari di quelle attualmente seguite- in gergo SEC 95, richiedere un utopistico accordo internazionale, meglio se in seno alle Nazioni Unite , ossia un trattata ratificato da circa 200 parlamenti), ma meramente integrazioni alle prassi correnti.
Per un’analisi di come “l’economia della felicità” si coniughi con il dibattito “oltre il Pil) , credo che tutti gli interessati debbano leggere e meditare il saggio di Marc Fleurbaey “Beyond the GDP : the Quest for a Measure of Social Welfare”, pubblicato sul numero di dicembre 2009 del Journal of Economic Literature . Si tratta, a mio avviso, della più completa rassegna della letteratura disponibile (circa 300 titoli), molti dei quali facilmente reperibile sui principali siti di ricerca in materia di economia. Fleurbaey costruisce una tassonomia dei principali filoni del dibattito:
• a) in primo luogo, l’introduzione di correzioni alle attuale regole e prassi di contabilità economica nazionale, una strada impervia non solo per l’aspetto giuridico-organizzativo a cui si è fatto cenno ma anche per difficoltà tecnico-statistiche quali quelle attinenti alla “contabilità verde” ed alla “contabilità degli impatti sulle generazioni future”. In breve , le integrazioni più promettenti riguardano stime di produzione e lavoro non retribuito e di certe categorie di consumi (integrazioni non troppo dissimili da quelle per le stime dell’economia di sussistenza.
• b) in secondo luogo, la scuola di pensiero che mette l’accento sulla “capacitazione”, ossia sulle opportunità di cui fruiscono i componenti della collettività di cui si cerca di misurare il “Pil esteso”. Il concetto di “capacitazione” deriva dalle analisi di Amartya Sen in materia di “nuova economia del benessere”. La sua applicazione alla contabilità economica nazionale, ed alla “misurazione del Pil esteso”, ha sino ad ora prodotto unicamente un lungo elenco di problemi (non solo statistici ma soprattutto di scelte collettive) da risolvere. Una strada, quindi, lunga ed impervia.
• c) In terzo luogo, il percorso degli “indicatori sintetici”, sovente adottato in documenti della Commissione Europea ed analogo ad esercizi effettuati nei primi passi della programmazione economica in Italia, negli Anni Sessanta. E’ stato riproposto, soprattutto in Francia ed in Italia, ma non si aggancia ad una teoria economica solida e può facilmente dare luogo a conclusioni arbitrarie.
• d) in quarto luogo, la strada dell’”economia della felicità” , con attenzione speciale alle difficoltà di raffrontare stati di soddisfazione di vari gruppi della società. Nonostante i suoi limiti, l’”economia della felicità” ha il vantaggio di collegarsi a vari aspetti della “nuova economia del benessere” tutti tesi a giungere ad una maggiore e migliore comprensione della distribuzione di preferenze e valori tra varie categorie della società, campi su cui si lavora da anni e che, proprio a ragione di analisi iniziate alcuni decenni fa, possono rappresentare un percorso utile per andare “oltre il Pil”.
Negli ultimi cinque anni, alla ricerca di un sentiero che porti “oltre il Pil”, Joseph Stiglitz ha abbracciato l’”economia della felicità” con l’entusiasmo dei neofiti. In effetti – chi sa se si ricorda ancora di quando, all’inizio anni Settanta, a Nairobi e si andava a lunch a The Thorn Tree a Kimaty Road ed a cena o da Jacques o a The Lobster Pot – il suo principale contributo alla professione è stata la teoria economica dell’informazione tanto sotto il profilo macro quanto sotto quello micro. Cominciò a lavorarci – ne fece il punto centrale della prolusione pronunciata quando gli venne conferito il Premio Nobel dell’Economia nel 2001- in quella fucina di pensiero e fantasia che era l’Istitute of Development Studies (IDS) della capitale del Kenya. Lì lavorava, fianco a fianco, con John Harris, Micheal Todaro e Richard Jolly specialmente sull’economia del lavoro e del capitale umano allo scopo di comprendere cosa inducesse tanti genitori e tanti ragazzi a completare cicli d’istruzione e migrare verso città dove non c’era lavoro per loro. Stiglitz, con Harris, Todaro e Jolly risposero che la determinante era un sistema distorto d’informazioni. Ho vivo e vivido in mente quel periodo perché, allora in Banca Mondiale, faceva luchi e frequenti soggiorni a Nairobi e frequentava l’IDS. Temi importanti ma distanti dall’”economia della felicità”ma che erano stati al centro dell’attenzione degli economisti classici scozzesi e degli studiosi di economia pubblica e scienza delle finanze italiani e svedesi all’inizio del secolo scorso.
L’”economia della felicità “ –alla voce “economics of happiness” di Goggle escono circa 10 milioni di “entry”- viene da lontano ed è entrata anche nella pubblicistica giornalistica da decenni. Alla metà degli Anni 80, ad esempio, uscì sul “Wall Street Journal” un lungo articolo di un economista d’azienda giapponese intitolato, non senza una punta di polemica, “Konatabe, GNP!” (“Vai al diavolo, Pil ”- ma in nipponico, l’espressione è molto più volgare). In breve, l’articolo sosteneva che poiché il fine pure costituzionale del Giappone moderno è il “perseguimento della felicità”, occorre misurare la crescita non in termini di aumento del valore aggiunto di beni e servizi e della sua consueta ripartizione tra consumi e risparmi/investimenti ma in termini di incremento della felicità sia pubblica sia privata. Tanto più che tecniche di indagine socio-economica e psicologica (quali quelle delle “valutazioni contingenti”) ne rendevano fattibile la misurazione.
L’”economia della felicità” è divenuta una disciplina a se stante , con cattedre ad essa specificatamente intitolate, all’inizio degli Anni 90. Da una decina d’anni c’è anche una manualistica per integrare le analisi consuete , con tecniche condivise per il calcolo della felicità, specialmente sotto il profilo micro-economico. Non si tratta, necessariamente, di letteratura che fa ricorso a modellistica arcana ed ad algoritmi complicati. Tra i lavori in italiano (nonché basati su studi ed esperienze italiane) di rilievo il libro Luigino Bruni e Stefano Zamagni “Economia civile, equità, felicità pubblica” , Il Mulino 2004.) . A livello pubblicistico, io ne ho trattato spesso sul settimanale “Il Domenicale” e su alcuni quotidiani.
Tra le applicazioni recenti, utile ricordare il dibattito su tassazione progressiva e felicità (sia pubblica sia privata) . Importante l’indagine empirica sull’impatto del benessere economico in termini di felicità in Australia , Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi ed Ungheria. L’indagine individua un tratto comune nei cinque: le spese per beni di consumo durevole contano almeno quanto i flussi di reddito in termini di felicità. Inoltre (altro tratto comune) cambiamenti in livelli di ricchezza, di reddito e di consumo producono mutamenti relativamente modesti in termini di soddisfazione, ossia di felicità. Da diversi anni, gli abbonati al servizio telematico del Social Science Resarch Network ricevono – ogni giorno – due newsletter con abstracts di saggi (con la possibilità di scaricarli) che trattano di “economia dei comportamenti” ; una delle due riguarda la metodologia, l’altra esperimenti concreti effettuati quasi in condizioni quasi di laboratorio (come un’aula universitaria allo scopo, ad esempio, di determinare cosa renda “più felice” un gruppo di giovani, voti più alti agli esami o maggior tempo libero).
Guardando verso il futuro a lungo termine, secondo un’analisi del servizio studi della Banca d’Italia, alla fine del XXI secolo, ci accontenteremo di un Pil a crescita rasoterra poiché comunque, a ragione della diminuzione della popolazione, il reddito pro-capite mostrerà leggeri aumenti.
Facciamo un passo indietro . Negli anni 80, l’”economia della felicità” non aveva ancora raggiunto il rango di una disciplina vera e propria, con cattedre ad essa attribuite e pure Premi Nobel tra i suoi cultori. Si era agli inizi. O meglio ai prolegomeni. Mahbub-ul-Haq, a lungo dirigente della Banca Mondiale, e successivamente Ministro della Programmazione del Pakistan, prima di andare alla guida del Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, aveva fondato l’Human Development Center e pubblicava ogni anno un “Human Development Report”, corredato da appositi indicatori (nonché indici compositi) di sviluppo umano che facesse da contraltare al “World Development Report” della Banca Mondiale. Richard Jolly, allora Vice Direttore generale dell’Unicef, proponeva l’utilizzazione di indicatori di sviluppo umano per la valutazione dei progetti come integrazioni di quelli dell’analisi costi benefici (ed in certi casi come loro alternativa).
Oggi, non si è più ad uno stadio meramente pionieristico. Anche se c’è ancora molta strada da fare prima di giungere ad una manualistica puntuale con tecniche condivise per il calcolo della felicità in termini sia micro-economici sia soprattutto macro-economici, non mancano lavori accessibili anche al pubblico che non ha preparazione matematico-formale. Questi lavori analizzano gli effetti economici della felicità e di converso il ruolo della felicità nel plasmare politiche economiche. Tra i più utili vale la pena citare il libro di Bruno Frey e Alois Stutzer “Happiness and Economics; how the economy and the institutions affect human well-being”, “Felicità ed economia; come l’economia e le istituzioni incidono sul benessere umano” Princeton University Press, 2002. Bruno Frey – ricordiamolo – è noto in Italia per i suoi studi teorici ed empirici in tema di economia delle arti sceniche (in particolare di quella musa bizzarra ed altera che è l’opera lirica), nonché di economia del terrorismo e nell’anti-terrorismo; economista di vasti interessi è diventato titolare della cattedra di “economia della felicità” all’Università di Zurigo. Un nesso tra lo studio delle arti sceniche, del terrorismo e della felicità c’è ed è molto forte: si ha, comunque, a che fare con l’analisi economica dei sentimenti e con l’interazione tra comportamenti economici (sia micro sia macro) e sentimenti- campo a cui ha dato apporti di grande spessore, negli ultimi dieci anni, Jon Elster ed in cui la strumentazione dell’economia deve essere coniugata con quelle della psicologia e della sociologia.
