giovedì 1 marzo 2018

NEO-PROTEZIONISMO O PROTO-PROTEZIONISMO? in Formiche mensile marzo



NEO-PROTEZIONISMO O PROTO-PROTEZIONISMO?
Giuseppe Pennisi

È in corso una nuova ventata protezionistica. Ha preso l’avvio durante la campagna presidenziale americana quando l’allora candidato repubblicano, Donald Trump, si impegnò a difendere, con dazi, tariffe e contingenti quantitativo, imprese in difficoltà e conseguenti minacce ai posti di lavoro negli Stati Uniti. Si tenga presente che flirtare con il protezionismo non è consuetudine del partito repubblicano (di solito su posizione liberiste) me lo è del partito democratico. Ad un anno dall’ingresso alla Casa Bianca, Trump ha preso le prime misure nei confronti delle importazioni di pannelli solari e di alcune categorie di elettrodomestici, principalmente dall’Asia; altre sono allo studio per la siderurgia, metallurgia e la meccanica . Anche se ,negli ultimi interventi, il Presidente Usa ha ammorbidito il linguaggio, ci sono forti rischi che  il processo di de-globalizzazione inizierebbe dal gruppo dei Paesi ad alto reddito pro-capite, a struttura produttiva avanzata, ed a forte tecnologia. Ripetendo il copione di circa 110 anni fa, quando nel 1905, o giù di lì, terminò la lunga fase d’integrazione dell’economia internazionale (e di crescita dei redditi e dei commerci) cominciata attorno al 1870. Si parla di neo-protezionismo, ma si tratta in effetti di proto-protezionismo che si riallaccia ad esempio alla ‘tariffa doganale Luzzatti (il sottosegretario al commercio dell’epoca n.d,r) del 1878’, emblema del ‘protezionismo imperfetto’ .
Negli Usa, l’attacco alla liberalizzazione degli scambi, all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) ed agli stessi accordi regionali (come il Nafta- il trattato di libero scambio tra gli Stati del Nord America) non solo è stato al centro della campagna elettorale per le presidenziali ma è uno dei cavalli di battaglia dei sindacati della grande industria. A fine gennaio dell’anno in corso, un’analisi dell’Economic Policy Institute (EPI) , il “pensatoio” di Washington supportato dalle maggiori organizzazioni sindacali- ha pubblicato un’analisi (Trump must act now to protect U.S. steel and aluminum workes) a firma del capo economista EPI Robert E. Scott. Altre analisi EPI attribuiscono alla liberalizzazione degli scambi avvenuta negli ultimi 50 anni non soltanto la perdita di posti di lavoro nel manifatturiero ma anche il divario salariale tra le fasce alte delle forze di lavoro ed i “working poor” (“i salariati poveri”). È una conclusione tendenziosa ed artata – lavori di Lawrence Katz dell’Università di Harvard quantizzano le determinanti del differenziale ed individuano la principale nelle storture di un sistema universitario in cui l’offerta di laureati in discipline scientifiche non tiene dietro alla domanda). In aggiunta, studi del Peterson Institute of International Economics dimostra che l’aumento del commercio internazionale ha comportato un incremento di dieci punti percentuali al reddito nazionale americano nel periodo dalla fine della seconda guerra mondiale alla crisi del 2007

Più complesse le insidie provenienti dal Vecchio Continente. Esse si annidano negli articoli del Trattato di Lisbona in cui si mantiene la competenza della Commissione europea per  i negoziati commerciali con il resto del mondo su atti d’indirizzo del Consiglio dei Ministri europeo ma affida al Parlamento europeo il compito di approvare o respingere gli accordi commerciali conclusi dall’Esecutivo. Ciò rende qualsiasi negoziato molto più complicato e nella politica commerciale incidono le lobby ; i parlamentari sono comunque propensi a combattere per gli interessi delle singole aree in cui vengono eletti, ed a potere esercitare un diritto di veto nei riguardi della Commissione indebolendone il potere negoziale.
Da un lato, la liberalizzazione degli scambi è un bene pubblico (non divisibile e non rivale), quindi non di mercato: fruiscono dei suoi benefici anche i protezionisti e tutti coloro che non la vogliono. Da un altro, circa 70 anni di trattative multilaterali sugli scambi provano che i negoziatori devono avere pieni poteri perché l’esito sia positivo.

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