Diversi piani per tagliare il debito Ma al
centro c’è sempre l’Esm il fondo salva-Stati dell’Europa
La 'tempesta' sui mercati finanziari scatenasi all’inizio
della settimana non sarebbe così grave se il debito pubblico del’Italia (pari
al 132% del Pil) non dovesse rifinanziarsi (per circa 400 miliardi di euro
quest’anno) e se il costo del rifinanziamento non aumentasse, causando un
incremento di quello stock di debito che, con il Trattato di Maastricht ci
siamo impegnati a portare al 60% del Pil. Ossia a più che dimezzarlo. Siamo il
solo dei grandi Paesi dell’eurozona ad avere un debito pubblico così elevato,
come evidenziato da una serie di articoli apparsi su Avvenire negli ultimi tre
mesi. A ragione della crisi del 2008-2011 (in Italia trascinatasi sino al
2016), il debito pubblico è aumentato in numerosi altri Paesi Ue: da una media
del 60% del Pil quando oltre un quarto di secolo fa si negoziava l’unione
monetaria siamo arrivati al 90%.
Da tempo, infatti, la strategia sembra essere quella di stabilizzare
il debito per poi giungere a una graduale flessione. Una strategia che proprio
negli ultimi giorni è parsa fragile. Anni fa, il governo Letta chiese al Cnel
di mettere a confronto i vari piani di rientro dal debito. Emersero diverse
proposte, i documenti presentati nel corso di un seminario sono nel sito del
Cnel, ma ormai obsoleti. Sempre ai tempi del governo Letta, il centro studi
Astrid presentò un’ampia analisi con una gamma di proposte. Il Governo cadde
prima che si potessero esaminare questi confronti d analisi.
Di recente, sono state presentate due proposte innovative. Il
25 maggio mentre si aggravavano le tensioni 'ad alzo zero' sulla formazione del
governo e i mercati cominciavano a fibrillare al calor bianco, è stato diffuso
un interessante lavoro di Lorenzo Bini Smaghi e Michela Marcussen,
rispettivamente presidente e capo economista della Société Genérale. È un
lavoro tecnico, che non riguarda solamente l’Italia (anche se analizza a fondo
il mercato obbligazionario italiano), ma l’intera eurozona. In breve, il lavoro
prende avvio dal fatto che l’area dell’euro è alla prese con un dilemma. Da un
canto, è ampiamente riconosciuto che la sua struttura e la sua governance
debbono essere rafforzate, ma le principali proposte per raggiungere questo
obiettivo hanno incontrato serie difficoltà politiche. Gli Eurobond, con
genuina condivisione del rischio, porterebbero stabilità e benefici economici,
ma richiedono un trasferimento delle politiche di bilancio dagli Stati membri
all’Unione che non appare probabile nel prevedibile futuro. D’altro canto,
mantenere la situazione attuale significa esporre la fragilità dell’area
dell’euro a una nuova crisi (quale – aggiungiamo noi – un marcato sovranismo in
uno dei grandi Paesi dell’eurozona). Il documento propone un periodo di
transizione ventennale per quanto riguarda la regola del Fiscal Compact
relativa alla riduzione dello stock di debito che supera il 60% del Pil sulla
base di un ventesimo l’anno. Il debito coerente con i vincoli annuali del
Fiscal Compact sarebbe 'viola' e protetto da qualsiasi ristrutturazione basata
su programmi dell’European Stability Mechanism (Esm), il cosiddetto 'fondo
salva-Stati'. Il debito che supera i limiti del Compact sarebbe 'rosso' e non
avrebbe alcuna garanzia. Dopo il periodo di transizione ventennale, tutti i
debiti diventerebbero 'viola' e potrebbero essere la base per veri Eurobond.
Attenzione, i benefici non si vedrebbero tra vent’anni ma subito, perché se la
strada viene intrapresa, si incentiverebbe la disciplina di finanza pubblica e
limiterebbe i rischi di nuove costose crisi per l’area dell’euro.
Quasi in parallelo è stata formulata una proposta da Marcello
Minenna (Consob), Roberto Violi (Bankitalia), Giovanni Dosi (Sant’Anna di Pisa)
e Andrea Roventini ( Sant’Anna di Pisa). Occorre ricordare che Minenna è stato
per alcuni giorni assessore della giunta Raggi a Roma e Roventini candidato al
ministero dell’Economia del M5S. La proposta è imperniata sull’utilizzo
dell’Esm per rifinanziare a tasso agevolato il debito in scadenza, stipulando,
in cambio del tasso agevolato, una polizza al Fondo per assicurarlo dai rischi.
Il costo delle polizze varierà a seconda del 'rischio Paese'. Nell’arco di
dieci anni, tutti i Paesi avrebbero i debiti assicurati e il Fondo potrebbe investire
a lungo termine in infrastrutture con i premi assicurativi. È uno schema
ingegnoso ma complesso e politicamente più difficile da digerire di quello Bini
Smaghi e Marcussen.
Giuseppe Pennisi
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