DAZI USA/ Da Africa e Pacifico
due siluri per Trump
Gli Usa di
Trump hanno deciso di varare dazi contro la Cina. Le mosse di The Donald
potrebbero però presto diventare un boomerang, spiega GIUSEPPE PENNISI 26 marzo
2018 Giuseppe Pennisi
Donald Trump (Lapresse)
Una guerra
commerciale mondiale sembrava molto vicina. Siamo stati tutti con il fiato
sospeso per oltre un mese mentre la Casa Bianca pareva accusare di
"pratiche commerciali scorrette" questa o quell'area e, invece, di
ricorrere all'istituzione internazionale preposta a dirimere controversie di
questa natura, l'Organizzazione mondiale del commercio, minacciava "dazi
di ritorsione" elevatissimi. La guerra pare finita o almeno sospesa per il
momento. Nei confronti, però, non di tutti. Il cane ha abbaiato contro
l'universo mondo, ma alla fine ha morso nei confronti di un unico obiettivo: la
Repubblica popolare cinese. Ha annunciato elevati "dazi di
ritorsione" nei confronti di importazioni dalla Cina negli Usa per circa
60 miliardi di dollari l'anno e indicato che varerà nuove restrizioni agli
investimenti americani in quel che fu il Celeste Impero e, di converso, vincoli
a investimenti cinesi negli Usa, nonché - aspetto fondamentale ma quasi
ignorato dalla stampa italiana -, si è impegnato a denunciare Pechino agli
organi giurisdizionali Omc per il suo regime di licenze tecnologiche che, in
barba alle convenzioni su proprietà intellettuali e brevetti, le mega imprese
cinesi copierebbero e taroccherebbero, soprattutto nei campi delle
telecomunicazioni e dell'informatica.
In breve,
dal 22 marzo, gli Usa applicano "dazi di ritorsione" del 25% sulla
siderurgia e del 10% sull'alluminio importato dalla Cina, che, dal canto suo,
sta considerando misure analoghe su una vasta gamma di importazioni dagli Stati
Uniti. Il provvedimento americano sulla siderurgia contiene la facoltà di
misure temporanee nei confronti di Canada, Messico e anche Unione europea,
Corea del Sud, Argentina, Australia e Brasile (complessivamente due terzi delle
importazioni siderurgiche negli Usa). Ma è tutt'altro che chiaro che la Casa
Bianca se ne avvarrà.
In effetti,
la contenzione di Washington con Pechino su siderurgia e alluminio è, in gran
parte, una falsa pista. Alcuni prodotti siderurgici colpiti dalle misure Usa
non sono prodotti (e tanto meno esportati) nell'ex Celeste Impero. Il vero
obiettivo riguarda il "taroccamento" di prodotti ad alta tecnologia
americani brevettati. Controversie legali in materia riguardano l'Omc e possono
durare anni; nel contempo, i mercati (specialmente quello Usa) verrebbero
inondati di prodotti e servizi di origine cinese, spiazzando le aziende high
tech americane. Le quali non guarderanno con favore ai candidati più vicini
alla Casa Bianca alle non più tante lontane elezioni di mid-term (6
novembre prossimo). I super-dazi contro la Cina sono, quindi, uno strumento per
giungere a un accordo su un terreno quanto mai difficile, tanto più che Pechino
ha blindato le proprie reti nei confronti di Apple, Google, Amazon e Facebook,
i quattro "grandi" dell'high tech, e ha creato giganti analoghi
(spesso copiando quelli Usa) per il proprio mercato, nonché mirando a quello di
altri Paesi asiatici.
Tuttavia, le
minacce, prima, e le misure, poi, dell'Amministrazione Trump hanno risvegliato
programmi di integrazione commerciale che sembravano morti e sepolti. Il
principale riguarda l'area del Pacifico. Un progetto in tal senso era stato
lanciato con molto clamore alla fine degli anni Ottanta: avrebbe compreso una
vasta area di libero scambio di tutti i Paesi che si bagnano sul Pacifico - dal
Nord America al Sud America, da un lato, e dall'Australia, alla Nuova Zelanda e
alle "tigri asiatiche", dall'altro. Ora sta rinascendo. Il Cile ha
appena ospitato un'assise di undici Stati - dal Canada all'Argentina, su un
fianco del Pacifico, e dall'Australia a Singapore, sull'altro. Un'area di
300-500 milioni di persone (il numero varia a seconda degli Stati che
aderiranno) il cui tenore di vita e potere finanziario è in rapido aumento.
Mentre trent'anni fa gli Usa erano alla guida del progetto, oggi non ne fanno
parte. Anzi, alla riunione a Santiago del Cile si respirava un'aria chiaramente
anti-americana.
Qualcosa del
genere sta avvenendo in Africa a sud del Sahara per iniziativa segnatamente
dell'Ecowas (la Comunità dei 15 Stati dell'Africa occidentale). Il programma è
di lanciare un'area di libero scambio tra gli Stati membri sin dal 2020; si
prospetta anche, in un'ottica di più lungo periodo, un tragitto verso una
moneta unica. Il Paese più grande, la Nigeria, per ora non fa parte del gruppo.
Secondo i dati della Banca mondiale, l'Africa sub-sahariana può raggiungere un
Pil di 29 trilioni di dollari nel 2050, ha già 14mila milionari, la spesa per
infrastrutture è pari al 3,5% del Pil.
La creazione
di questi e altri mercati comuni e zone di libero scambio potrebbe, nel tempo,
isolare gli Usa. La business community americana se ne rende ben conto e
per questo motivo ha osteggiato e osteggia i "dazi di Trump
".
© Riproduzione Riservata.
Nessun commento:
Posta un commento