Con le barriere di Trump a rischio proprio
l’export che ha spinto la ripresa
Il presidente Usa ha rinviato a fine maggio la
decisione se imporre all’Unione europea 'dazi di ritorsione' analoghi a quelli
applicati nei confronti di alcune categorie merceologiche cinesi e di altri
Paesi a bassi costi di produzione. Il rinvio è stato, in gran misura, il frutto
di richieste e pressioni da parte di Francia, Germania e Gran Bretagna, non
dell’Ue nel suo complesso. L’Italia, priva di un governo nella pienezza delle
sua funzioni, ha avuto difficoltà a muoversi in prima persone. Se, come ci si
auspica, il più vasto negoziato in corso tra Washington e Pechino andrà a buon
fine, è probabile che la minaccia nei confronti dell’Europa verrà ritirata, ma
occorre comunque chiedersi quali saranno le implicazioni per l’Italia se tra
poche settimane verranno applicati unilateralmente dagli Stati Uniti alle merci
Ue. Occorre distinguere due profili, quello macroeconomico e quello sui singoli
settori. Dal punto di vista macroeconomico, siamo un una fase di lenta e fatica
ripresa agevolata, ove non trainata, dalla nostra bilancia commerciale che,
nonostante il forte apprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro (un dazio
implicito del 20% circa nell’ultimo anno) ha tenuto molto bene: un surplus di
40 miliardi di euro che per il manifatturiero raggiunge 90 miliardi; grazie
all’export è anche migliorata la nostra posizione finanziaria sull’estero. Un
freno all’export, a ragione di dazi Usa o di rallentamento dell’interscambio
mondiale a causa di una guerra commerciale o altro, avrebbe conseguenze pesanti
per la nostra economia. Per quanto riguarda i principali settori merceologici ,
occorre distinguere tra quelli che verrebbero colpiti direttamente (acciaio,
alluminio e forse auto, un comparto in cui gli Usa hanno un deficit di 120
miliardi di dollari nei confronti dell’Ue e dove l’Europa pratica dazi pari a
quattro volte quelli americani) e quelli che avrebbero implicazioni avverse
indirettamente, a ragione della distorsione dei flussi commerciali tradizionali
(quali quelli cinesi) per i quali il mercato americano si chiude; probabilmente
si dirigeranno verso le destinazioni rimaste accessibili, come l’Ue. Ciò sta
già avvenendo e si intensificherà anche se Washington decide di non imporre
dazi sull’Europa.
Un esempio sono le aziende italiane che
vendono tondi per cemento armato, che possono temere la maggiore competizione
nei loro principali mercati di sbocco, come l’Algeria, di prodotti provenienti,
per esempio, dalla Turchia. Più in generale, tenderanno ad aumentare i flussi
in entrata nell’Ue, che nel complesso è il primo importatore mondiale di
acciaio e alluminio. Secondo stime Ocse, più del 40% del valore dell’export
manifatturiero cinese viene dall’estero, specie dall’Asia (Giappone, Corea del
Sud, ecc.), dall’Europa e dagli stessi Stati Uniti. Ciò indica che l’America di
Trump non è sola nell’osteggiare il sistema di regole multilaterali che
governano gli scambi commerciali internazionali e che ha al suo centro l’Organizzazione
mondiale del commercio (Omc). Ha da anni un alleato nella Commissione europea
che non ha mai nascosto di preferire intese bilaterali tra grandi mercati
comuni e aree di libero scambio a un sistema multilaterale e di non gradire
l’Omc che ha come parti contraenti i singoli Stati e non entità che si
ritengono sopranazionali come la Commissione medesima.
Giuseppe Pennisi
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Nessun commento:
Posta un commento