Sulla scorta del lavoro di Bruno Frey e Alois Stutzer , il Cancelliere dello Scacchiere britannico, ha fatto riferimento ai paradigmi della “nuova economia della felicità” in un paio delle relazioni di presentazione, al Parlamento di Westminister, del bilancio di previsione, un documento analogo al nostro Dpef . A convincere il flemmatico inglese non è stato solo il dotto libro di Frey e Stutzer, due svizzeri un po’ pedanti, ma anche e soprattutto le quantizzazioni di Andrew Oswald dell’Università di Warwick e di Andrew Clarck del Cnr francese in un interessante saggio dal titolo “un metodo statistico semplice per misurare gli effetti della vita che incidono sulla felicità”. Oswald è lieto di mandarne copia telematica a chi glielo chiede a.j.oswald@warwick.ac.uk. Con il “metodo statistico semplice” si quantizza ad esempio che una vita di coppia ben vissuta ed ovviamente basata sul matrimonio (non su qualche sorta di Pacs) vale € 90.000 euro l’anno di felicità economica. Il divorzio equivale ad una perdita di felicità economica per ben € 270.000 l’anno (sino a quando gli interessati non costruiscono, su nuovi matrimoni, nuove felici vite di coppia). La morte del coniuge, invece, causa una perdita di felicità economica che, in certi casi, sfiora i € 200.000 l’anno nei primi tempi dopo l’avvenimento per ridursi via via che passano gli anni. Il valore, in termini di felicità economica, della perdita del lavoro varia notevolmente su base regionale (in funzione delle opportunità dal lato della domanda e delle rigidità da quello dell’offerta).
E le pensioni? Oswald e Clarck stanno lavorando a quantizzare quanto andare in quiescenza vale in termini di aumento o perdita di felicità, individuale e nazionale. Li ha battuti sui tempi Kerwin Kofi Charles della Università del Michigan che a fine luglio ha pubblicato un voluminoso studio dal titolo: “La pensione deprime? Incentivi a restare sul mercato del lavoro ed il benessere psicologico nell’ultima fase della vita”. Charles è generoso: lo invia, per pochi dollari di spese postali, a chi (senza dirlo al suo editore) gli scrive a kcharles@unimich.edu . Il lavoro consiste in un raffinato modello econometrico dell’interazione tra vita attiva, vita da pensionato, benessere psicologico e felicità (e dei suoi effetti su aggregati e politiche). L’analisi empirica riguarda tre campioni: coorti di sessantenni e settantenni (negli Usa l’età della pensione non è obbligatoria) andati a riposo all’inizio degli Anni Novanta e coorti, sempre di sessantenni e di settantenni, in pensione dall’inizio degli Anni Ottanta. Dopo pagine e pagine di algoritmi e statistiche, le conclusioni: la pensione deprime chi ce la ha, danneggiando sia l’individuo sia il Paese. “La ricerca economica non se ne è accorta perché ha posto l’accento sulle cause non sulle conseguenze della decisione di andare in pensione”. Lo sanno, però, nella lontana Singapore, dove chiunque fa un giro turistico della città Stato, viene informato dalla guida sulle misure che vengono prese per mantenere gli anziani “attivi e mentalmente e fisicamente sani”: ginnastica in tutti i quartieri, protezione dell’ambiente e giardinaggio, cura dei bambini in età pre-scolare, supporto a fare i compiti per quelli che vanno a scuola, assistenza ai disabili (loro coetanei o meno), gestione di biblioteche, impieghi part-time nel terziario (favoritissimi i fast food) e via discorrendo.
Tra le altre applicazioni recenti, interessante il dibattito su tassazione progressiva e felicità (sia pubblica sia privata) che ha contrapposto tra l’altro due esperti americani di rango di scienza delle finanze come Thomas Griffith e Diane M. Ring. Importante , e molto attuale, l’indagine empirica condotta da Ruud Muffles (Università di Tilburg), Bruce Headey e Mark Wooden (ambedue dell’Università di Melbourne) sull’impatto del benessere economico in termini di felicità in Australia , Germania, Gran Bretagna, Paesi Bassi ed Ungheria. L’indagine (basata sulle inchieste periodiche sui consumi delle famiglie effettuate dagli uffici statistici dei cinque Paesi) individua un tratto comune nei cinque Paesi (per molti aspetti distinti e distanti in termini di sistema economico e di reddito-pro-capite): le spese per beni di consumo durevole contano almeno quanto i flussi di reddito in termini di felicità. Inoltre (altro tratto comune) cambiamenti in livelli di ricchezza, di reddito e di consumo producono mutamenti relativamente modesti in termini di soddisfazione, ossia di felicità.
E’ un tema solo da Paesi e società che hanno raggiunto livelli di reddito di reddito e di consumo tali da poter fare fronte alle loro esigenze di base? Non proprio. Così come un quarto di secolo fa, i contributi alla costruzione degli indici di sviluppo umano sono venuti in gran parte da economisti e sociologi dei Paesi invia di sviluppo, ancora una volta apporti teorici all’economia della felicità vengono da studiosi di economia, sociologia e psicologia (materia fondante della disciplina) di lande lontane, spesso ancora del tutto ignoti in Europa e negli Usa. Un esempio è Viswanatha Sankara Rama Subramanian che ha pubblicato, in India, un saggio molto stimolante (disponibile, in Europa, unicamente sul web o rivolgendosi a drvsrs@hotmail.com ) sullo sviluppo (e sulla gestione) della felicità come pre-requisito per la crescita economica, o per accelerarne i tempi.
Si possono applicare alcuni paradigmi dell’economia delle felicità alla situazione economica italiana? Vediamone un paio di esempi prima di lanciare una provocazione. Innanzitutto, altrove ho offerto una spiegazione dell’andamento economico italiano negli ultimi dieci anni non solamente in termini del contesto internazionale e delle politiche di forte aumento della pressione fiscale (sette punti punti percentuali del pil) attuate nella legislatura 1996-2001 dai quattro Governi di sinistra allora succedutesi proprio mentre si restringevano anche i freni monetari. E’ in gioco anche l’economia della felicità: il tenore di vita viene misurato ed avvertito in termini di reddito spendibile pro-capite, che in un Paese caratterizzato da marcato invecchiamento e demografia stazionaria (sarebbe calante senza l’apporto degli immigrati), aumenta anche quando il pil ristagna. Pertanto, se le nostre prospettive sono (come documentato da Albert Ando, Mit, e da Sergio Nicoletti Altimari, Bce, in un lavoro commissionato e pubblicato dalla Banca d’Italia) di un declino della popolazione italiana da 55 milioni nel 2005 a 25 milioni alla fine del secolo, ci accontentiamo e ci accontenteremo di un Pil a crescita rasoterra perché comunque il reddito pro-capite mostrerà leggeri aumenti. Una spiegazione analoga può essere offerta al dibattito in corso ormai da due anni sulle poche ore di lavoro effettivo svolte dagli europei (e dagli italiani in particolare) relativamente a quelle effettuate dagli americani: in un contesto di reddito pro-capite comparativamente elevato, “il salario di riserva” per l’ora aggiuntiva di lavoro (ossia quello si richiede per lavorare un’ora in più) diventa elevato, perché tale diventa la disutilità della fatica. Già alla fine degli Anni Ottanta, Luca Meldolesi scriveva “Mezzogiorno con gioia!” per indicare che i nodi dello sviluppo meridionale si sarebbero potuti affrontare unicamente mettendo nel cassetto la melanconia mediterranea e prendendoli di petto “con gioia”.
Santa Cecilia e il Messaggero: un contenzioso poco edificante in Ffwebmagazine 18 ottobre
LA STORIA
Santa Cecilia e il Messaggero: un contenzioso poco edificante
Se anche un'orchestra
è allergica alle critiche...
di Giuseppe Pennisi In Italia esiste ancora il diritto di critica? O sono stati ripristinati i reati di opinione, anche nei casi in cui ci si limita a riportare l'opinione altrui? Quindi, dobbiamo recedere sia dall'Unione europea sia dal Consiglio d'Europa (prima di esserne cacciati)?
È la domanda da porre tanto al ministro Alfano quanto al ministro Frattini (quanto infine al presidente dell'Accademia di Santa Cecilia , agli Accademici tutti ed alla masse artistiche, per di più finanziate in gran misura da Pantalone).
Ecco i fatti nudi e crudi. Il Maestro Alfredo Gasponi, professore di un prestigioso conservatorio e da anni critico musicale de Il Messaggero (di cui è collaboratore non redattore), è stato condannato dalla corte d'appello di Roma a un risarcimento per oltre 500 mila euro, compresi gli interessi, per un servizio uscito nel 1996 sull'Orchestra di Santa Cecilia. Il 9 marzo del 1996 Gasponi ha pubblicato sul quotidiano capitolino un'intervista in cui il noto direttore d'orchestra tedesco Wolfgang Sawallisch si lamenta di problemi intervenuti durante le prove con l'orchestra di Santa Cecilia per la presenza di troppi giovani aggiunti.
Un'intervista condotta con toni tutt'altro che scandalistici, da un giornalista noto per professionalità ed equilibrio e che alle parole del direttore tedesco affianca le repliche affidate alla voce degli stessi musicisti dell'orchestra e a quelle del presidente-a-vita dell'istituzione, Prof. Bruno Cagli. Un occhiello sulla prima pagina del quotidiano - allora diretto da Anselmi - ha una frase mirata ad attirare l'attenzione: «A Santa Cecilia non sanno suonare». Di qui per iniziativa di circa 80 musicisti dell'orchestra parte una querela per diffamazione, che nel suo secondo grado di giudizio condanna Gasponi al pagamento di 500 mila euro di danni.
In quanto collaboratore de Il Messaggero - lo sanno anche i gatti - Gasponi non ha titolo - si perdoni il calambour - a fare alcun titolo. Ciò spetta esclusivamente alla redazione; la prima pagina è poi appannaggio del direttore , dei suoi vice ed al più dei redattori capo. Secondo la sentenza di secondo grado, il pacioso e rubicondo Prof. Gasponi avrebbe confezionato «un articolo volutamente scandalistico», distorcendo «il pensiero» di Sawallisch, nonostante il Maestro tedesco abbia rilasciato una dichiarazione scritta in cui afferma che Gasponi ha riportato fedelmente le sue parole.
Il caso è gravissimo non solo per i 14 anni di processi sostenuti da Gasponi "colpevole" di aver svolto il suo lavoro ma per la ferita alla libertà di stampa . Ora la vicenda giudiziaria è in Cassazione. Occorre, però, chiedersi con quale coraggio la stagione dell'Accademia è stata inaugurata con un vero e proprio inno alla libertà di pensiero quale il rossiniano "Guglielmo Tell" e perché il suo presidente-a-vita è rimasto silente a fronte delle lettere dell'Associazione nazionale dei critici musicali. Il Parco della Musica è diventato o sta diventando un appendice della Corea del Nord? Se questo il caso, invitiamo i romani a dire "No, Grazie" e al presidente-a-vita a trarne le conseguenze.
18 ottobre 2010
Santa Cecilia e il Messaggero: un contenzioso poco edificante
Se anche un'orchestra
è allergica alle critiche...
di Giuseppe Pennisi In Italia esiste ancora il diritto di critica? O sono stati ripristinati i reati di opinione, anche nei casi in cui ci si limita a riportare l'opinione altrui? Quindi, dobbiamo recedere sia dall'Unione europea sia dal Consiglio d'Europa (prima di esserne cacciati)?
È la domanda da porre tanto al ministro Alfano quanto al ministro Frattini (quanto infine al presidente dell'Accademia di Santa Cecilia , agli Accademici tutti ed alla masse artistiche, per di più finanziate in gran misura da Pantalone).
