NEO-PROTEZIONISMO O PROTO-PROTEZIONISMO?
Giuseppe Pennisi
È in corso una
nuova ventata protezionistica. Ha preso l’avvio durante la campagna
presidenziale americana quando l’allora candidato repubblicano, Donald Trump,
si impegnò a difendere, con dazi, tariffe e contingenti quantitativo, imprese
in difficoltà e conseguenti minacce ai posti di lavoro negli Stati Uniti. Si
tenga presente che flirtare con il protezionismo non è consuetudine del partito
repubblicano (di solito su posizione liberiste) me lo è del partito
democratico. Ad un anno dall’ingresso alla Casa Bianca, Trump ha preso le prime
misure nei confronti delle importazioni di pannelli solari e di alcune
categorie di elettrodomestici, principalmente dall’Asia; altre sono allo studio
per la siderurgia, metallurgia e la meccanica . Anche se ,negli ultimi
interventi, il Presidente Usa ha ammorbidito il linguaggio, ci sono forti
rischi che il processo di
de-globalizzazione inizierebbe dal gruppo dei Paesi ad alto reddito pro-capite,
a struttura produttiva avanzata, ed a forte tecnologia. Ripetendo il copione di
circa 110 anni fa, quando nel 1905, o giù di lì, terminò la lunga fase
d’integrazione dell’economia internazionale (e di crescita dei redditi e dei
commerci) cominciata attorno al 1870. Si parla di neo-protezionismo, ma si
tratta in effetti di proto-protezionismo che si riallaccia ad esempio alla
‘tariffa doganale Luzzatti (il sottosegretario al commercio dell’epoca n.d,r)
del 1878’, emblema del ‘protezionismo imperfetto’ .
Negli Usa, l’attacco
alla liberalizzazione degli scambi, all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc)
ed agli stessi accordi regionali (come il Nafta- il trattato di libero scambio
tra gli Stati del Nord America) non solo è stato al centro della campagna
elettorale per le presidenziali ma è uno dei cavalli di battaglia dei sindacati
della grande industria. A fine gennaio dell’anno in corso, un’analisi
dell’Economic Policy Institute (EPI) , il “pensatoio” di Washington supportato
dalle maggiori organizzazioni sindacali- ha pubblicato un’analisi (Trump must act now to protect U.S.
steel and aluminum workes) a firma del
capo economista EPI Robert E. Scott. Altre analisi EPI attribuiscono alla liberalizzazione
degli scambi avvenuta negli ultimi 50 anni non soltanto la perdita di posti di
lavoro nel manifatturiero ma anche il divario salariale tra le fasce alte delle
forze di lavoro ed i “working poor” (“i salariati poveri”). È una conclusione
tendenziosa ed artata – lavori di Lawrence Katz dell’Università di Harvard
quantizzano le determinanti del differenziale ed individuano la principale
nelle storture di un sistema universitario in cui l’offerta di laureati in
discipline scientifiche non tiene dietro alla domanda). In aggiunta, studi del
Peterson Institute of International Economics dimostra che l’aumento del
commercio internazionale ha comportato un incremento di dieci punti percentuali
al reddito nazionale americano nel periodo dalla fine della seconda guerra
mondiale alla crisi del 2007
Più complesse le insidie provenienti dal Vecchio Continente. Esse si annidano negli articoli del Trattato di Lisbona in cui si mantiene la competenza della Commissione europea per i negoziati commerciali con il resto del mondo su atti d’indirizzo del Consiglio dei Ministri europeo ma affida al Parlamento europeo il compito di approvare o respingere gli accordi commerciali conclusi dall’Esecutivo. Ciò rende qualsiasi negoziato molto più complicato e nella politica commerciale incidono le lobby ; i parlamentari sono comunque propensi a combattere per gli interessi delle singole aree in cui vengono eletti, ed a potere esercitare un diritto di veto nei riguardi della Commissione indebolendone il potere negoziale.
Da un lato, la
liberalizzazione degli scambi è un bene pubblico (non divisibile e non rivale),
quindi non di mercato: fruiscono dei suoi benefici anche i protezionisti e
tutti coloro che non la vogliono. Da un altro, circa 70 anni di trattative
multilaterali sugli scambi provano che i negoziatori devono avere pieni poteri
perché l’esito sia positivo.
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