L'OSCAR DELLA LIRICA/
"Billy Budd": il mare e il male arrivano a Roma
Billy
Budd di Benjamin Britten ha debuttato a Roma (dove non è stata mai messo
in scena) l’8 maggio. Il lavoro è tratto da un racconto di Herman
Melville. GIUSEPPE PENNISI 11 maggio 2018 Giuseppe Pennisi
Foto di Yasuko Kageyama
Billy Budd di Benjamin Britten ha debuttato a
Roma (dove non è stata mai messo in scena) l’8 maggio. E’ un allestimento
importante, coprodotto con i teatri dell'Opera di Madrid e con la Royal Opera
House di Londra con la regia di Deborah Warner e la direzione musicale di James
Conlon. Arriva a Roma poco più di un mese dopo aver ricevuto, sulla base delle
recite a Madrid (dove ha debuttato), l’International Opera Award (l’Oscar
Internazionale della lirica) nella categoria’nuove produzioni’. L’opera sarà in
scena alla ROH Covent Garden di Londra tra circa un anno.
Il lavoro è
tratto da un racconto di Herman Melville; scritto tra il 1888 ed il 1891 e
pubblicato postumo nel 1924. Mentre la disorientante grandezza di Moby Dick
è imperniata sulla sfida dell’uomo contro un universo in cui c’è posto solo per
il mare, per le balene e per le stelle ma non per Dio, Billy Budd è una
navigazione verso la straordinaria mitezza e la Fede in Dio: il mondo è una
nave (dove domina la crudeltà) ma è sovrastato dalla pace del mare e dalla serenità
dell’accettazione del dolore e del torto. Nelle interpretazioni del racconto,
il protagonista (un giovane mozzo balbuziente che non riesce ad articolare il
proprio pensiero) è visto o come la natura o come un angelo – nessun dei due
può parlare. Dal racconto è stato tratto un film di grande successo nel 1962
(che spesso ritorna in televisione) diretto ed interpretato da Peter Ustinov
(altri protagonisti Terence Stamp e Robert Ryan). Nel film il racconto di
Melville è letto come la lotta tra il bene ed il male.
L’opera di
Benjamin Britten, pur restando fedele alla trama, differisce sia del racconto
che dal film in quanto, nel libretto di E. M. Forster e Eric Crozier, il
protagonista (sin dal prologo) è il Captain Vere (parte scritta appositamente
per Peter Pears, compagno di vita del compositore) il quale ricorda gli
avvenimenti in cui, da presidente di un tribunale militare, decretò la morte
del giovane mozzo Billy Budd, pur essendo convinto della sua innocenza, e ne
soffrì tutta la vita. Nel film Vere (Peter Ustinov) muore in battaglia
poco dopo l’impiccagione di Budd. Nell’epilogo dell’opera, Vere si chiede
perché, pur potendo, non abbia salvato Budd e conclude che è stato il giovane
mozzo a salvare lui.
Il racconto
è un apologo sul conflitto tra bene primordiale e male primordiale, da un lato,
e la giustizia umana (costretta, a volte e suo malgrado, a favorire il secondo)
dall’altro. Siamo nel 1797, Billy è un giovane marinaio tanto bello quanto
innocente; ha solo un difetto, la balbuzie (perché nessuno, neanche i migliori,
sfuggono alle tracce del peccato originale). Ha la simpatia di tutti,
soprattutto del comandante, Captain Vere. L’innocenza si incunea nella violenza
di bordo e mette a repentaglio il ragazzo. Il sadico Serg. Claggart è attratto
fisicamente da Billy, il quale neanche se ne accorge, Claggart lo accusa di
fomentare un ammutinamento. Messo a confronto con le accuse, Billy è colto da
una crisi di balbuzie e non sa difendersi; fende un pugno a Claggart, facendolo
cozzare con uno stipite e, involontariamente, uccidendolo. Vere sa che Billy
non ha colpa, ma, in guerra (e con vascelli francesi che stanno per attaccare),
l’assassinio di un sottufficiale comporta l’impiccagione. Nel morire, Billy
ringrazia Dio per la vita che gli ha dato e gli chiede di benedire Vere.