Ecco i fatti nudi e crudi. Il Maestro Alfredo Gasponi, professore di un prestigioso conservatorio e da anni critico musicale de Il Messaggero (di cui è collaboratore non redattore), è stato condannato dalla corte d'appello di Roma a un risarcimento per oltre 500 mila euro, compresi gli interessi, per un servizio uscito nel 1996 sull'Orchestra di Santa Cecilia. Il 9 marzo del 1996 Gasponi ha pubblicato sul quotidiano capitolino un'intervista in cui il noto direttore d'orchestra tedesco Wolfgang Sawallisch si lamenta di problemi intervenuti durante le prove con l'orchestra di Santa Cecilia per la presenza di troppi giovani aggiunti.
Un'intervista condotta con toni tutt'altro che scandalistici, da un giornalista noto per professionalità ed equilibrio e che alle parole del direttore tedesco affianca le repliche affidate alla voce degli stessi musicisti dell'orchestra e a quelle del presidente-a-vita dell'istituzione, Prof. Bruno Cagli. Un occhiello sulla prima pagina del quotidiano - allora diretto da Anselmi - ha una frase mirata ad attirare l'attenzione: «A Santa Cecilia non sanno suonare». Di qui per iniziativa di circa 80 musicisti dell'orchestra parte una querela per diffamazione, che nel suo secondo grado di giudizio condanna Gasponi al pagamento di 500 mila euro di danni.
In quanto collaboratore de Il Messaggero - lo sanno anche i gatti - Gasponi non ha titolo - si perdoni il calambour - a fare alcun titolo. Ciò spetta esclusivamente alla redazione; la prima pagina è poi appannaggio del direttore , dei suoi vice ed al più dei redattori capo. Secondo la sentenza di secondo grado, il pacioso e rubicondo Prof. Gasponi avrebbe confezionato «un articolo volutamente scandalistico», distorcendo «il pensiero» di Sawallisch, nonostante il Maestro tedesco abbia rilasciato una dichiarazione scritta in cui afferma che Gasponi ha riportato fedelmente le sue parole.
Il caso è gravissimo non solo per i 14 anni di processi sostenuti da Gasponi "colpevole" di aver svolto il suo lavoro ma per la ferita alla libertà di stampa . Ora la vicenda giudiziaria è in Cassazione. Occorre, però, chiedersi con quale coraggio la stagione dell'Accademia è stata inaugurata con un vero e proprio inno alla libertà di pensiero quale il rossiniano "Guglielmo Tell" e perché il suo presidente-a-vita è rimasto silente a fronte delle lettere dell'Associazione nazionale dei critici musicali. Il Parco della Musica è diventato o sta diventando un appendice della Corea del Nord? Se questo il caso, invitiamo i romani a dire "No, Grazie" e al presidente-a-vita a trarne le conseguenze.
18 ottobre 2010
domenica 17 ottobre 2010
Verdi patriottico non convince Parma Milano Finanza 16 ottobre
Verdi patriottico non convince Parma
di Giuseppe Pennisi
Fino al 28 ottobre è in corso a Parma il Festival Verdi con tre nuovi allestimenti de Il Trovatore, I Vespri siciliani e Attila, nonché una sintesi di varie opere e altri lavori in un'atmosfera festiva. Attila viene presentato a Busseto con un cast giovane in un allestimento molto tradizionale.
Al Teatro Regio, Il Trovatore e I Vespri siciliani hanno in comune allestimenti minimali: scena unica con pochi elementi essenziali per le differenti scene. Ne Il Trovatore, con la regia di Lorenzo Mariani e le scene di William Orlandi l'approccio funziona anche grazie alla splendida concertazione di Yuri Temirkanov (che svela nuovi aspetti della partitura) e una compagnia di canto che, dopo alcune sostituzioni, alla terza replica risulta ben assestata e assortita. L'opera viene replicata al Regio fino al 28 ottobre e successivamente salpa per La Fenice, Tokyo e Hong-Kong. Ne I Vespri sicilani, opera raramente rappresentata per le difficoltà vocali che comporta, Pier Luigi Pizzi sposta l'azione del 1282 al 1855 con gran sventolio di bandiere e pioggia di tricolori dai palchi. Ma si tratta di espedienti ormai triti che lo stesso Verdi (molto poco partecipe al Risorgimento) avrebbe poco gradito. Non mancano interessanti movimenti delle masse per animare l'azione e dare un afflato stereofonico ai cori. Di mera routine la concertazione di Massimo Zanetti. Tra gli 11 solisti spiccano Leo Nucci e Giacomo Prestìa. Gelida l'accoglienza del pubblico alla prima. È forse utile una riflessione prima di portare lo spettacolo al Festival estivo dello Sferisterio. (riproduzione riservata)
di Giuseppe Pennisi
Fino al 28 ottobre è in corso a Parma il Festival Verdi con tre nuovi allestimenti de Il Trovatore, I Vespri siciliani e Attila, nonché una sintesi di varie opere e altri lavori in un'atmosfera festiva. Attila viene presentato a Busseto con un cast giovane in un allestimento molto tradizionale.
Al Teatro Regio, Il Trovatore e I Vespri siciliani hanno in comune allestimenti minimali: scena unica con pochi elementi essenziali per le differenti scene. Ne Il Trovatore, con la regia di Lorenzo Mariani e le scene di William Orlandi l'approccio funziona anche grazie alla splendida concertazione di Yuri Temirkanov (che svela nuovi aspetti della partitura) e una compagnia di canto che, dopo alcune sostituzioni, alla terza replica risulta ben assestata e assortita. L'opera viene replicata al Regio fino al 28 ottobre e successivamente salpa per La Fenice, Tokyo e Hong-Kong. Ne I Vespri sicilani, opera raramente rappresentata per le difficoltà vocali che comporta, Pier Luigi Pizzi sposta l'azione del 1282 al 1855 con gran sventolio di bandiere e pioggia di tricolori dai palchi. Ma si tratta di espedienti ormai triti che lo stesso Verdi (molto poco partecipe al Risorgimento) avrebbe poco gradito. Non mancano interessanti movimenti delle masse per animare l'azione e dare un afflato stereofonico ai cori. Di mera routine la concertazione di Massimo Zanetti. Tra gli 11 solisti spiccano Leo Nucci e Giacomo Prestìa. Gelida l'accoglienza del pubblico alla prima. È forse utile una riflessione prima di portare lo spettacolo al Festival estivo dello Sferisterio. (riproduzione riservata)
venerdì 15 ottobre 2010
Critico musicale condanatto a maximulta per titolo fatto da altri Il Foglio 16 ottobre
In Italia esiste ancora il diritto di critica? O sono stati ripristinati i reati di opinione , anche nei casi in cui ci si limita a riportare l'opinione altrui? Quindi, dobbiamo recedere sia dall'Unione Europea sia dal Consiglio d'Europa (prima di esserne cacciati)?
E' la domanda da porre tanto al Ministro Alfano quanto al Ministro Frattini (quanto infine al Presidente dell'Accademia di Santa Cecilia , agli Accademici tutti ed alla masse artistiche , per di più finanziate in gran misura da Pantalone).
Ecco i fatti nudi e crudi. Il Maestro Alfredo Gasponi, professore di un prestigioso conservatorio e da anni critico musicale de «Il Messaggero» (di cui è collaboratore non redattore), è stato condannato dalla corte d'appello di Roma a un risarcimento per oltre 500 mila euro, compresi gli interessi, per un servizio uscito nel 1996 sull'Orchestra di Santa Cecilia. Il 9 marzo del 1996 Gasponi ha pubblicato sul quotidiano capitolino un'intervista in cui il noto direttore d'orchestra tedesco Wolfgang Sawallisch si lamenta di problemi intervenuti durante le prove con l'orchestra di Santa Cecilia per la presenza di troppi giovani aggiunti. Un'intervista condotta con toni tutt'altro che scandalistici, da un giornalista noto per professionalità ed equilibrio e che alle parole del direttore tedesco affianca le repliche affidate alla voce degli stessi musicisti dell'orchestra e a quelle del Presidente-a-vita dell'istituzione, Prof. Bruno Cagli. Un occhiello sulla prima pagina del quotidiano - allora diretto dal compianto Pietro Calabresi - ha una frase mirata ad attirare l'attenzione: «A Santa Cecilia non sanno suonare». Di qui per iniziativa di circa 80 musicisti dell'orchestra parte una querela per diffamazione, che nel suo secondo grado di giudizio condanna Gasponi al pagamento di 500 mila euro di danni. In quanto collaboratore de «Il Messaggero» - lo sanno anche i gatti- Gasponi non ha titolo - si perdoni il calambour - a fare alcun titolo. Ciò spetta esclusivamente alla redazione; la prima pagina è poi appannaggio del direttore , dei suoi vice ed al più dei redattori capo. Secondo la sentenza di secondo grado, il pacioso e rubicondo Prof. Gasponi avrebbe confezionato «un articolo volutamente scandalistico», distorcendo «il pensiero» di Sawallisch, nonostante il Maestro tedesco abbia rilasciato una dichiarazione scritta in cui afferma che Gasponi ha riportato fedelmente le sue parole.
Il caso è gravissimo non solo per i 14 anni di processi sostenuti da Gasponi "colpevole" di aver svolto il suo lavoro ma per la ferita alla libertà di stampa . Ora la vicenda giudiziaria è in Cassazione. Occorre, però, chiedersi con quale coraggio la stagione dell'Accademia è stata inaugurata con un vero e proprio inno alla libertà di pensiero quale il rossiniano "Guglielmo Tell" e perché il suo Presidente-a-vita è rimasto silente a fronte delle lettere dell'Associazione nazionale dei critici musicali. Il Parco della Musica è diventato o sta diventando un appendice della Corea del Nord? Se questo il caso, invitiamo i romani a dire "No, Grazie" ed al Presidente-a-vita a trarne le conseguenze.
E' la domanda da porre tanto al Ministro Alfano quanto al Ministro Frattini (quanto infine al Presidente dell'Accademia di Santa Cecilia , agli Accademici tutti ed alla masse artistiche , per di più finanziate in gran misura da Pantalone).
