giovedì 31 maggio 2018

Hindemith a Maggio in Formiche mensile primo giugno


HINDEMITH A MAGGIO


Questo Maggio 2018 verrà ricordato in Italia come il mese di Paul Hindemith (1895-1963) . Grande teorico della musica moderna, eccellente didatta, prolifico compositore specialmente di camerista e di musica strumentale (ma meno di teatro  musicale), in Italia è noto principalmente tra gli specialisti di musica del Novecento. E’ quindi un avvenimento che due sue opere siano programmate nelle stesso mese: Cardillac ad inaugurazione di un Maggio Musicale Fiorentino che verrò ricordato come quello che segna una vera svolta nella storia recente del Festival e Sancta Susanna in quel Teatro Lirico di Cagliari che da un paio di anni ha ritrovato la carica innovativa di un tempo.
Sono due opere che appartengono a due momenti differenti dell’evoluzione del compositore. Sancta Susanna (di cui si sono viste ed ascoltate di recente produzioni al Ravenna Festival ed al Teatro alla Scala) è un lavoro espressionista. Composto come parte di un trittico per l’opera di Francoforte, da un Hindemith che aveva appena 25 anni. Il testo, un atto unico di August Stramm tratto da un racconto del medesimo autore basato su una leggenda dei tempi del confronto tra Riforma e Controriforma; richiede un vasto organico orchestrale ma solo tre voci in scena ( un soprano drammatico e due mezzo soprani), nonché la brevissima partecipazione di due attori ed un coro femminile nel finale. Una giovane suora, in odore di santità per la sua dedicazione incessante alla preghiera che le fa dimenticare anche di nutrirsi, ascolta, per caso, i gemiti sessuali di due giovani nel giardino vicino alla cappella del convento. Ciò innesca un crescente turbamento: dal dubbio che “la gioia” può essere non nella preghiera ma nell’atto sessuale sino ad un auto- erotismo sempre più sfrenato, al denudarsi sull’altare ed al tentare di godere pure con la statua del Cristo in Croce. Ciò sconvolge le consorelle, entrate nella cappella per i Vespri, che reagiscono gridando “Satana! ”. L’opera creò scalpore: nel 1922; Fritz Busch si rifiutò di concertarla considerandola oscena e blasfema, ma fu origine  di polemiche in tempi recenti Nel 1977, la “prima” italiana al Teatro dell’Opera di Roma fu segnata da tumulti in sala, e da una denuncia nei confronti del Sindaco e del Sovrintendente; la magistratura impiegò tempo prima di archiviarla. Hindemith era non credente e non intendeva certamente offendere la religione, ma esaltare l’amore totale. Inoltre sperimentava il virtuosismo di una scrittura orchestrale e vocale basata sulle variazioni di un unico tema.
Cardillac è un lavoro maturo di cui Hindemith compose due differenti edizioni, una per Dresda nel 1926 ed una per Zurigo del 1952; stava lavorando ad un terza quando sopraggiunse la morte. Apparentemente, è la storia di un’ossessione, quella di un artista incapace di staccarsi dalle proprie creazioni arrivando all’emarginazione, all’omicidio e al linciaggio del popolo/ pubblico. In effetti, è una parabola sui rapporti di un artista con le proprie  creazioni. Mentre l’ambientazione è  influenzata dai capolavori del cinema espressionista tedesco, sotto il profilo musicale appartiene alla scuola di ‘musica oggettiva’ che si sottrae proprio dal soggettivismo tipiso dell’espressionismo. E’ un lavoro ‘a numeri chiusi’, ben diciotto, con una scrittura orchestrale in cui dominano archi e fiati e che respinge sia il post-wagnerismo sia la dodecafonia , che allora stava cominciando a prendere piede. Il Maggio Fiorentino ne ha presentato un’edizione esemplare che ci auguriamo venga premiata e , soprattutto, noleggiata da altri teatri e riprodotta in DvD. Ciò è tanto più necessario in quanto Cardillac , per quanto in repertorio in numerosi teatri del mondo culturale germanico, è poco conosciuta in Italia, dove debuttò a Venezia solo nel 1948 e negli ultimi trent’anni si è vista solo a Firenze, alla Scala ed a Genova.

