Perché occorre evitare una
guerra commerciale
L'economista
Giuseppe Pennisi analizza le conseguenze dell'adozione unilaterale di dazi su
acciaio ed alluminio da parte degli Stati Uniti
Il
presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato l’adozione
unilaterale di dazi su acciaio ed alluminio, dopo averne applicati all’inizio
di gennaio nei confronti di elettrodomestici e di pannelli solari
principalmente provenienti dall’Asia. L’aspetto più importante è nell’aggettivo
“unilaterale” in quanto sia nel discorso pronunciato a Davos poco più di un
mese fa sia nel “messaggio sullo Stato dell’Unione” a fine gennaio, Trump aveva
annunciato che ci sarebbero state “restrizioni” ma “negoziate”. La differenza è
sostanziale.
Negli anni
Settanta del secolo scorso, ad esempio, l’industria americana dell’auto si
sentì, a torto o a ragione, presa d’assedio da case automobilistiche europee e
giapponesi (quelle della Corea del Sud ancora non facevano paura). Allora gli
Stati Uniti negoziarono con l’Unione europea e con il Giappone un programma
triennale di restrizioni “volontarie” all’esportazioni di auto alla volta degli
Usa nell’ipotesi che in questi tre anni le case automobilistiche americane si
sarebbero ristrutturate e sarebbero diventate più competitive.
Anche se il
programma specifico dei dazi che verrebbero applicati verrà annunciato la
settimana prossima, fa paura il fatto stesso che non si tratterà di misure
negoziate, ma unilaterali. Potrebbe essere l’inizio di una guerra commerciale
internazionale in cui tutte le maggiori aree commerciali e i principali Paesi
si troverebbero coinvolti. È per questa ragione che le borse mondiali hanno
reagito molto negativamente all’annuncio di Trump.
Una guerra
commerciale non può non provocare un rallentamento del commercio mondiale. Ed
al commercio è legata la crescita mondiale, in graduale declino in questi
ultimi anni proprio in quanto l’espansione del commercio internazionale sta
segnando una flessione. Basti pensare che i principali modelli econometrici sia
dell’economia internazionale sia delle maggiori economie nazionali hanno come
principale variabile “esogena”(ossia autonoma) le esportazioni mondiali e/o
quelle nazionali.
Quindi una
guerra commerciale potrebbe causare non necessariamente un brusco freno
all’economia internazionale, come quelli che si sono verificati negli anni
precedenti le due guerre mondiali del secolo scorso, ma una crisi economica e
finanziaria analoga a quella iniziata nel 2007-2008 e da cui l’Europa, e in
particolare l’Italia, sta faticosamente uscendo.
Sono
prospettive da far paura. Per questa ragione ci si devono aspettare
fibrillazioni sui mercati sino a quando non si conosceranno i dettagli della
posizione degli Stati Uniti.
Dato che ho
vissuto a Washington per oltre tre lustri, non è detto che le nere prospettive
di queste ultime ore si realizzino. Trump risponde a promesse elettorali fatte
alla “rust belt”, gli Stati dell’Unione dove prevale un’industria pesante non
più competitiva. Tuttavia non solo il Partito Repubblicano è stato
tradizionalmente molto più favorevole al libero commercio di quanto non lo sia
stato il Partito Democratico, ma l’high tech, la manifattura innovativa e
soprattutto la finanza sono decisamente contrarie a una guerra commerciale che
danneggerebbe non poco i loro interessi. È possibile che le misure specifiche
saranno temporanee e mirate a quelle aree dove i costi di produzione sono
marcatamente più bassi di quelli Usa. Con molto clamore, guardando a parte del
proprio elettorato, Trump varerebbe misure per facilitare un aggiustamento
strutturale della rust belt.
Ciò richiede
fermezza e speditezza da parte degli altri Paesi Ocse, Unione Europea e Canada
in primo luogo. Occorre insistere che in un mondo di vasti mercati comuni i più
danneggiati da una guerra commerciale sarebbero proprio gli americani – consumatori,
finanzieri e anche industriali, specialmente quelle realtà più innovative e
dinamiche.
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