Ecco i fatti nudi e crudi. Il Maestro Alfredo Gasponi, professore di un prestigioso conservatorio e da anni critico musicale de «Il Messaggero» (di cui è collaboratore non redattore), è stato condannato dalla corte d'appello di Roma a un risarcimento per oltre 500 mila euro, compresi gli interessi, per un servizio uscito nel 1996 sull'Orchestra di Santa Cecilia. Il 9 marzo del 1996 Gasponi ha pubblicato sul quotidiano capitolino un'intervista in cui il noto direttore d'orchestra tedesco Wolfgang Sawallisch si lamenta di problemi intervenuti durante le prove con l'orchestra di Santa Cecilia per la presenza di troppi giovani aggiunti. Un'intervista condotta con toni tutt'altro che scandalistici, da un giornalista noto per professionalità ed equilibrio e che alle parole del direttore tedesco affianca le repliche affidate alla voce degli stessi musicisti dell'orchestra e a quelle del Presidente-a-vita dell'istituzione, Prof. Bruno Cagli. Un occhiello sulla prima pagina del quotidiano - allora diretto dal compianto Pietro Calabresi - ha una frase mirata ad attirare l'attenzione: «A Santa Cecilia non sanno suonare». Di qui per iniziativa di circa 80 musicisti dell'orchestra parte una querela per diffamazione, che nel suo secondo grado di giudizio condanna Gasponi al pagamento di 500 mila euro di danni. In quanto collaboratore de «Il Messaggero» - lo sanno anche i gatti- Gasponi non ha titolo - si perdoni il calambour - a fare alcun titolo. Ciò spetta esclusivamente alla redazione; la prima pagina è poi appannaggio del direttore , dei suoi vice ed al più dei redattori capo. Secondo la sentenza di secondo grado, il pacioso e rubicondo Prof. Gasponi avrebbe confezionato «un articolo volutamente scandalistico», distorcendo «il pensiero» di Sawallisch, nonostante il Maestro tedesco abbia rilasciato una dichiarazione scritta in cui afferma che Gasponi ha riportato fedelmente le sue parole.
Il caso è gravissimo non solo per i 14 anni di processi sostenuti da Gasponi "colpevole" di aver svolto il suo lavoro ma per la ferita alla libertà di stampa . Ora la vicenda giudiziaria è in Cassazione. Occorre, però, chiedersi con quale coraggio la stagione dell'Accademia è stata inaugurata con un vero e proprio inno alla libertà di pensiero quale il rossiniano "Guglielmo Tell" e perché il suo Presidente-a-vita è rimasto silente a fronte delle lettere dell'Associazione nazionale dei critici musicali. Il Parco della Musica è diventato o sta diventando un appendice della Corea del Nord? Se questo il caso, invitiamo i romani a dire "No, Grazie" ed al Presidente-a-vita a trarne le conseguenze.
giovedì 14 ottobre 2010
First Class, The new Palermo production of the Barber of Seville in Music & Vision September 25
First Class
The new Palermo production of
Rossini's 'The Barber of Seville',
a casual worker in Almodóvar's Seville,
recommended by GIUSEPPE PENNISI
Palermo's 'Teatro Massimo' is a rare bird in Italian lyric opera landscape -- fourteen public-private foundations and nearly thirty 'teatri di tradizione', mostly managed by the local Municipalities. Whilst most of them are struggling to pay their debts and to avoid default (if not bankruptcy), after a difficult period and the rescheduling of a major debt organized with an international bank, over the last five fiscal years, the Teatro Massimo has balanced its accounts (and amortized its rescheduled debt) and reported a small surplus every year. This has required a 30% cut in production cost along with an increase in productivity: in 2010, its calendar provides for 104 performances, excluding the special matinée program for students (thirty-thousand young spectators over the course of the year). This compares with 125 opera performance at La Scala in Milan and only twenty-four at San Carlo in Naples. The reduction in costs and increase in production have been made possible through a network of alliances of major opera houses in Europe and in the USA, as well as by the employment of young but promising singers, thus offering opportunities to the new generation and paying lower cachet than other theatres. Also, whenever possible, the stage production of traditional operas are conceived to attract new audience, even though the number of 'season' subscribers is high and has increased in the last few years. The recovery of the Teatro Massimo is a case study that deserves to be examined by other theatres and also to be taught in performing arts management schools.
Dmitry Korchak as Count Almaviva and Fabio Capitanucci as Figaro in Rossini's 'The Barber of Seville' at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2010 Franco Lannino/Studio Camera
Thus, your reviewer had many reasons to fly to Palermo for the opening night (18 September 2010) of a new production of an old, but always functioning, dog like Rossini's Il Barbiere di Siviglia. The plot, with its brilliantly drawn characters and amusing situations, was a source of the happiest inspiration to Rossini who, at the age of twenty-four, was already a consummate musician, a bigoted thinker but an experienced lover of the thirty-one-year-old mistress of his employer (the impresario Domenico Barabaja) in a very happy-go-lucky ménage à trois. The score overflows with musical gems; their value can be fully appreciated only in the hand of a good conductor, an excellent orchestra and a cast of singers who can deal with virtuoso arias as well as act like top class comedians. The music is imbued with the true spirit of comedy with the enchanting arias revealing most perspicacious musical portraits of all characters. Briefly, the arias are not only melodious, but delicately characterized and subtly humorous. The cunning Figaro is described by a swift allegro vivace, the conceited Bartolo by a pompous andande maestoso, and the peppery Rosina by a scherzo. The various ensembles are equally delightful, as for instance that agitated finale to Act I and the comic entrance of the Count disguised as a music master in Act II. Also, Il Barbiere embraces the full range of comic opera expression, from the rapid chatter of parlato through to the sigh of love to robust jokes.
A scene from Rossini's 'The Barber of Seville' at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2010 Franco Lannino/Studio Camera
Michele Mariotti, born thirty years ago in Pesaro (Rossini's birth place), is a new rising star in the Italian conducting firmament. Il Barbiere was the first opera he conducted five years ago, just out of Conservatory; a few months ago his Barbiere was a major hit at La Scala. He knows every note and every trap of the score and shows a true empathy for the orchestra and the singers. On 18 September he offered an almost perfect musical direction. Why 'almost'? The coulisses of Teatro Massimo say that he decided to follow the 'traditional cut' of the last tenor aria Cessa di più resister, so dear to Rockwell Blake and now to Juan Diego Florèz. The aria had been cut for decades before Blake and Florès re-introduced it. There were two reasons for its long absence: firstly, the brilliant but impervious vocalizing (full of high Cs) required, and secondly, dramaturgically, the aria is not essential to the plot, but nearly an interruption of the action. I do not agree with these reasons, especially if the tenor is Dmitry Korchack (nearly as old as Maestro Mariotti) who is perfectly able to sing it, as shown in other recent performances in other theatres.
Ketevan Kemoklidze as Rosina and Dmitry Korchak as Count Almaviva in Rossini's 'The Barber of Seville' at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2010 Franco Lannino/Studio Camera
Rosina is the twenty-eight-year-old Georgian mezzo Ketevan Kemoklidze, who has just won the international Operalia competition. She gave an excellent demonstration of her vocal and acting skills, especially in Una voce poco fà and in the whirlpool ensembles in the second scene of Act I and in Act II; she has a great career ahead if she sticks with this type of vocality.
Nicola Alaimo as Don Bartolo and Fabio Capitanucci as Figaro in Rossini's 'The Barber of Seville' at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2010 Franco Lannino/Studio Camera
Fabio Maria Capitanucci (Figaro) and Nicola Alaimo (Bartolo) have about the same age of the three principals of the cast; with the fifty-year-old Simone Alaimo (Basilio) and the delightful Giovanna Donadini (Berta), completing a first class cast, both vocally and scenically.
A scene from Rossini's 'The Barber of Seville' at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2010 Franco Lannino/Studio Camera
Normally, I deal with the stage direction, sets and costumes before reviewing the musical aspects. For this Barbiere the staging deserves a special mention: Francesco Micheli (thirty-eight years old, and comparatively young on the Italian operatic scene) offers a Barbiere which is not the usual slapstick farce: Seville is seen through the eyes and the painting of Mirò and Cesari Sterbini's libretto through the mind of Pedro Almodóvar. Thus Bartolo, the guardian of Rosina, is also her old lover-protector (as it used to be in the late eighteenth century). The 'ward' has smelled better eros and better sex with the 'young student Lindoro' (the Count of Almavivan in disguise). And Figaro? He is a casual worker in search of a permanent occupation ; meantime, he is a jack-of-all-trades (not only a barber), selling his services to the old power (Bartolo and Basilio) and the new power-to-be (Almaviva and Rosina). We know that he will get a steady job in the employ of the Count who would try to sleep with his wife the very night of their wedding. The Mirò sets are by Angelo Canu, and the costumes by Marja Hoffmann. They are part of the Teatro Massimo permanent staff; sets and costumes were produced in the theatre's workshop. To further heighten the Mirò/Almodóovar atmosphere, sets and costumes are very bright. The principals wore shantung silk costumes: black for the old guard, shocking yellow for Rosina, blue for Almaviva and red for Figaro.
Dmitry Korchak as Count Almaviva, Ketevan Kemoklidze as Rosina and Fabio Capitanucci as Figaro in Rossini's 'The Barber of Seville' at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2010 Franco Lannino/Studio Camera
A budget but high quality production. We want a DVD!
Copyright © 25 September 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
GIOACCHINO ROSSINI
THE BARBER OF SEVILLE
ITALY
<< M&V home Concert reviews Hallé Orchestra >>
The new Palermo production of
Rossini's 'The Barber of Seville',
a casual worker in Almodóvar's Seville,
recommended by GIUSEPPE PENNISI
Palermo's 'Teatro Massimo' is a rare bird in Italian lyric opera landscape -- fourteen public-private foundations and nearly thirty 'teatri di tradizione', mostly managed by the local Municipalities. Whilst most of them are struggling to pay their debts and to avoid default (if not bankruptcy), after a difficult period and the rescheduling of a major debt organized with an international bank, over the last five fiscal years, the Teatro Massimo has balanced its accounts (and amortized its rescheduled debt) and reported a small surplus every year. This has required a 30% cut in production cost along with an increase in productivity: in 2010, its calendar provides for 104 performances, excluding the special matinée program for students (thirty-thousand young spectators over the course of the year). This compares with 125 opera performance at La Scala in Milan and only twenty-four at San Carlo in Naples. The reduction in costs and increase in production have been made possible through a network of alliances of major opera houses in Europe and in the USA, as well as by the employment of young but promising singers, thus offering opportunities to the new generation and paying lower cachet than other theatres. Also, whenever possible, the stage production of traditional operas are conceived to attract new audience, even though the number of 'season' subscribers is high and has increased in the last few years. The recovery of the Teatro Massimo is a case study that deserves to be examined by other theatres and also to be taught in performing arts management schools.