QUANTO RENDE ANDARE ALL’UNIVERSITA’ in Formiche mensile 1 giugno


QUANTO RENDE ANDARE ALL’UNIVERSITA’
Giuseppe Pennisi
Conviene andare all’università? Nelle ultime settimane hanno destato una notevole polemica sia episodi di bullismo all’interno delle scuole secondarie superiori, in particolare degli istituti tecnici, sia il dato Eurostat secondo cui i laureati italiani (al di sotto dei 35 anni) che riescono ad ottenere un impiego entro 3 anni dal titolo sono il 58% del totale, un numero in crescita rispetto alla rilevazione dell'anno precedente (risalente al 2016), che registrava una percentuale del 57.7%. Un dato scoraggiante , però, se confrontato con la media europea, che raggiunge invece l'82,7% degli inserimenti lavorativi a tre anni dalla laurea. Rispetto ai 28 partner dell'Unione europea (Ue), l'Italia si posiziona come penultima in classifica. Entrando nel merito delle determinanti  che continuano a frenare l'occupazione dei giovani laureati, a predominare sembra il mancato ricambio generazionale, anche a ragione dei requisiti per andare in pensione di vecchiaia introdotti con la Legge Fornero.
Al di là delle polemiche contingenti, occorre porsi la domanda di fondo: conviene andare all’università? La risposta può venire data dall’analisi dei costi e dei benefici dell’istruzione a cui ho avuto la fortuna di lavorare sin dalla fine degli Anni Sessanta del secolo scorso con Hans Thias (Banca mondiale), Martin Carnoy (University of California) e Georges Psacharopuolos (London School of Economics). Con Psacharoupolos stimammo , alla metà degli Anni Ottanta, rendimenti finanziari molto elevati (un tasso di rendimento interno finanziario mediamente del 16%) per coloro che si laureavano in corso ed avevano scelto una disciplina tecnica o comunque in demanda sul mercato del lavoro.
Da allora oggi molte cose sono cambiate: è aumentato il numero dei laureati annui, si sono compresse le retribuzioni anche a causa della recessione iniziata nel 2007-2008, è cresciuta la percentuale di coloro che considerano l’istruzione universitaria un bene di consumo, non un investimento, e scelgono discipline per il proprio soddisfacimento senza essersi preoccupati di ciò che richiedono, e richiederanno ancora più in futuro,  l’economia e la produzione.
Un nuovo saggio di Psacharopoulos e di Harry Antony Patrinos pubblicato a fine aprile dalla Banca mondiale (World Bank Policy Research Working Paper 8402) rivela che in Italia il rendimento interno finanziario dell’istruzione universitaria all’individuo si colloca al 9,5%; quello economico alla società è invece all’8,6% , a ragione sia dell’elevato livello di sussidio sia del disequilibrio (in termini tecnici Curva di Beveridge) tra discipline di studio scelte e mercato del lavoro. Ciò dovrebbe suggerire non di abolire o ridurre le tasse universitarie ma di aumentarle ai fuoricorso ed a coloro che si iscrivono in discipline ‘di consumo ’, anche al fine di premiare, con borse di studio, studenti volenterosi, a basso reddito e che optano per percorsi richiesti dal mercato del lavoro. La riduzione del tasso di rendimento finanziario medio agli individui negli ultimi trent’anni in parte dipende dalle differenze del campione (i dati della metà degli Anni Ottanta si riferivano a chi si laureava in corso in discipline richieste dal mercato del lavoro; quelli dello studio più recente riguardano tutti i laureati in tutte le discipline) ed in parte sono fisiologici (allora si era a livelli di Paesi in via sviluppo sia per numero di laureati sia per differenziali retributivi).
A risultati analoghi arriva un saggio di Ana Ruso Cardoso (Università di Barcellona), Paolo Guimaralaes (Università di Porto), Pedro Partugal e Ugo Reiss (ambedue del servizio studi della banca centrale  portoghese)- IZA Discussion Paper No 11419).
La risposta, quindi, è chiara: andare all’università, scegliere bene la disciplina e laureasi in corso.

Diversi piani per tagliare il debito Ma al centro c’è sempre l’Esm il fondo salva-Stati dell’Europa in Avvenire 31 maggio


