giovedì 31 maggio 2018

QUANTO RENDE ANDARE ALL’UNIVERSITA’ in Formiche mensile 1 giugno


QUANTO RENDE ANDARE ALL’UNIVERSITA’
Giuseppe Pennisi
Conviene andare all’università? Nelle ultime settimane hanno destato una notevole polemica sia episodi di bullismo all’interno delle scuole secondarie superiori, in particolare degli istituti tecnici, sia il dato Eurostat secondo cui i laureati italiani (al di sotto dei 35 anni) che riescono ad ottenere un impiego entro 3 anni dal titolo sono il 58% del totale, un numero in crescita rispetto alla rilevazione dell'anno precedente (risalente al 2016), che registrava una percentuale del 57.7%. Un dato scoraggiante , però, se confrontato con la media europea, che raggiunge invece l'82,7% degli inserimenti lavorativi a tre anni dalla laurea. Rispetto ai 28 partner dell'Unione europea (Ue), l'Italia si posiziona come penultima in classifica. Entrando nel merito delle determinanti  che continuano a frenare l'occupazione dei giovani laureati, a predominare sembra il mancato ricambio generazionale, anche a ragione dei requisiti per andare in pensione di vecchiaia introdotti con la Legge Fornero.
Al di là delle polemiche contingenti, occorre porsi la domanda di fondo: conviene andare all’università? La risposta può venire data dall’analisi dei costi e dei benefici dell’istruzione a cui ho avuto la fortuna di lavorare sin dalla fine degli Anni Sessanta del secolo scorso con Hans Thias (Banca mondiale), Martin Carnoy (University of California) e Georges Psacharopuolos (London School of Economics). Con Psacharoupolos stimammo , alla metà degli Anni Ottanta, rendimenti finanziari molto elevati (un tasso di rendimento interno finanziario mediamente del 16%) per coloro che si laureavano in corso ed avevano scelto una disciplina tecnica o comunque in demanda sul mercato del lavoro.
Da allora oggi molte cose sono cambiate: è aumentato il numero dei laureati annui, si sono compresse le retribuzioni anche a causa della recessione iniziata nel 2007-2008, è cresciuta la percentuale di coloro che considerano l’istruzione universitaria un bene di consumo, non un investimento, e scelgono discipline per il proprio soddisfacimento senza essersi preoccupati di ciò che richiedono, e richiederanno ancora più in futuro,  l’economia e la produzione.
Un nuovo saggio di Psacharopoulos e di Harry Antony Patrinos pubblicato a fine aprile dalla Banca mondiale (World Bank Policy Research Working Paper 8402) rivela che in Italia il rendimento interno finanziario dell’istruzione universitaria all’individuo si colloca al 9,5%; quello economico alla società è invece all’8,6% , a ragione sia dell’elevato livello di sussidio sia del disequilibrio (in termini tecnici Curva di Beveridge) tra discipline di studio scelte e mercato del lavoro. Ciò dovrebbe suggerire non di abolire o ridurre le tasse universitarie ma di aumentarle ai fuoricorso ed a coloro che si iscrivono in discipline ‘di consumo ’, anche al fine di premiare, con borse di studio, studenti volenterosi, a basso reddito e che optano per percorsi richiesti dal mercato del lavoro. La riduzione del tasso di rendimento finanziario medio agli individui negli ultimi trent’anni in parte dipende dalle differenze del campione (i dati della metà degli Anni Ottanta si riferivano a chi si laureava in corso in discipline richieste dal mercato del lavoro; quelli dello studio più recente riguardano tutti i laureati in tutte le discipline) ed in parte sono fisiologici (allora si era a livelli di Paesi in via sviluppo sia per numero di laureati sia per differenziali retributivi).
A risultati analoghi arriva un saggio di Ana Ruso Cardoso (Università di Barcellona), Paolo Guimaralaes (Università di Porto), Pedro Partugal e Ugo Reiss (ambedue del servizio studi della banca centrale  portoghese)- IZA Discussion Paper No 11419).
La risposta, quindi, è chiara: andare all’università, scegliere bene la disciplina e laureasi in corso.

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