Dmitry Korchak as Count Almaviva and Fabio Capitanucci as Figaro in Rossini's 'The Barber of Seville' at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2010 Franco Lannino/Studio Camera
Thus, your reviewer had many reasons to fly to Palermo for the opening night (18 September 2010) of a new production of an old, but always functioning, dog like Rossini's Il Barbiere di Siviglia. The plot, with its brilliantly drawn characters and amusing situations, was a source of the happiest inspiration to Rossini who, at the age of twenty-four, was already a consummate musician, a bigoted thinker but an experienced lover of the thirty-one-year-old mistress of his employer (the impresario Domenico Barabaja) in a very happy-go-lucky ménage à trois. The score overflows with musical gems; their value can be fully appreciated only in the hand of a good conductor, an excellent orchestra and a cast of singers who can deal with virtuoso arias as well as act like top class comedians. The music is imbued with the true spirit of comedy with the enchanting arias revealing most perspicacious musical portraits of all characters. Briefly, the arias are not only melodious, but delicately characterized and subtly humorous. The cunning Figaro is described by a swift allegro vivace, the conceited Bartolo by a pompous andande maestoso, and the peppery Rosina by a scherzo. The various ensembles are equally delightful, as for instance that agitated finale to Act I and the comic entrance of the Count disguised as a music master in Act II. Also, Il Barbiere embraces the full range of comic opera expression, from the rapid chatter of parlato through to the sigh of love to robust jokes.
A scene from Rossini's 'The Barber of Seville' at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2010 Franco Lannino/Studio Camera
Michele Mariotti, born thirty years ago in Pesaro (Rossini's birth place), is a new rising star in the Italian conducting firmament. Il Barbiere was the first opera he conducted five years ago, just out of Conservatory; a few months ago his Barbiere was a major hit at La Scala. He knows every note and every trap of the score and shows a true empathy for the orchestra and the singers. On 18 September he offered an almost perfect musical direction. Why 'almost'? The coulisses of Teatro Massimo say that he decided to follow the 'traditional cut' of the last tenor aria Cessa di più resister, so dear to Rockwell Blake and now to Juan Diego Florèz. The aria had been cut for decades before Blake and Florès re-introduced it. There were two reasons for its long absence: firstly, the brilliant but impervious vocalizing (full of high Cs) required, and secondly, dramaturgically, the aria is not essential to the plot, but nearly an interruption of the action. I do not agree with these reasons, especially if the tenor is Dmitry Korchack (nearly as old as Maestro Mariotti) who is perfectly able to sing it, as shown in other recent performances in other theatres.
Ketevan Kemoklidze as Rosina and Dmitry Korchak as Count Almaviva in Rossini's 'The Barber of Seville' at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2010 Franco Lannino/Studio Camera
Rosina is the twenty-eight-year-old Georgian mezzo Ketevan Kemoklidze, who has just won the international Operalia competition. She gave an excellent demonstration of her vocal and acting skills, especially in Una voce poco fà and in the whirlpool ensembles in the second scene of Act I and in Act II; she has a great career ahead if she sticks with this type of vocality.
Nicola Alaimo as Don Bartolo and Fabio Capitanucci as Figaro in Rossini's 'The Barber of Seville' at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2010 Franco Lannino/Studio Camera
Fabio Maria Capitanucci (Figaro) and Nicola Alaimo (Bartolo) have about the same age of the three principals of the cast; with the fifty-year-old Simone Alaimo (Basilio) and the delightful Giovanna Donadini (Berta), completing a first class cast, both vocally and scenically.
A scene from Rossini's 'The Barber of Seville' at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2010 Franco Lannino/Studio Camera
Normally, I deal with the stage direction, sets and costumes before reviewing the musical aspects. For this Barbiere the staging deserves a special mention: Francesco Micheli (thirty-eight years old, and comparatively young on the Italian operatic scene) offers a Barbiere which is not the usual slapstick farce: Seville is seen through the eyes and the painting of Mirò and Cesari Sterbini's libretto through the mind of Pedro Almodóvar. Thus Bartolo, the guardian of Rosina, is also her old lover-protector (as it used to be in the late eighteenth century). The 'ward' has smelled better eros and better sex with the 'young student Lindoro' (the Count of Almavivan in disguise). And Figaro? He is a casual worker in search of a permanent occupation ; meantime, he is a jack-of-all-trades (not only a barber), selling his services to the old power (Bartolo and Basilio) and the new power-to-be (Almaviva and Rosina). We know that he will get a steady job in the employ of the Count who would try to sleep with his wife the very night of their wedding. The Mirò sets are by Angelo Canu, and the costumes by Marja Hoffmann. They are part of the Teatro Massimo permanent staff; sets and costumes were produced in the theatre's workshop. To further heighten the Mirò/Almodóovar atmosphere, sets and costumes are very bright. The principals wore shantung silk costumes: black for the old guard, shocking yellow for Rosina, blue for Almaviva and red for Figaro.
Dmitry Korchak as Count Almaviva, Ketevan Kemoklidze as Rosina and Fabio Capitanucci as Figaro in Rossini's 'The Barber of Seville' at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2010 Franco Lannino/Studio Camera
A budget but high quality production. We want a DVD!
Copyright © 25 September 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
GIOACCHINO ROSSINI
THE BARBER OF SEVILLE
ITALY
<< M&V home Concert reviews Hallé Orchestra >>
“ORPHEE” INAUGUARATES THE 25TH EDITION OF ROMA-EUROPA FESTIVAL Music and Vision September 25
“ORPHEE” INAUGUARATES THE 25TH EDITION OF ROMA-EUROPA FESTIVAL
Giuseppe Pennisi
The RomaEuropa Festival is 25 years old. When it first started, few believed that it would survive that long because the Italian audience had the reputation of being rather conservative and, thus, hardly opened to a festival which tried to marry modern and classical music with ballet and electronics. More surprisingly , the Festival was headed by a not so young former politician – now 92 years old – who after several Ministerial posts had became the head of a major insurance company but has always had the flair for modern paintings and contemporary music. Next to him a young French lady with experience in performing arts organization and a lot of connections in her native country France, Initially, the Festival was mostly an Italian-French affair. It gradually broadened its horizons; e.g. it was the first music initiative to bring to Italy an opera with Peter Sellars ‘ stage direction.
This year , the Festival lasts from September 21st to December 2nd and offers 35 different shows (some with two or three performances). It is financed mostly by local authorities and several private enterprises, including banks and high tech firms. It operates in several theatres and auditorium both in the city centre and in the suburbs. A reason for its success is that it practices a low prices policy and attracts young people.
The 2010 edition was inaugurated with Orphée by José Montalvo and Dominique Hervieu, a modern version of an opéra-ballet with music borrowed from Monteverdi, Gluck and Glass (as far as I could gathered on the September 21st opening night), performed by a cellist and a tiorba player (as well as sang by professional singers) but mixed with recorded modern rhythm. It is a modern Rive Gauche Orphée ; a band of happy-go-lucky youngsters, including the poet and his girl friend-wife, have marvelous time in today’s Paris – huge projections and a Svoboda’s “magic lantern” effects provide the right atmosphere. But Eurydice dies ,just as the myth goes, and her lover travel to hell (a very grey Paris) to bring her back. On the return trip to Paris, the young man turns to make sure she is with him and, of course, she dies again and forever. Back in the Rive Gauche, Orphée joins sexy “boys only” clubs until the Furies eat him alive because they are responsible to punish all crimes against the rules of the society. The one Act “opera-ballet” lasts 75 minutes . A long tour is planned in France, Luxemburg, Belgium and (next January) Italy. No doubt, the dancing is very attractive as well as acrobatic. The singing is entrusted to two sopranos (Sabine Novel, Soanny Fay), a tenor- cellist (Sébastien Obrecht) , two basses (Blaise Kouakou, Merlin Nyakam), a marvelous counter-tenor (Théophile Alexandre). The tiorba player is Folent Marie. An interesting and pleasant approach to the myth which may encourage the audience to go and listen the “real things” by Monteverdi and Gluck.
Just a few words of some of the other items of the Festival. For electronic music and electro-acustics lovers, there Sensoralia and Visual Concert. For those who prefer contemporary “high” music, Kurtag’s Kafka Fragments with Dawn Upshaw under Peter Sellars’ stage direction. For more traditional audience Shostakovic ‘ seldom performed Leningrad mammoth symphony. In short, electronics prevail but there also an eye to the more conservative audience.
Giuseppe Pennisi
The RomaEuropa Festival is 25 years old. When it first started, few believed that it would survive that long because the Italian audience had the reputation of being rather conservative and, thus, hardly opened to a festival which tried to marry modern and classical music with ballet and electronics. More surprisingly , the Festival was headed by a not so young former politician – now 92 years old – who after several Ministerial posts had became the head of a major insurance company but has always had the flair for modern paintings and contemporary music. Next to him a young French lady with experience in performing arts organization and a lot of connections in her native country France, Initially, the Festival was mostly an Italian-French affair. It gradually broadened its horizons; e.g. it was the first music initiative to bring to Italy an opera with Peter Sellars ‘ stage direction.
This year , the Festival lasts from September 21st to December 2nd and offers 35 different shows (some with two or three performances). It is financed mostly by local authorities and several private enterprises, including banks and high tech firms. It operates in several theatres and auditorium both in the city centre and in the suburbs. A reason for its success is that it practices a low prices policy and attracts young people.
The 2010 edition was inaugurated with Orphée by José Montalvo and Dominique Hervieu, a modern version of an opéra-ballet with music borrowed from Monteverdi, Gluck and Glass (as far as I could gathered on the September 21st opening night), performed by a cellist and a tiorba player (as well as sang by professional singers) but mixed with recorded modern rhythm. It is a modern Rive Gauche Orphée ; a band of happy-go-lucky youngsters, including the poet and his girl friend-wife, have marvelous time in today’s Paris – huge projections and a Svoboda’s “magic lantern” effects provide the right atmosphere. But Eurydice dies ,just as the myth goes, and her lover travel to hell (a very grey Paris) to bring her back. On the return trip to Paris, the young man turns to make sure she is with him and, of course, she dies again and forever. Back in the Rive Gauche, Orphée joins sexy “boys only” clubs until the Furies eat him alive because they are responsible to punish all crimes against the rules of the society. The one Act “opera-ballet” lasts 75 minutes . A long tour is planned in France, Luxemburg, Belgium and (next January) Italy. No doubt, the dancing is very attractive as well as acrobatic. The singing is entrusted to two sopranos (Sabine Novel, Soanny Fay), a tenor- cellist (Sébastien Obrecht) , two basses (Blaise Kouakou, Merlin Nyakam), a marvelous counter-tenor (Théophile Alexandre). The tiorba player is Folent Marie. An interesting and pleasant approach to the myth which may encourage the audience to go and listen the “real things” by Monteverdi and Gluck.
Just a few words of some of the other items of the Festival. For electronic music and electro-acustics lovers, there Sensoralia and Visual Concert. For those who prefer contemporary “high” music, Kurtag’s Kafka Fragments with Dawn Upshaw under Peter Sellars’ stage direction. For more traditional audience Shostakovic ‘ seldom performed Leningrad mammoth symphony. In short, electronics prevail but there also an eye to the more conservative audience.