I due temi
principali di quasi tutte le opere di Britten – la sopraffazione dell’innocente
e l’“essere diverso” – sono centrali alla sua lettura data alla novella di
Melville, al pari di quanto quello della giustizia ( ingiusta) – si pensi a
Peter Grimes o a Lo Stupro di Lucrezia. Dato l’orientamento sessuale
di Britten non mancano, nell’opera, momenti omoerotici. Vengono, però,
trattatati con pudore. La differenza principale tra racconto e libretto è che,
nell’opera, la vicenda è un lungo flashback dell’ormai anziano (e contrito)
Vere, il quale, nel ricordare l’episodio fondante della sua avventura umana,
medita sul suo significato e soprattutto sul suo ruolo come giudice diventato,
per ragione di Stato, “ingiusto”.
L’opera è
strutturata come i quattro movimenti di una sinfonia – il primo un andante a
carattere narrativo, il secondo un notturno meditativo, il terzo uno scherzo
pieno di azione ed il quarto un grande finale. Britten ne compose tre versioni,
una in quattro atti nel 1951, una seconda quasi subito dopo in un’edizione
cameristica con l’accompagnamento di due piano forte (ed una riduzione nel
numero di personaggi secondari) per il piccolo teatro costruito accanto alla
sua casa di Aldeburgh nel Suffolk. Nella terza (quella del 1961, ormai entrata
di uso corrente, ed in scena a Roma), i quattro atti sono compattati in due e i
movimenti si fondono in un sinfonismo dominato dai colori del mare ( alternarsi
tra re bemolle maggiore e re minore), della bontà e bellezza (sì naturale), del
male (fa) e dalla giustapposizione tra do e la.
Lo
spettacolo visto a Roma alla prima dell’8 maggio ha meritatamente ottenuto
l’Oscar internazionale della lirica. E’ indubbiamente superiore a quello
(con la regia di Davide Livermore) visto alcuni anni fa a Torino ed a Genova ed
a quello (con la regia di Francesca Zambello) che ho visto a Ginevra nel 1995 e
ha circuitato per vari teatri europei ed americani, In primo luogo, la regia di
Deborah Warner, le scene di Michael Levine, i costumi di Chleo Obolonesky e le
luci di Jean Kalman, ci portano in un ambiente atemporale (i costumi degli
ufficiali sembrano quelli della seconda guerra mondiale) e sottolineano il
carattere universale non collegato alla guerra franco-britannica per il
dominio nella Manica di fine settecento. La guerra si avverte, ma sembra essere
lontana (anche se la disciplina e la legge di guerra dominano a bordo). Nella
scena unica, con praticabili a più livelli per mostrare i vari ponti della nave
gli alloggi per gli ufficiali, la stiva con la camerata per i marinai, l’azione
si dipana con un taglio quasi cinematografico con una grande recitazione da
parte di tutti, specialmente del coro nelle scene di massa. Siamo in mare
nordico, nebbioso in cui in effetti le nebbie avvalgono il vascello ed
accentuano il clima del dramma. A volte, nelle nebbie, i personaggi appaiono
come silhuoettes o dagherottipi.
Semplicemente
eccellente la direzione musicale di James Conlon – ricordo quando studiava alla
Julliard School ed i suoi esordi alla Washington Opera con il mozartiano Così
Fan Tutte. Estrae dal sinfonismo di Britten i richiami alla tradizione
musicale inglese sin dal seicento – Purcell, la polifonia, l’insistenza sui
fiati. Conlon ha valorizzato l’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma che
nulla ha da invidiare a quella del Teatro alla Scala, anzi nei fiati e negli
ottoni senza dubbio la supera.
Ottimo il
cast, che richiede ben 19 solisti maschili un grande coro ed un piccolo
ensemble di voci bianche. Impossibile ricordarli tutti. Di altissimo
livello il coro (vero e proprio protagonista dell’opera). Diretto da Roberto
Gabbiani mostra acrobazie non solo vocali ma anche ginnici (dato che siamo in
mare in periodo di guerra). Philip Addis è Billy; è un giovane baritono di
agilità che ha già interpretato più volte il ruolo (tra l’altro, a Genova); di
bello aspetto, grandi capacità attoriali è perfetto nella parte. John Relya
(Claggert) è un baritono-basso che illustra a pieno la perfidia del
personaggio. Toby Spence è un pari tenore, che ricorda Peter Pears per cui fu
scritta la parte e scava nei tormenti interiori di Vere.
Grande
successo.
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