Abbiamo i manovrieri ma manca
la manovra. Il debito non attende
Più passa il
tempo, più i conti si deteriorano. Mentre le istituzioni europee chiedono
risposte sulle misure che possono mettere in sicurezza la finanza pubblica
italiana
Dal
pomeriggio del 24 marzo, il governo Gentiloni è in carica per l’ordinaria
amministrazione, dopo aver chiuso la sua breve stagione con un Consiglio dei
ministri il 21 marzo dedicato essenzialmente a nomine (molto criticate dalle
forze politiche che oggi alla maggioranza in Parlamento e dallo stesso
paludato Corriere della Sera che alla vicenda ha dedicato
l’editoriale del 22 marzo). A quel che si sa, non è stata data alcuna risposta
alla lettera delle istituzione europee sulla finanza pubblica dell’Italia. La
lettera, recapitata per garbo istituzionale subito dopo le elezioni del 4 marzo
(allo scopo di non influirne sull’esito), “suggerisce” senza mezzi
termini, una manovra di aggiustamento primaverile al fine di fare sì che
l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni non superi l’1,6% del Pil
(come concordato con la Commissione europea durante la preparazione della legge
di bilancio) e misure incisive per la riduzione del debito pubblico (cresciuto
in maniera significativa negli ultimi quattro anni, tanto in valori assoluti
quanto in rapporto al Pil).
Gli
interventi da fare subito (quanto più si attende tanto più la cifra cresce)
sarebbero di 5 miliari circa sui conti 2018 a cui se ne dovrebbero aggiungere
altri 12 l’anno nei bilanci 2019 e 2020 (rispetto al programma triennale
presentato nell’aggiornamento al Def del settembre scorso) portare lo stock del
debito pubblico dal 130% del Pil (previsione per il 2018, anno in corso) al
120% del Pil (obiettivo per il 2020- il doppio comunque della regola europea
secondo cui lo stock di debito non dovrebbe superare il 60% del Pil).
Occorrerebbe, poi, aggiungere quanto necessario (altre 12 miliardi) per
“disinnescare” gli aumenti di Iva previsti dalle clausole di salvaguardia, ma
di questo aspetto pare non curarsi più nessuno. Una stima del “buco” lasciato
in eredità assomma a 30 miliardi, secondo i calcoli de Il Sole 24 Ore.
Si pongono
una marea di problemi tecnici. E due di ordine di politica economica. Di questi
ultimi , il primo è ormai acqua passata: non sarebbe stato meglio fornire una
risposta esauriente all’Unione europea (Ue) ed approntare un decreto legge per
mettere in sicurezza i conti 2018 dell’Italia (ripeto: ogni giorno che passa il
“buco” aumenta) che occuparsi di nomine non urgenti (ad esempio, il Cnel è in
prorogatio da circa tre anni e le forze politiche a supporto del governo
Gentiloni volevano sopprimerlo) che farsi accusare da chi ora è in maggioranza
di avere lasciato ‘pozzi avvelenati’? Ciò avrebbe facilitato il dialogo tra
nuovo governo (quando sarà formato) ed opposizione ed avrebbe anche
tranquillizzato l’Ue su quanto avviene in Italia.
La seconda
domanda è più complessa. Le trattative per la formazione del nuovo governo: il
capo politico del Movimento Cinque Stelle, Luigi Di Maio ha parlato di
sei mesi con riferimento a quelle che hanno portato alla nuova Grande
Coalizione in Germania. In Spagna ed in Belgio il percorso è stato più lungo.
In questi Paesi, vigono Costituzioni differenti da quella italiana per quanto
concerne le funzione che può esercitare un governo nel periodo di formazione di
quello che lo succederà. Tuttavia, se il negoziato si prolunga, non sarebbe
legittimo rispondere all’Ue e, se del caso, prendere le misure essenziali per
mettere in sicurezza i nostri conti?
Giuristi e
legulei illuminate i poveri semplici economisti!
25/03/2018
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