Pilgrimages of the Soul Music and Vision 26 settembre
Pilgrimages of the Soul
GIUSEPPE PENNISI visits
Italy's Sagra Musicale Umbra
The Sagra Musicale Umbra is the oldest music Festival in Italy. Its 65th edition has had special features when compared with any other European festival: it was a nine day journey (10-19 September 2010) through an entire region where it combined the beauty of landscape, monuments and arts that have few parallels anywhere. The integration between music, on the one hand, and various forms of visual art, on the other, has been an essential element of the nine days -- with nearly twenty five concerts and lectures.
Traditionally, The Sagra Musicale Umbra is a festival of 'spiritual' music. This does not mean that it is a festival of religious or sacred music. The intention is to offer, in St Francis' region, music dealing with themes that talk to the soul. This 2010 edition is named 'Pilgrimages of the Soul' because the nine days of concerts (at least two every day) are in nine different localities. The 'pilgrimages' are a search in that they do not have a specific point of arrival. Indeed, almost emblematically, they start with two 'unfinished' works: Bruckner's Ninth Symphony and Schubert's Symphony in B minor. Thus, the search itself is 'unfinished'. Also, it is not only a search on a Roman Catholic and/or a Christian path; after a High Mass in Perugia's Cathedral, the first concert was, on 11 September, a musical meetings of several cultures and religions of the Mediterranean Basin in the remarkable setting in the Church of San Bevignate where the early Gothic purity is imbued with the Knights Templar and the Crusades.
The central part of the Sagra was a celebration of Luigi Cherubini on the 250th anniversary of his birth. Past editions of the festival have had a fundamental importance in making Cherubini's music known to the rest of the musical world, after the disappearance of most of his compositions since the second half of the nineteenth century. This year, the Sagra presented a substantial anthology of his most important works. First among them the Requiem in C minor composed in 1816 for the reparative funeral of King Louis XVI; it is one of the scores most revered in the nineteenth century for its dramatic power, in which the ghost of the French Revolution finds expression in the composer's pessimistic dismay as an artist who survived one of the most tragic events of modern history. Also, the Sagra offered the rare and extraordinary Capriccio, forty minutes of virtuoso piano without intermission, a true keyboard madness which combines polyphonic artistry with intimate expressiveness. Composed in 1789, Capriccio is undeniably full of anticipations of the future, even of Romanticism. Finally, the Sagra offered Cherubini's finest string quartet.
The Sagra also paid homage to Giovanni Battista Pergolesi in the three hundredth anniversary of his birth with his well-known Salve Regina and Stabat Mater as well as with a reconstructed Vespro della Beata Vergine edited by the musicologist Malcolm Bruno on the basis of a variety of Pergolesian religious compositions.
A final comment before focusing on the four concerts heard by your reviewer. The Sagra takes place only in two theatres: the seven hundred seat nineteenth century Teatro Morlacchi in Perugia and the small two hundred seat Teatro Cuccineli in Solomeo. Most of the performances are in churches or in museums. This year, for the first time, the Sagra experimented with presentation, by art specialists, of the visual aspects of the places where the different events were held. The experiment was successful because it showed the links between music, on the one hand, and architecture and visual art, on the other.
An innovation of this Sagra was that it did not start with its tradition of many decades -- an opera or a concert in Perugia's Teatro Morlacchi. As mentioned above, the inauguration took place on 11 September -- a date full of meaning. Thus, the first event was a 6pm High Mass co-celebrated by the Archbishop and two priests in the grand San Lorenzo Cathedral, in the real heart of Perugia. As with any High Mass, this was a celebration with singing. The vocal ensemble 'Laurence Feininger' from Trento sang ancient Gregorian compositions discovered in the 'Laurence Feininger' library, one of the largest libraries of Roman Catholic music in the world, mostly music pre-dating the Council of Trent -- thus going back to the first centuries of the previous millennium.
Coro Laurence Feininger. Photo © 2010 Adriano Scognamillo
On the left side of the Cathedral, the chorus directed by Stefano Gianotti and accompanied by Stefano Rattini at the organ, sang highlights from the Missa in Nativitate Beatae Nariae Virginis and the Credo Regis, two anonymous fourteenth century Gregorian Compositions; the congregation was engrossed.
A few hours later, at 9pm, in the Templar Church of San Bevignate, the first inaugural concert by the intercultural Hespèrion XXI complex, created and conducted by Jordi Savall, took place. The Church has been utilized in a variety of ways over the centuries -- even as storage -- but it had major repair and refurbishing work to bring it back to its ancient splendor. It is not used for religious purposes but for conferences, lectures and concerts. The Templar Church was a meeting point of cultures, but also a point of cultural conflict; there are traces in its frescoes, especially in the materials employed and in the special techniques of manufacturing, full of Arabic and Persian influence. The four performers came from Spain, Morocco and Greece, and employed instruments (oud, moresca, samur, viella, rebab) either dating from several centuries ago or modeled after those of the pertinent periods. Seeing the instruments being played in the Templar Church with its frescoes was a pleasure for the eyes.
Jordi Savall. Photo © 2010 Adriano Scognamillo
The concert was divided into four sections, and each section included a short program of Jewish Sephardite, Andalusian, Berberian and Arabic music to show their similarities, especially in the use of micro-tonalities. This is quite astonishing because, in a way, micro-tonalities were rediscovered after several centuries in the music for twelve tone row as developed by the Viennese school at the beginning of the twentieth century. In the Sephardite, Andalusian, Berberian and Arabic music played by Hespèrion XXI there was considerable rhythm, but also a spell of Mediterranean melancholy which almost folded each individual piece of music and the entire concert. A fascinating exercise and a pure pleasure for the ears as well as an understanding of the cultural unity of the Mediterranean Basin -- a unity that music shows better than many other forms of artistic expression.
Hespèrion XXI. Photo © 2010 Adriano Scognamillo
Hespèrion XXI has already produced fifty seven CDs, a few DVDs and also books with CDs. If account is taken of the difficulties of performing now music of several centuries ago, as well as of the many possibilities offered to each musician, it is remarkable how Hespèrion XXI can combine individual creativity and team work in a dynamic synthesis of musical expression, the historical stylistic research and the imagination of the 21st century musicians.
On 12 September 2010, the Sagra offered two events: a piano concert in the Franciscan Museum of Montefalco (a bus ride of nearly one hour from Perugia) at 5pm and a full symphonic concert in the Teatro Morlacchi at 9pm. The piano concert focused on waltzes and nocturnes, mostly by Chopin, but also by Karganoff, Borodin, Tchaikovsky, Weber, Schumann, Bertini, Fauré and Debussy.
Bart van Oort. Photo © 2010 Adriano Scognamillo
Bart van Oort is internationally known and does not require any introduction. He played for nearly two hours on a 1849 Pleyel piano. A joy of mostly romantic music strikingly contrasting the symphony concert just a few hours later.
David Afkham conducting the Gustav Mahler Jugendorchester. Photo © 2010 Adriano Scognamillo
At the Teatro Morlacchi, the Gustav Mahler Jugendorchester conducted by David Afkham performed Hindemith's Mathis der Maler symphony and Bruckner's Sympony No 9 in C minor. David Afkham is twenty eight years old. The average age of the one hundred and ten members of the Gustav Mahler Jugendorchester is about twenty-three. They dealt with these two most difficult and very different symphonies with skill, talent and enthusiasm.
The Gustav Mahler Jugendorchester. Photo © 2010 Adriano Scognamillo
In the 1930s, Paul Hindemith was dealing with the drama of the artist's involvement in politics; his writing is very tense and full of undertones. In 1896, Anton Bruckner was preparing himself for death -- a serene death, as he was a rigorous practicing Roman Catholic, with a major late romantic work he never completed. The Teatro Morlacchi is a seven hundred seat wooden structure with three rows of boxes. With the fire of these young performers it became a true music box. The audience, captivated by the performers' enthusiasm, erupted with accolades and standing ovations.
Copyright © 26 September 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
ITALY
ANTON BRUCKNER
FRANZ SCHUBERT
PAUL HINDEMITH
FRYDERYCK CHOPIN
ALEXANDER BORODIN
PYOTR ILYICH TCHAIKOVSKY
CARL MARIA VON WEBER
ROBERT SCHUMANN
GABRIEL FAURE
CLAUDE DEBUSSY
<< M&V home Concert reviews Rossini >>
GIUSEPPE PENNISI visits
Italy's Sagra Musicale Umbra
The Sagra Musicale Umbra is the oldest music Festival in Italy. Its 65th edition has had special features when compared with any other European festival: it was a nine day journey (10-19 September 2010) through an entire region where it combined the beauty of landscape, monuments and arts that have few parallels anywhere. The integration between music, on the one hand, and various forms of visual art, on the other, has been an essential element of the nine days -- with nearly twenty five concerts and lectures.
Traditionally, The Sagra Musicale Umbra is a festival of 'spiritual' music. This does not mean that it is a festival of religious or sacred music. The intention is to offer, in St Francis' region, music dealing with themes that talk to the soul. This 2010 edition is named 'Pilgrimages of the Soul' because the nine days of concerts (at least two every day) are in nine different localities. The 'pilgrimages' are a search in that they do not have a specific point of arrival. Indeed, almost emblematically, they start with two 'unfinished' works: Bruckner's Ninth Symphony and Schubert's Symphony in B minor. Thus, the search itself is 'unfinished'. Also, it is not only a search on a Roman Catholic and/or a Christian path; after a High Mass in Perugia's Cathedral, the first concert was, on 11 September, a musical meetings of several cultures and religions of the Mediterranean Basin in the remarkable setting in the Church of San Bevignate where the early Gothic purity is imbued with the Knights Templar and the Crusades.
The central part of the Sagra was a celebration of Luigi Cherubini on the 250th anniversary of his birth. Past editions of the festival have had a fundamental importance in making Cherubini's music known to the rest of the musical world, after the disappearance of most of his compositions since the second half of the nineteenth century. This year, the Sagra presented a substantial anthology of his most important works. First among them the Requiem in C minor composed in 1816 for the reparative funeral of King Louis XVI; it is one of the scores most revered in the nineteenth century for its dramatic power, in which the ghost of the French Revolution finds expression in the composer's pessimistic dismay as an artist who survived one of the most tragic events of modern history. Also, the Sagra offered the rare and extraordinary Capriccio, forty minutes of virtuoso piano without intermission, a true keyboard madness which combines polyphonic artistry with intimate expressiveness. Composed in 1789, Capriccio is undeniably full of anticipations of the future, even of Romanticism. Finally, the Sagra offered Cherubini's finest string quartet.
The Sagra also paid homage to Giovanni Battista Pergolesi in the three hundredth anniversary of his birth with his well-known Salve Regina and Stabat Mater as well as with a reconstructed Vespro della Beata Vergine edited by the musicologist Malcolm Bruno on the basis of a variety of Pergolesian religious compositions.
A final comment before focusing on the four concerts heard by your reviewer. The Sagra takes place only in two theatres: the seven hundred seat nineteenth century Teatro Morlacchi in Perugia and the small two hundred seat Teatro Cuccineli in Solomeo. Most of the performances are in churches or in museums. This year, for the first time, the Sagra experimented with presentation, by art specialists, of the visual aspects of the places where the different events were held. The experiment was successful because it showed the links between music, on the one hand, and architecture and visual art, on the other.