Diversi piani per tagliare il debito Ma al centro c’è sempre l’Esm il fondo salva-Stati dell’Europa
La 'tempesta' sui mercati finanziari scatenasi all’inizio della settimana non sarebbe così grave se il debito pubblico del’Italia (pari al 132% del Pil) non dovesse rifinanziarsi (per circa 400 miliardi di euro quest’anno) e se il costo del rifinanziamento non aumentasse, causando un incremento di quello stock di debito che, con il Trattato di Maastricht ci siamo impegnati a portare al 60% del Pil. Ossia a più che dimezzarlo. Siamo il solo dei grandi Paesi dell’eurozona ad avere un debito pubblico così elevato, come evidenziato da una serie di articoli apparsi su Avvenire negli ultimi tre mesi. A ragione della crisi del 2008-2011 (in Italia trascinatasi sino al 2016), il debito pubblico è aumentato in numerosi altri Paesi Ue: da una media del 60% del Pil quando oltre un quarto di secolo fa si negoziava l’unione monetaria siamo arrivati al 90%.
Da tempo, infatti, la strategia sembra essere quella di stabilizzare il debito per poi giungere a una graduale flessione. Una strategia che proprio negli ultimi giorni è parsa fragile. Anni fa, il governo Letta chiese al Cnel di mettere a confronto i vari piani di rientro dal debito. Emersero diverse proposte, i documenti presentati nel corso di un seminario sono nel sito del Cnel, ma ormai obsoleti. Sempre ai tempi del governo Letta, il centro studi Astrid presentò un’ampia analisi con una gamma di proposte. Il Governo cadde prima che si potessero esaminare questi confronti d analisi.
Di recente, sono state presentate due proposte innovative. Il 25 maggio mentre si aggravavano le tensioni 'ad alzo zero' sulla formazione del governo e i mercati cominciavano a fibrillare al calor bianco, è stato diffuso un interessante lavoro di Lorenzo Bini Smaghi e Michela Marcussen, rispettivamente presidente e capo economista della Société Genérale. È un lavoro tecnico, che non riguarda solamente l’Italia (anche se analizza a fondo il mercato obbligazionario italiano), ma l’intera eurozona. In breve, il lavoro prende avvio dal fatto che l’area dell’euro è alla prese con un dilemma. Da un canto, è ampiamente riconosciuto che la sua struttura e la sua governance debbono essere rafforzate, ma le principali proposte per raggiungere questo obiettivo hanno incontrato serie difficoltà politiche. Gli Eurobond, con genuina condivisione del rischio, porterebbero stabilità e benefici economici, ma richiedono un trasferimento delle politiche di bilancio dagli Stati membri all’Unione che non appare probabile nel prevedibile futuro. D’altro canto, mantenere la situazione attuale significa esporre la fragilità dell’area dell’euro a una nuova crisi (quale – aggiungiamo noi – un marcato sovranismo in uno dei grandi Paesi dell’eurozona). Il documento propone un periodo di transizione ventennale per quanto riguarda la regola del Fiscal Compact relativa alla riduzione dello stock di debito che supera il 60% del Pil sulla base di un ventesimo l’anno. Il debito coerente con i vincoli annuali del Fiscal Compact sarebbe 'viola' e protetto da qualsiasi ristrutturazione basata su programmi dell’European Stability Mechanism (Esm), il cosiddetto 'fondo salva-Stati'. Il debito che supera i limiti del Compact sarebbe 'rosso' e non avrebbe alcuna garanzia. Dopo il periodo di transizione ventennale, tutti i debiti diventerebbero 'viola' e potrebbero essere la base per veri Eurobond. Attenzione, i benefici non si vedrebbero tra vent’anni ma subito, perché se la strada viene intrapresa, si incentiverebbe la disciplina di finanza pubblica e limiterebbe i rischi di nuove costose crisi per l’area dell’euro.
Quasi in parallelo è stata formulata una proposta da Marcello Minenna (Consob), Roberto Violi (Bankitalia), Giovanni Dosi (Sant’Anna di Pisa) e Andrea Roventini ( Sant’Anna di Pisa). Occorre ricordare che Minenna è stato per alcuni giorni assessore della giunta Raggi a Roma e Roventini candidato al ministero dell’Economia del M5S. La proposta è imperniata sull’utilizzo dell’Esm per rifinanziare a tasso agevolato il debito in scadenza, stipulando, in cambio del tasso agevolato, una polizza al Fondo per assicurarlo dai rischi. Il costo delle polizze varierà a seconda del 'rischio Paese'. Nell’arco di dieci anni, tutti i Paesi avrebbero i debiti assicurati e il Fondo potrebbe investire a lungo termine in infrastrutture con i premi assicurativi. È uno schema ingegnoso ma complesso e politicamente più difficile da digerire di quello Bini Smaghi e Marcussen.
Giuseppe Pennisi
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lunedì 28 maggio 2018

