mercoledì 21 marzo 2018

Gli anarco-capitalisti di professione in quotidiano atlantico del 21 marzo


Gli anarco-capitalisti di professione
http://1.gravatar.com/avatar/7a0d00b20269f859fb87932894b6a2d1?s=24&d=mm&r=gdi Giuseppe Pennisi, in Economia, Quotidiano, del 20 Mar 2018, 19:13
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La meritoria casa editrice LiberiLibri di Macerata (l’unica forse che si dedica interamente alla pubblicazione di classici e moderni delle letteratura liberale) ha appena portato in libreria il saggio “L’Anarco-Capitalismo” di Pierre Lemieux, un economista e pubblicista canadese (pp. 170 Euro 16). Il Canada – è da tenersi presente – è un po’ l’antitesi dell’anarco-capitalismo dato che ha un esteso welfare state, forse il più vasto nel continente americano. Il volume è diviso in tre parti. Nella prima Lemieux illustra la propria visione dell’anarco-capitalismo; quasi per definizione, infatti, le interpretazioni dell’anarco-capitalismo sono tante quante gli anarco-capitalisti. Nella seconda, si passano in rassegna il pensiero dei principali teorici dell’anarco-capitalismo (Ayn Rand, John Locke, Robert Nozick, Murray Rothbard, Lysander Spooner). Nella terza si esplorano le critiche all’anticapitalismo ed i dibattiti sull’argomento. E’ un saggio che si legge bene anche grazie all’ottima traduzione in italiano di Elena Frontaloni. Esce in Italia trent’anni dopo la pubblicazione a Parigi presso le Presses Universitaires de France. Non credo che l’anarco-capitalismo abbia avuto una grande evoluzione in questi ultimi decenni. Sia perché gli anarco-capitalisti (e gli stessi anarchici) sono numericamente pochi, sia perché i loro maître à penser appartengono ormai ad una generazione anziana ove non vetusta, data l’avanzata del liberismo e del socialismo liberale.
E’ un saggio denso di pensiero, ma non accademico. Contiene un’ampia rassegna bibliografica ma le note sono ridotte al minimo indispensabile. E’ un lavoro indispensabile per chi voglia entrare nelle visioni estreme del liberalismo, oltre lo Stato minimo teorizzato, ma mai attuato negli anni, ad esempio, di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Lemieux è un anarco-capitalista “di professione”, tanto fa dell’anarco-capitalismo non solo la sua veste ma l’ottica con cui vede e legge il resto del mondo.
Il libro non è solo una lettura indispensabile per chi voglia ‘avere un’idea’ del pensiero anarco-capitalista (specialmente nella seconda parte) ma anche per chi voglia addentrarsi nella ‘versione di Lemieux’. In questa prima parte viene esposta un’interpretazione dell’anarco-capitalismo basata su quello che chiamerei ‘contrattualismo estremo’. In tutte la transazioni economiche (pure quelle relative a beni pubblici come la giustizia, la democrazia e la difesa), lo Stato (pur minimo) cederebbe il passo a rapporti contrattuali tra privati, individui o agenzie. L’approccio è stimolante ma non sembra tenere conto degli alti costi di transazione (in una visione liberale è il livello di tali costi di transazione che porta all’esigenza dello Stato) e del fatto che le ‘posizioni originarie’ dei partecipanti allo scambio non sono equivalenti. Il neocontrattualismo porta poi inevitabilmente a John Rawls ed al suo ‘maximin’ per risolvere il nodo delle differenti ‘posizioni originarie’. Ciò comporta non uno Stato minimo, o non esistente, ma uno Stato con una forte funzione redistributiva. L’anarco-capitalista di professione, quindi, si avviluppa nelle sue contraddizioni.
C’è, poi, un interrogativo sollevato dallo stesso Lemieux: quali società anarco-capitaliste hanno contribuito allo sviluppo (soprattutto culturale) mondiale? Ne cita un paio, nordiche, ammettendo che il loro contributo è stato nullo o quasi. Conosco bene Africa ed Asia; anche le società più primitive hanno qualche forma di assetto statuale anche solo per l’amministrazione della giustizia. Ho esperienza di anarco-capitalismo puro solo nella provincia di Enga nell’altopiano nella Nuova Guinea; i rapporti sono regolati unicamente con contratti impliciti tra clan. E’ rimasta ai livelli più bassi dello sviluppo.
Vorrei suggerire a Lemieux il saggio di Stevan Kolev dell’Istituto di Economia internazionale di Amburgo, pubblicato a fine 2016 nei Working Papers del Center for History of Political Economy e intitolato “Ludwig von Mises and the ‘Ordo-Interventionists’ – More than Just Aggression and Contempt?” (Ludwig von Mises e gli Ordo-Interventisti – Non fu solo questione di aggressività e disprezzo). E’ liberamente scaricabile dal sito del centro studi di Amburgo.
Il lavoro è un’attenta ricostruzione, in parte su materiale inedito, dei quaranta anni di relazioni intellettuali tra il leader della scuola austriaca di economia liberale Ludwig von Mises (1881-1973) e due tra gli economisti più rappresentativi dell’ordoliberalismo tedesco: Walter Eucken (1891-1950) e Wilhelm Röpke (1899-1966). Il lasso di tempo studiato va dall’inizio degli anni Venti fino alla morte di Röpke, avvenuta nel 1966. In questo lungo periodo ci sono state cinque fasi distinte in cui l’interazione scientifica e professionale si è intersecata con una rete complessa di simpatie e antipatie interpersonali.
Nella prima fase la scuola austriaca e la scuola tedesca (in gran misura basata sullo studio della storia economica più che su quello della teoria) si confrontarono per conoscersi meglio, affilando le rispettive lame. Nella seconda fase il dibattito si incentrò sullo studio del ciclo economico. Nella terza si passò dalle differenze sull’analisi del ciclo economico a veri e propri scontri, al Colloquio Walter Lippmann nel 1938 e ai primi vent’anni di incontri della Mont Pélerin Society, nata nel 1947. La quarta fase segnò la ‘coesistenza pacifica’ nel periodo del miracolo economico tedesco. L’ultima è stata quella dell’avvicinamento e viene studiata anche sulla base di materiale storiografico inedito relativo all’unica laurea onoraria in economia che von Mises ricevette nel 1964 dall’Università di Friburgo.
Sulla base di questa ricostruzione storica il lavoro presenta congetture sulle ragioni per cui i protagonisti, pur lavorando sui medesimi temi, non sono mai riusciti ad impegnarsi in veri e produttivi dibattiti scientifici che in quegli anni avrebbero potuto controbattere al crescente intervento pubblico di marca keynesiana. Kolev formula diverse ipotesi, in gran misura meta economiche e aventi a che fare con le personalità dei protagonisti. Il lavoro ha anche un’ampia sezione che, mettendo a confronto le due scuole, può essere di grande utilità al pensiero neo-liberale di questi anni.
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Giuseppe Pennisi

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