An innovation of this Sagra was that it did not start with its tradition of many decades -- an opera or a concert in Perugia's Teatro Morlacchi. As mentioned above, the inauguration took place on 11 September -- a date full of meaning. Thus, the first event was a 6pm High Mass co-celebrated by the Archbishop and two priests in the grand San Lorenzo Cathedral, in the real heart of Perugia. As with any High Mass, this was a celebration with singing. The vocal ensemble 'Laurence Feininger' from Trento sang ancient Gregorian compositions discovered in the 'Laurence Feininger' library, one of the largest libraries of Roman Catholic music in the world, mostly music pre-dating the Council of Trent -- thus going back to the first centuries of the previous millennium.
Coro Laurence Feininger. Photo © 2010 Adriano Scognamillo
On the left side of the Cathedral, the chorus directed by Stefano Gianotti and accompanied by Stefano Rattini at the organ, sang highlights from the Missa in Nativitate Beatae Nariae Virginis and the Credo Regis, two anonymous fourteenth century Gregorian Compositions; the congregation was engrossed.
A few hours later, at 9pm, in the Templar Church of San Bevignate, the first inaugural concert by the intercultural Hespèrion XXI complex, created and conducted by Jordi Savall, took place. The Church has been utilized in a variety of ways over the centuries -- even as storage -- but it had major repair and refurbishing work to bring it back to its ancient splendor. It is not used for religious purposes but for conferences, lectures and concerts. The Templar Church was a meeting point of cultures, but also a point of cultural conflict; there are traces in its frescoes, especially in the materials employed and in the special techniques of manufacturing, full of Arabic and Persian influence. The four performers came from Spain, Morocco and Greece, and employed instruments (oud, moresca, samur, viella, rebab) either dating from several centuries ago or modeled after those of the pertinent periods. Seeing the instruments being played in the Templar Church with its frescoes was a pleasure for the eyes.
Jordi Savall. Photo © 2010 Adriano Scognamillo
The concert was divided into four sections, and each section included a short program of Jewish Sephardite, Andalusian, Berberian and Arabic music to show their similarities, especially in the use of micro-tonalities. This is quite astonishing because, in a way, micro-tonalities were rediscovered after several centuries in the music for twelve tone row as developed by the Viennese school at the beginning of the twentieth century. In the Sephardite, Andalusian, Berberian and Arabic music played by Hespèrion XXI there was considerable rhythm, but also a spell of Mediterranean melancholy which almost folded each individual piece of music and the entire concert. A fascinating exercise and a pure pleasure for the ears as well as an understanding of the cultural unity of the Mediterranean Basin -- a unity that music shows better than many other forms of artistic expression.
Hespèrion XXI. Photo © 2010 Adriano Scognamillo
Hespèrion XXI has already produced fifty seven CDs, a few DVDs and also books with CDs. If account is taken of the difficulties of performing now music of several centuries ago, as well as of the many possibilities offered to each musician, it is remarkable how Hespèrion XXI can combine individual creativity and team work in a dynamic synthesis of musical expression, the historical stylistic research and the imagination of the 21st century musicians.
On 12 September 2010, the Sagra offered two events: a piano concert in the Franciscan Museum of Montefalco (a bus ride of nearly one hour from Perugia) at 5pm and a full symphonic concert in the Teatro Morlacchi at 9pm. The piano concert focused on waltzes and nocturnes, mostly by Chopin, but also by Karganoff, Borodin, Tchaikovsky, Weber, Schumann, Bertini, Fauré and Debussy.
Bart van Oort. Photo © 2010 Adriano Scognamillo
Bart van Oort is internationally known and does not require any introduction. He played for nearly two hours on a 1849 Pleyel piano. A joy of mostly romantic music strikingly contrasting the symphony concert just a few hours later.
David Afkham conducting the Gustav Mahler Jugendorchester. Photo © 2010 Adriano Scognamillo
At the Teatro Morlacchi, the Gustav Mahler Jugendorchester conducted by David Afkham performed Hindemith's Mathis der Maler symphony and Bruckner's Sympony No 9 in C minor. David Afkham is twenty eight years old. The average age of the one hundred and ten members of the Gustav Mahler Jugendorchester is about twenty-three. They dealt with these two most difficult and very different symphonies with skill, talent and enthusiasm.
The Gustav Mahler Jugendorchester. Photo © 2010 Adriano Scognamillo
In the 1930s, Paul Hindemith was dealing with the drama of the artist's involvement in politics; his writing is very tense and full of undertones. In 1896, Anton Bruckner was preparing himself for death -- a serene death, as he was a rigorous practicing Roman Catholic, with a major late romantic work he never completed. The Teatro Morlacchi is a seven hundred seat wooden structure with three rows of boxes. With the fire of these young performers it became a true music box. The audience, captivated by the performers' enthusiasm, erupted with accolades and standing ovations.
Copyright © 26 September 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
ITALY
ANTON BRUCKNER
FRANZ SCHUBERT
PAUL HINDEMITH
FRYDERYCK CHOPIN
ALEXANDER BORODIN
PYOTR ILYICH TCHAIKOVSKY
CARL MARIA VON WEBER
ROBERT SCHUMANN
GABRIEL FAURE
CLAUDE DEBUSSY
<< M&V home Concert reviews Rossini >>
An Ecstatic Success Music and Vision September 4
An Ecstatic Success
GIUSEPPE PENNISI visits
the Sagra Musicale Malatestiana
In Italy, and not only in Italy, Rimini is generally known as a beach resort on the Adriatic Coast. It is very crowded with happy-go-lucky youngsters during the summer months. In the autumn, it is one of the preferred spots for the retired; prices are lower, the climate is mild, the sky and sea are blue and there are many bridge clubs.
Few music lovers are aware that Rimini is also the location of one the most interesting music festivals, called 'Sagra Musicale Malatestiana' after the Malatesta family which in the Renaissance ruled the city and the surrounding areas and built some interesting monuments. The 'Sagra Musicale' is at its 61st edition; it is financed nearly entirely by local sponsors; in 2010 it lasts from 4 August to well into the autumn. It is divided into four parts: four Bach concerts in precious Renaissance Churches, six symphony concerts entrusted to internationally known orchestras, each with a local sponsor (Leipzig Gewandhausorchester, Mahler Chamber Orchestra, Orchestra Filarmonica della Scala, Czech Philharmonic Orchestra, Bayerisches Staatsorchester) under very well-known conductors (Riccardo Chailly, Constantinos Carydis, Semyon Bychkov, Ion Marin, Kent Nagano), seven concerts by young conductors where, this year, on his anniversary, Schumann is juxtaposed to modern composers and, finally, a section for seventeenth century 'theme' music.
For the last few years, between the Bach and the symphony section, a real jewel: the world première of 'chamber opera' in a small theatre built within the ruins of an Augustinian monastery. The 'chamber opera' is normally made up from music not originally intended for dramatic action on stage, and the production has a very low budget. For the last four years, the experiment has been successful.
This review focuses on the chamber opera and the Leipzig Gewandhausorchester concert. Nonetheless, mention should be made of the very good Bach concerts (especially that conducted, on 20 August, by Antonio Greco and devoted to chorales and organ preludes -- the chorus and consort were directed by Costanzo Porta) because in Italy, Bach is not as frequently performed as in Germany or as in the Anglo-Saxon world.
A J S Bach performance by the Costanzo Porta Consort at Sagra Musicale Malatestiana. Photo © 2010 Viterbo Fotocine
After the airy and religious, indeed celestial, atmosphere of the Bach concert, the chamber opera brought us down to the saddest aspects of the Short Century, the twentieth century: the wars, the concentration camps and Auschwitz. This review is based on the 2 September 2010 performance.
It is a most original chamber opera: a ballad by Rainer Maria Rilke, Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke ('The Song of Love and Death by the soldier Christoph Rilke') as set to music by Viktor Ullmann and Frank Martin, separately, and without either composer knowing that the other was working on the same subject.
The first draft of Rilke's ballad had been written in 1899, but when published in its final version in 1912, it was a major editorial success with over 200,000 copies sold in 1922 and 500,000 when reprinted in 1934. It deals with an ancestor of Rainer Maria Rilke, young Christoph who had died in 1666 in Hungary in a battle against the Turks. Christoph's body had never been retrieved and his aristocratic title and lands had been inherited by his brother. However, the 1666 battle is only a pretext for Rilke's deeper reflection on precocious death, initiation to death through love and sex, erotic pulses as ancestral force, and the role of the hero as an emblematic representation of his people and their future generations. The dates of the ballad's success (1922; 1934) are indicative of its meaning in a Europe just coming out of World War I and about to enter World War II.
Hans Flieschmann in the Martin/Ullmann chamber opera at Sagra Musicale Malatestiana. Photo © 2010 Viterbo Fotocine
Obviously, the ballad attracted the interest of musicians; there are versions by Kurt Weill, Paul von Klenau and Kasimir von Pászthory. Those by the Swiss Roman Catholic composer Frank Martin and the Austrian Jew Viktor Ullmann were composed around 1943-44 when World War II was about to end but its destructions and sufferings were an open wound. Both Martin and Ullmann had been influenced by Schoenberg's twelve tone row system, but had a strong sense for melody and 'programmed' music. They worked on Rilke's text under vastly different conditions. Martin was in neutral Switzerland where he set to music the entire ballad for a piano and a mezzo. Ullmann was in the Theresienstadt 'model' concentration camp set up by the Nazis for artists -- mostly a propaganda showpiece. There he set to piano music only part of the text, to be played a professional actor. In Theresienstadt, performances of the work in progress were made until, in Autumn 1944, due to the turn of military events, the Germans saw that there was no longer any need to have a showpiece. First the pianist, then the actor and finally Viktor Ullmann and his wife were transferred to Auschwitz to be gassed.
Brigitte Ravenel in the Martin/Ullmann chamber opera at Sagra Musicale Malatestiana. Photo © 2010 Viterbo Fotocine
How to make a chamber opera on the basis of this material? Denis Krief (stage director and also author of the costumes and the lighting) proved, once more, to have a brilliant idea. In the theater carved in the ruins of the Monastery, Martin's Ballad is performed by a virtuoso pianist (Francesco Libetta) and mezzo (Brigitte Ravenel) well known for her baroque performances all over Continental Europe but equally at easy with nearly an a hour of declamato sliding into arioso with hard ascension to acute tonalities followed by more gentle descending to low tonalities. On a movie screen over the piano, the audience can read the text in Italian. On another screen, sections of war films of the 1930s and 1940s are cast (eg La Kermesse Héroique, J'accuse). Brigitte Ravenel is in a World War I uniform; two young extras are seen, back stage, for the love scene. There is no interruption: from Martin the audience is brought directly to Ullmann. The text is the same but not complete; as mentioned, it was left in progress by the Auschwitz gas chamber. The voice is not a mezzo, but a male actor (Hans Flieschmann). On the screen, we see World War II images, including footage of Nazi documentary. In short, ninety minutes of full tension. Certainly, it is not a 'light' Summer performance, but an emotional experience difficult to forget both musically and dramatically. The audience appreciated it.
