Un programma di governo
sostenibile per M5S e centrodestra? Eccolo
L'economista
Giuseppe Pennisi indica i quattro pilastri per un possibile programma di
governo: sviluppo, sicurezza, regolamentazione efficace dell’immigrazione, e
rispetto delle regole europee in materia di consolidamento della finanza
pubblica
Le
divergenze palesi su ruoli ed incarichi nel prossimo Governo – in interviste,
dichiarazioni stampa e “retroscena” sui principali quotidiani – non vogliono
necessariamente dire che l’intesa sui programmi sia molto lontana e chi ci
vorranno tempi lunghi, ove non lunghissimi, per la formazione dell’esecutivo.
Spesso si litiga su poltrone, e su chi deve essere “escluso” per
un’interdizione tra il teleologico ed il teologico, quando i programmi hanno
già raggiunto un buon grado di convergenza e sono sul punto di fondersi.
Indicativo a
riguardo l’articolo di Antonio La Spina che ha occupato gran parte della
seconda pagina di Avvenire del 27 marzo. Avvenire è una voce
eloquente. Ed Antonio La Spina non è solo un “professorino” di valutazione delle
politiche pubbliche della Luiss, a cui si debbono importanti contributi in
materia di impatto della regolamentazione. Lo conosco da anni: ha insegnato in
corsi da ma coordinati alla Scuola Nazionale dell’Amministrazione ed io in
quelli da lui guidati all’Università di Palermo ed al Cerisdi della capitale
siciliana. È da sempre uno stretto collaboratore del Centro Arrupe e della
rivista Orientamenti Sociali, quindi di cultura profondamente cattolica. Ha
fatto parte della segreteria regionale del PD in Sicilia ma ha anche
collaborato con governi regionali di centro-destra. È stato uno stretto
collaboratore di Franco Bassanini quando quest’ultimo era ministro della
Funzione Pubblica. La Spina, quindi, conosce bene il Palazzo (come lo chiamava
Pier Paolo Pasolini). Le sue idee su un possibile accordo tra M5S e
centrodestra a trazione leghista rispecchiano quella che è una crescente scuola
di pensiero.
All’indomani
delle elezioni, io stesso ho scritto su IlSussidiario.net che “le forze
politiche che hanno vinto le elezioni hanno l’onere di tentare di risolvere il
nodo vitale” dell’aggravarsi delle differenze tra un Nord in ripresa economica
ed un Sud sempre più povero. Non possono farlo come lo fece la Germania negli
successivi alla caduta del Muro di Berlino sia perché lo stesso Centro-Nord,
pur se ha una produttività significativamente superiore a quella del
Mezzogiorno, non ha livelli pari a quella dei Länder occidentali tedeschi che
permisero forti trasferimenti a quelli orientali, sia perché ci sono maggiori
vincoli europei, sia infine perché la nostra finanza pubblica e il nostro
debito pubblico rendono difficili finanziamenti di rilievo al Sud. Se il
binomio “Mezzogiorno-povertà” – come documentò circa trent’anni fa il Rapporto
Amato, commissionato dalle Commissioni Bilancio del Parlamento – se non diventa
centro unificante della politica economica e sociale del Paese, il divario
porterà a una spaccatura politica dell’Italia ancora più grave di quella già
mostrata dai risultati delle elezioni del 4 marzo. Ora come non mai è
necessario un governo che abbia come obiettivo principale una nuova
“unificazione nazionale” economica e sociale. Non che le Regioni, le
amministrazioni pubbliche e la società civile del Mezzogiorno non abbiano
responsabilità nel divario tra le due parti del Paese.
Il programma
può essere costruito – forse in parte lo è già – su quattro pilastri: sviluppo
(con alto contenuto occupazionale) specialmente del Sud e delle Isole,
sicurezza (e lotta alla criminalità), regolamentazione efficace dell’immigrazione,
e rispetto delle regole europee in materia di consolidamento della finanza
pubblica.
