La locomotiva tedesca e i suoi squilibri
fino a oggi condonati
La Repubblica federale tedesca è il traino dell’Unione
Europea: il tasso di crescita del Pil nel 2018 sfiorerà il 3% in termini reali,
la produzione industriale galoppa a quasi il 3,5% l’anno, il tasso di
disoccupazione è ai minimi (3,4%).
C’è un dato macroeconomico che può essere visto o come uno
dei frutti del 'miracolo' tedesco in un’Eurozona che arranca o come una delle
determinanti che frenano il resto dell’area dell’euro: la bilancia delle
partite correnti segna un surplus pari al 7,7% del Pil. Sono almeno otto anni
in cui la Germania supera la 'regola europea' (peraltro mai formalizzata in un
trattato o accordo intergovernativo) secondo cui, al fine di non creare
squilibri all’interno dell’area, l’eccedenza non deve superare il 6% del Pil
per tre anni consecutivi. Due tesi sono contrapposte: da un lato, il dato
sarebbe unicamente il risultato dell’efficienza dell’industria tedesca e della
sua capacità competitiva sui mercati internazionali (in particolare quelli
asiatici). Da un altro, l’eccedenza si traduce in alto tasso di risparmio
(quello delle famiglie supera il 10% del reddito disponibile) piuttosto che
investimenti (specialmente in infrastrutture) i cui effetti esterni (positivi)
si sarebbero riverberati sul resto d’Europa. Purtroppo è difficile operare su
questo squilibrio tra la Germania gli altri. Lo stesso Fmi, nella cui carta si
postulano misure che evitino squilibri commerciali troppo elevati e durati,
conosce un solo rimedio: l’apprezzamento del cambio, non praticabile
all’interno di un’unione monetaria. Anche eventuali campagne per incoraggiare i
tedeschi a risparmiare di meno e investire di più non avrebbero effetti di
rilievo data la paura atavica di 'grandi inflazioni' come quelle degli Anni
Venti e Trenta. Secondo la Commissione europea, altro punto dolente è il
sistema di tassazione, soprattutto delle imprese: sarebbero opportune riforme
che aiuterebbero una maggior articolazione e modernizzazione del mercato dei capitali
e favorirebbero gli investimenti privati.
Franco Bruni della Università Bocconi sottolinea che è in
corso un riesame approfondito del sistema bancario tedesco, con la regia sempre
più attenta della vigilanza della Bce. Finora una certa mancanza di trasparenza
ha impedito di diagnosticare adeguatamente le sue debolezze: banche troppo
numerose, spesso troppo piccole, troppo legate a poteri politici e distretti
economici locali, con bilanci messi a rischio da attività strutturate complesse
e speculative. La lunga fase di tassi di interesse internazionali bassissimi o
negativi ha nuociuto alla loro redditività (come a quella delle imprese
assicurative) e le ha spinte ulteriormente verso rischi poco controllati. Se le
banche hanno problemi, il settore finanziario non bancario, infine, è
gravemente sottosviluppato e il programma europeo di modernizzazione e
riduzione del banco-centrismo, la cosiddetta Unione dei Mercati dei Capitali,
trova i tedeschi su posizioni piuttosto esitanti nel promuoverne la riforma.
Giuseppe Pennisi
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