Riccardo Chailly. Photo © 2010 Fabiana Rossi
From the darkness at the top of the stairs ('Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke'), the Sagra moved on to Schumann's pure and transparent romanticism in the 3 September concert. It was the inaugural concert of the six major symphonic events: Riccardo Chailly conducted the most ancient European symphonic complex, the Leipzig Gewandhausorchester, with a soloist, the piano enfant prodige Kit Armstrong. He is now seventeen years old but has been in a successful professional career since 2005 and has already composed several piano sonatas, three string quartets, and a full-length symphony.
Briefly, this was a full Schumann concert for the second centenary of the composer's birth. The first part of the program included : the Concerto for Piano and Orchestra concert Op 54 and the Konzertstück for four horns and orchestra Op 86; the second part was fully taken up by the Symphony No 1 Op 38 (Frühling) in the version with Gustav Mahler's orchestral revision. The three compositions are representative of Schumann's revolution in romanticism: drama is replaced by a serene Spring atmosphere where the ecstasy of love -- in particular conjugal love -- is due to the very close relationship between Robert Schumann and his wife Clara.
Kit Armstrong with Riccardo Chailly and members of the Leipzig Gewandhaus Orchestra at Sagra Musicale Malatestiana. Photo © 2010 Fabiana Rossi
In the Piano Concerto, the audience's attention was obviously pointed to the young soloist, already famous internationally but not as well known in Italy on the basis of live performance. Kit Armstrong was, at the same time, generous and ironic in his dialogue with the orchestra. So tiny and with a smiling face, he was a counterpoint to Chailly's large, high posture. Enjoyable, in short, also for the eyes.
The four horn soloists with Riccardo Chailly and members of the Leipzig Gewandhaus Orchestra playing Schumann's 'Konzertstück' at Sagra Musicale Malatestiana. Photo © 2010 Fabiana Rossi
The Konzertstück for four horns and orchestra is a pure short divertissement where the virtuoso ability of the soloists stood out. The first symphony is too well known as an innovative Romantic manifesto (for Germany in around 1840) to require any presentation. Chailly and the Leipzig Gewandhausorchester offered a highly melodic interpretation, not only in the Larghetto but also in final allegro animato e grazioso. An ecstatic success with standing ovations saluted the concert.
Copyright © 4 September 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
<< M&V home Concert reviews Ben Bloor >>
GIUSEPPE PENNISI visits
the Sagra Musicale Malatestiana
In Italy, and not only in Italy, Rimini is generally known as a beach resort on the Adriatic Coast. It is very crowded with happy-go-lucky youngsters during the summer months. In the autumn, it is one of the preferred spots for the retired; prices are lower, the climate is mild, the sky and sea are blue and there are many bridge clubs.
Few music lovers are aware that Rimini is also the location of one the most interesting music festivals, called 'Sagra Musicale Malatestiana' after the Malatesta family which in the Renaissance ruled the city and the surrounding areas and built some interesting monuments. The 'Sagra Musicale' is at its 61st edition; it is financed nearly entirely by local sponsors; in 2010 it lasts from 4 August to well into the autumn. It is divided into four parts: four Bach concerts in precious Renaissance Churches, six symphony concerts entrusted to internationally known orchestras, each with a local sponsor (Leipzig Gewandhausorchester, Mahler Chamber Orchestra, Orchestra Filarmonica della Scala, Czech Philharmonic Orchestra, Bayerisches Staatsorchester) under very well-known conductors (Riccardo Chailly, Constantinos Carydis, Semyon Bychkov, Ion Marin, Kent Nagano), seven concerts by young conductors where, this year, on his anniversary, Schumann is juxtaposed to modern composers and, finally, a section for seventeenth century 'theme' music.
For the last few years, between the Bach and the symphony section, a real jewel: the world première of 'chamber opera' in a small theatre built within the ruins of an Augustinian monastery. The 'chamber opera' is normally made up from music not originally intended for dramatic action on stage, and the production has a very low budget. For the last four years, the experiment has been successful.
This review focuses on the chamber opera and the Leipzig Gewandhausorchester concert. Nonetheless, mention should be made of the very good Bach concerts (especially that conducted, on 20 August, by Antonio Greco and devoted to chorales and organ preludes -- the chorus and consort were directed by Costanzo Porta) because in Italy, Bach is not as frequently performed as in Germany or as in the Anglo-Saxon world.
A J S Bach performance by the Costanzo Porta Consort at Sagra Musicale Malatestiana. Photo © 2010 Viterbo Fotocine
After the airy and religious, indeed celestial, atmosphere of the Bach concert, the chamber opera brought us down to the saddest aspects of the Short Century, the twentieth century: the wars, the concentration camps and Auschwitz. This review is based on the 2 September 2010 performance.
It is a most original chamber opera: a ballad by Rainer Maria Rilke, Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke ('The Song of Love and Death by the soldier Christoph Rilke') as set to music by Viktor Ullmann and Frank Martin, separately, and without either composer knowing that the other was working on the same subject.
The first draft of Rilke's ballad had been written in 1899, but when published in its final version in 1912, it was a major editorial success with over 200,000 copies sold in 1922 and 500,000 when reprinted in 1934. It deals with an ancestor of Rainer Maria Rilke, young Christoph who had died in 1666 in Hungary in a battle against the Turks. Christoph's body had never been retrieved and his aristocratic title and lands had been inherited by his brother. However, the 1666 battle is only a pretext for Rilke's deeper reflection on precocious death, initiation to death through love and sex, erotic pulses as ancestral force, and the role of the hero as an emblematic representation of his people and their future generations. The dates of the ballad's success (1922; 1934) are indicative of its meaning in a Europe just coming out of World War I and about to enter World War II.
Hans Flieschmann in the Martin/Ullmann chamber opera at Sagra Musicale Malatestiana. Photo © 2010 Viterbo Fotocine
Obviously, the ballad attracted the interest of musicians; there are versions by Kurt Weill, Paul von Klenau and Kasimir von Pászthory. Those by the Swiss Roman Catholic composer Frank Martin and the Austrian Jew Viktor Ullmann were composed around 1943-44 when World War II was about to end but its destructions and sufferings were an open wound. Both Martin and Ullmann had been influenced by Schoenberg's twelve tone row system, but had a strong sense for melody and 'programmed' music. They worked on Rilke's text under vastly different conditions. Martin was in neutral Switzerland where he set to music the entire ballad for a piano and a mezzo. Ullmann was in the Theresienstadt 'model' concentration camp set up by the Nazis for artists -- mostly a propaganda showpiece. There he set to piano music only part of the text, to be played a professional actor. In Theresienstadt, performances of the work in progress were made until, in Autumn 1944, due to the turn of military events, the Germans saw that there was no longer any need to have a showpiece. First the pianist, then the actor and finally Viktor Ullmann and his wife were transferred to Auschwitz to be gassed.
Brigitte Ravenel in the Martin/Ullmann chamber opera at Sagra Musicale Malatestiana. Photo © 2010 Viterbo Fotocine
How to make a chamber opera on the basis of this material? Denis Krief (stage director and also author of the costumes and the lighting) proved, once more, to have a brilliant idea. In the theater carved in the ruins of the Monastery, Martin's Ballad is performed by a virtuoso pianist (Francesco Libetta) and mezzo (Brigitte Ravenel) well known for her baroque performances all over Continental Europe but equally at easy with nearly an a hour of declamato sliding into arioso with hard ascension to acute tonalities followed by more gentle descending to low tonalities. On a movie screen over the piano, the audience can read the text in Italian. On another screen, sections of war films of the 1930s and 1940s are cast (eg La Kermesse Héroique, J'accuse). Brigitte Ravenel is in a World War I uniform; two young extras are seen, back stage, for the love scene. There is no interruption: from Martin the audience is brought directly to Ullmann. The text is the same but not complete; as mentioned, it was left in progress by the Auschwitz gas chamber. The voice is not a mezzo, but a male actor (Hans Flieschmann). On the screen, we see World War II images, including footage of Nazi documentary. In short, ninety minutes of full tension. Certainly, it is not a 'light' Summer performance, but an emotional experience difficult to forget both musically and dramatically. The audience appreciated it.
Riccardo Chailly. Photo © 2010 Fabiana Rossi
From the darkness at the top of the stairs ('Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke'), the Sagra moved on to Schumann's pure and transparent romanticism in the 3 September concert. It was the inaugural concert of the six major symphonic events: Riccardo Chailly conducted the most ancient European symphonic complex, the Leipzig Gewandhausorchester, with a soloist, the piano enfant prodige Kit Armstrong. He is now seventeen years old but has been in a successful professional career since 2005 and has already composed several piano sonatas, three string quartets, and a full-length symphony.
Briefly, this was a full Schumann concert for the second centenary of the composer's birth. The first part of the program included : the Concerto for Piano and Orchestra concert Op 54 and the Konzertstück for four horns and orchestra Op 86; the second part was fully taken up by the Symphony No 1 Op 38 (Frühling) in the version with Gustav Mahler's orchestral revision. The three compositions are representative of Schumann's revolution in romanticism: drama is replaced by a serene Spring atmosphere where the ecstasy of love -- in particular conjugal love -- is due to the very close relationship between Robert Schumann and his wife Clara.
Kit Armstrong with Riccardo Chailly and members of the Leipzig Gewandhaus Orchestra at Sagra Musicale Malatestiana. Photo © 2010 Fabiana Rossi
In the Piano Concerto, the audience's attention was obviously pointed to the young soloist, already famous internationally but not as well known in Italy on the basis of live performance. Kit Armstrong was, at the same time, generous and ironic in his dialogue with the orchestra. So tiny and with a smiling face, he was a counterpoint to Chailly's large, high posture. Enjoyable, in short, also for the eyes.
The four horn soloists with Riccardo Chailly and members of the Leipzig Gewandhaus Orchestra playing Schumann's 'Konzertstück' at Sagra Musicale Malatestiana. Photo © 2010 Fabiana Rossi
The Konzertstück for four horns and orchestra is a pure short divertissement where the virtuoso ability of the soloists stood out. The first symphony is too well known as an innovative Romantic manifesto (for Germany in around 1840) to require any presentation. Chailly and the Leipzig Gewandhausorchester offered a highly melodic interpretation, not only in the Larghetto but also in final allegro animato e grazioso. An ecstatic success with standing ovations saluted the concert.
Copyright © 4 September 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
<< M&V home Concert reviews Ben Bloor >>
Iscriviti a:
Post (Atom)