Cominciamo
da quest’ultimo punto, il più ostico ed il meno trattato sulla stampa. Per
uscire dalla trappola del debito (che frena la crescita e, quindi,
l’occupazione) occorre un impegno sia nazionale sia europeo. Sotto il profilo
nazionale, la strategia deve essere adottata e concordata dall’intera classe
politica dirigente, non solo della maggioranza che sosterrà l’esecutivo.
Sarebbe anzitutto appropriato costituire, per legge, una commissione – la cui
presidenza dovrebbe essere affidata a un esponente autorevole dell’opposizione
composta da rappresentanti delle forze politiche e delle istituzioni con
l’obiettivo di formulare proposte specifiche per portare il debito a meno del
100% del pil entro la fine della prossima legislatura. E monitorarne
l’attuazione. Una proposta in questa direzione è stata formulata in seno alla
Luiss School of Government.
Sotto il
profilo europeo, le risorse – in gran misura non utilizzate – del meccanismo
europeo di stabilità (e dell’eventuale Fondo monetario europeo) dovrebbero
essere impiegate per facilitare la riduzione del debito degli Stati dell’Unione
più indebitati. Lo si può fare con forme di garanzia e di riscatto che non
comportano quelle mutualizzazione del debito considerate impraticabili per
alcuni membri della Ue. È in ogni caso utile ricordare che tali forme di
garanzia e riscatto sono state adottate con successo nella Repubblica federale
tedesca, dopo la riunificazione, per risolvere problemi finanziari dei Länder
orientali. A questi impegni dovrebbero corrispondere una gamma di misure
definite nel dettaglio dalla Commissione europea. Tra queste, una
potenzialmente significativa è la cosiddetta “conversione della rendita”.
L’Italia ne ha già esperienza: venne attuata, nel 1906, con grande perizia
tecnica (e straordinaria rapidità) per sostituire titoli di Stato in scadenza
con altri a tassi inferiori. Oggi si dovrebbero sostituire titoli pluriennali
ancora in circolazione emessi negli anni Novanta (quando i tassi erano molto
elevati) con titoli a tassi correnti. I detentori dei primi, infatti, hanno
avuto un grande vantaggio dall’ingresso dell’Italia nella moneta unica e dal
quantitave easing, grazie al conseguente forte ribasso dei tassi. Occorre poi
destinare al ripiano del debito varie forme di entrare straordinarie: quelle
derivanti dalla voluntary disclosure (la collaborazione volontaria per
regolarizzare la propria posizione fiscale), condoni ancora in corso, parte
delle privatizzazioni del capitalismo municipale e regionale o i proventi,
infine, da grandi imprese a partecipazione statale. Nel contempo, occorre una
rigorosa e continuativa spending review seguendo protocolli e canoni di analisi
costi benefici ormai attuati in numerosi Stati occidentali. Sono articolate nel
volume “La Buona Spesa – dalle opere pubbliche alla spending review”, edito dal
centro studi ImpresaLavoro ed acquistabile agevolmente tramite Amazon.
Per quanto
riguarda lo sviluppo, uno studio sulla scarsa produttività in Italia curato da
dodici economisti della Banca d’Italia (Bank of Italy Occasional Paper No. 422)
non solo sottolinea il divario di produttività tra Mezzogiorno e resto del
Paese, ma conclude che le normative degli ultimi anni su mercati dei prodotti e
del lavoro offrono qualche “barlume di speranza”, mentre “le misure relative ad
altri fattori determinanti per la produttività non hanno avuto sino ad ora
efficacia”. Quindi sono quanto mai urgenti misure per rafforzare le produttività,
anche tramite investimenti pubblici in infrastrutture modulati secondo le
“osservazioni e proposte” presentate a governo e Parlamento dal Cnel alcuni
anni fa (e disponibili sul sito dell’organo).
Le misure di
contrasto alla povertà possono essere una declinazione di quanto già iniziato
negli ultimi anni con la normativa sul reddito di inclusione, come documentato
da La Spina. Anche in materia di sicurezza, La Spina indica le linee generali,
ma aggiungerei la regola “Tolleranza Zero” che ha cambiato sicurezza e qualità
della vita a New York.
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