Manon sulle punte al teatro dell'Opera di Roma in Sussidiario 29 maggio


BALLETTO/ Manon sulle punte al teatro dell'Opera di Roma
Dopo 26 anni di assenza, nel 2010, era tornata a Roma un’esemplare Manondi Jules Massenet in co-produzione con l’Opéra di Montecarlo. E' tornata. GIUSEPPE PENNISI 29 maggio 2018 Giuseppe Pennisi
Foto di Yasuko KageyamaFoto di Yasuko Kageyama
Dopo 26 anni di assenza, nel 2010, era tornata in una Roma pronta a correre in spiaggia un’esemplare Manon di Jules Massenet in co-produzione con l’Opéra di Montecarlo. Ad otto anni di quella produzione, il 25 maggio (sempre a ridosso dell’estate) è arrivata al Teatro dell’Opera una Manon da Jules Massenet, piuttosto che di Jules Massenet. 
E’ un balletto di Kenneth McMillan che debuttò a Londra venticinque anni fa e da allora ha fatto il giro del mondo. La musica è di Jules Massenet ma non dell’opera eponima; si tratta di 47 brani tratti da vari lavori del compositore  opere ma anche sinfonie, oratori sacri e simili. Il libretto non segue necessariamente quello di Henri Meilhac and Philippe Gille utilizzato da Massenet perm la sua opera in cinque atti. È una versione del romanzo “L’Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut” dell’abate Antoine Francois Prévost abbastanza fedele al racconto, In Italia l’opera di Massenet è poco rappresentata non solo per lo sforzo produttivo che richiede (5 atti, 6 quadri, 18 solisti, coro, corpo di ballo, dizione in francese - alla Scala negli anni Settanta Mirella Freni e Luciano Pavarotti, con la direzione musicale di Peter Maag- veniva proposta in versione ritmica italiana e fortemente tagliata), ma anche in quanto travolta dalla più moderna e italianissima, Manon Lescaut di Giacomo Puccini, composta solo pochi anni dopo quella di Massenet.

In gran misura autobiografico, il libro di Prévost è imperniato sul protagonista maschile che l’abate non esita a mostrare come un gaglioffo tormentato, ma pur sempre cinico e corrotto (oltre che corruttore). Nulla di simile al tenero giovincello innamorato di Massenet o allo studente sensuale e passionale di Puccini.

In effetti, tralasciando l’opéra-comique di Daniel Auber e altre versioni minori, occorre aspettare il 1950 o giù di lì perché con il Boulevard Solitude di Hans Werner Henze si ritrovino trasportati nella Francia della prostituzione e della droga degli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, i personaggi e il clima di Prévost, pur se, sulla scena, non ci sono riferimenti ai più espliciti aspetti sessuali del romanzo settecentesco. Con una qualifica: come molti scrittori libertini (tra cui lo stesso Marchese De Sade), l’abate aveva non solo un vero senso di colpa nei confronti dei propri trascorsi (tra altare e postribolo), ma anche intenzioni moralistiche (ambedue distinte e distanti dall’opera di Henze, come, peraltro, da quelle di Puccini, Massenet e Auber) tanto che eros e sesso non venivano vissuti in modo gioioso.

Il lavoro di McMillan, che è in scena a Roma in allestimento del teatro Stanislasky e Nemirovich-Danchenko di Mosca fedelissimo a quello che andò in scena un quarto di secolo fa a Londra (bellissime le scene ed i costumi di Nicholas Georgiadis,)  legge l’intreccio come una parabola di dualismo tra eros e misticismo, tra fango e sogno di una giovane piccolo borghese desiderosa di ascesa sociale (e di lusso e lussuria) e pronta a tutto, anche a prostituirsi ed a barare per farlo. Anche Des Grieux è sempre in bilico tra seminario (a cui era stato  della famiglia destinato) e giochi erotici sotto le lenzuola. Mentre in Puccini l’eros torna prepotentemente in scena dopo 50 anni di melodramma passionale ma privo di sesso, in Massenet, l’eros – ha ricordato il compianto Carlo Casini – è letto con gli occhiali del perbenismo borghese del tardo Ottocento francese, quello tanto per intenderci dell’“affaire Dreyfus”. È l’erotismo di un immaginario Settecento elegante, un po’ viziosetto ma mai veramente peccaminoso.

Forte l’accento sulla giovinezza quasi innocente dei due protagonisti che si distacca da parte del mondo che li circonda. Quindi, un eros giovane, quasi inesperto all’inizio anche se la protagonista diventa sempre più insinuante, man mano che la vicenda procede e che lei passa da un letto a un altro. . Il vero ‘villano’ è il cugino Lescaut che vende la cuginetta al miglior offerente.
Pochi i bravissimi protagonisti: Manon (Eleonora Abbagnato), Des Grieux (Friedemann Vogel),Lescaut (Giacomo Castellana), Monsieur G.M. (Benjamin Pech), Madame (Alessandra Amato), L’Amante (Cristina Saso), il Carceriere (Damiano Mongelli), ma nei numerosi personaggi minori sono impegnati numerosi tra i primi ballerini del Teatro dell’Opera, il corpo di ballo ed anche gli allievi della Scuola di Ballo dell’istituzione.
I due protagonisti e Lescaut hanno ruoli difficilissimi , ed anche molto pesanti, che assolvono con maestria ed eleganza. L’intero spettacolo è una lezione di raffinatezza. L’orchestra, diretta da Martin Yates, ha amalgamato perfettamente i 47 brani senza fare avvertire soluzioni di continuità tra un brano e l’altro.
Un lavoro esemplare che si è concluso con dieci minuti di applausi ed ovazioni.
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