QUANTO RENDE
ANDARE ALL’UNIVERSITA’
Giuseppe
Pennisi
Conviene andare all’università? Nelle ultime settimane
hanno destato una notevole polemica sia episodi di bullismo all’interno delle
scuole secondarie superiori, in particolare degli istituti tecnici, sia il dato
Eurostat secondo cui i laureati
italiani (al di sotto dei 35
anni) che riescono ad ottenere
un impiego entro 3 anni dal titolo sono il 58% del totale, un numero in
crescita rispetto alla rilevazione dell'anno precedente (risalente al 2016),
che registrava una percentuale del 57.7%. Un dato scoraggiante , però, se
confrontato con la media europea,
che raggiunge invece l'82,7%
degli inserimenti lavorativi a tre anni dalla laurea. Rispetto ai 28 partner
dell'Unione europea (Ue), l'Italia si posiziona come penultima in classifica. Entrando nel merito delle determinanti che continuano a frenare l'occupazione dei giovani laureati,
a predominare sembra il mancato
ricambio generazionale, anche a ragione dei requisiti per andare in
pensione di vecchiaia introdotti con la Legge
Fornero.
Al di là delle polemiche contingenti, occorre porsi la
domanda di fondo: conviene andare all’università? La risposta può venire data
dall’analisi dei costi e dei benefici dell’istruzione a cui ho avuto la fortuna
di lavorare sin dalla fine degli Anni Sessanta del secolo scorso con Hans Thias
(Banca mondiale), Martin Carnoy (University of California) e Georges
Psacharopuolos (London School of Economics). Con Psacharoupolos stimammo , alla
metà degli Anni Ottanta, rendimenti finanziari molto elevati (un tasso di
rendimento interno finanziario mediamente del 16%) per coloro che si laureavano
in corso ed avevano scelto una disciplina tecnica o comunque in demanda sul
mercato del lavoro.
Da allora oggi molte cose sono cambiate: è aumentato
il numero dei laureati annui, si sono compresse le retribuzioni anche a causa
della recessione iniziata nel 2007-2008, è cresciuta la percentuale di coloro
che considerano l’istruzione universitaria un bene di consumo, non un
investimento, e scelgono discipline per il proprio soddisfacimento senza
essersi preoccupati di ciò che richiedono, e richiederanno ancora più in
futuro, l’economia e la produzione.
Un nuovo saggio di Psacharopoulos e di Harry Antony
Patrinos pubblicato a fine aprile dalla Banca mondiale (World Bank Policy
Research Working Paper 8402) rivela che in Italia il rendimento interno
finanziario dell’istruzione universitaria all’individuo si colloca al 9,5%;
quello economico alla società è invece all’8,6% , a ragione sia dell’elevato
livello di sussidio sia del disequilibrio (in termini tecnici Curva di Beveridge) tra discipline di
studio scelte e mercato del lavoro. Ciò dovrebbe suggerire non di abolire o
ridurre le tasse universitarie ma di aumentarle ai fuoricorso ed a coloro che
si iscrivono in discipline ‘di consumo ’, anche al fine di premiare, con borse
di studio, studenti volenterosi, a basso reddito e che optano per percorsi
richiesti dal mercato del lavoro. La riduzione del tasso di rendimento
finanziario medio agli individui negli ultimi trent’anni in parte dipende dalle
differenze del campione (i dati della metà degli Anni Ottanta si riferivano a
chi si laureava in corso in discipline richieste dal mercato del lavoro; quelli
dello studio più recente riguardano tutti i laureati in tutte le discipline) ed
in parte sono fisiologici (allora si era a livelli di Paesi in via sviluppo sia
per numero di laureati sia per differenziali retributivi).
A risultati analoghi arriva un saggio di Ana Ruso
Cardoso (Università di Barcellona), Paolo Guimaralaes (Università di Porto),
Pedro Partugal e Ugo Reiss (ambedue del servizio studi della banca
centrale portoghese)- IZA Discussion
Paper No 11419).
La risposta, quindi, è chiara: andare all’università,
scegliere bene la disciplina e laureasi in corso.
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