TRASFORMISMO
TRA GRAND OPÉRA PADANO E VERISMO
Giuseppe Pennisi
Premessa
Nella XVII legislatura
ci sono stati 566 cambi di gruppo parlamentare, portati a termine da 347
parlamentari, il 35,53% degli eletti. Montecitorio ha totalizzato 313 cambi di gruppo, con
207 deputati coinvolti, il 32,86% del totale. A Palazzo Madama, invece, gli
spostamenti sono stati 253, con 140 senatori transfughi (il 43,57%). Nella legislatura,
ci sono stati 9,58 cambi al mese. Rispetto allo scorso quinquennio (2008-2013),
la media è più che raddoppiata: nella XVI legislatura i cambi di casacca al
mese erano infatti 4,5. Un parlamentare ha cambiato dieci volte il gruppo di
appartenenza, ossia due l’anno.
Si sta tornando al
«trasformismo» che caratterizzò, per un non breve periodo, i Governi e la vita
parlamentare della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento, sino alle
soglie della Prima Guerra Mondiale? Forse sì, anche a ragione della
frammentazione di partiti e movimenti e della legge elettorale. Agostino
Depretis, il cui nome è quello più frequentemente associato al fenomeno del «trasformismo», lo teorizzò e ne decantò quelli che
riteneva fossero i suoi pregi: Mentre si
era soliti dire che il Governo rappresentava un partito, noi intendiamo
governare nell’interesse di tutti ed accetteremo l’appoggio di tutti gli uomini
onesti e leali, a qualsiasi gruppo appartengano. Ed ancora: Io spero che le mie parole potranno
facilitare quella concordia, quella feconda trasformazione delle parti liberali
della Camera (allora era l’unico ramo del Parlamento a votare la fiducia al
Governo – n.d.r.) che varranno a
costituire quella tanto invocata salda maggioranza, la quale ai nomi storici
tante volte abusati e forse improvvidamente scelti dalla topografia della
Camera, sostituisce per proprio segnacolo un’idea comprensiva, vecchia come il
mondo, come il moto, ma sempre nuova: il progresso.
Basta conoscere un
po’ di storia del periodo, o leggere qualche romanzo parlamentare dell’epoca
(ad esempio, L’Imperio di Federico De
Roberto), per sapere che gli intenti del «trasformismo» non erano sempre così nobili e che l’epoca fu costellata di scandali
(il maggiore fu quello della Banca Romana).
Quasi in parallelo
negli anni in cui alla Destra Storica succedevano
prima la Sinistra e, poi, il «trasformismo», il teatro in musica italiano
subiva una profonda trasformazione. Il melodramma verdiano, dopo decenni di
successi, aveva esaurito il proprio compito e si era alla ricerca di nuove
strade, guardando anche all’evoluzione all’estero, principalmente della Francia
(il grand opéra) e della Germania (la
rivoluzione wagneriana ed il musik drama).
Come in altri Paesi si cercavano vie nazionali che non fossero mere imitazioni
delle esperienza estere. Proprio dal periodo in cui in politica prendeva piede il
«trasformismo» sino alla Prima Guerra
Mondiale (ed in parte ai suoi postumi, incluso il Fascismo), la ricerca non fu
lineare ma si andò in numerosi rivoli, molti dei quali di successo effimero,
anche se, all’epoca, i loro titoli ebbero un riscontro di critica e di pubblico
molto maggiore delle opere verdiane (ancora in repertorio). Molti di questi
titoli furono destinati a sparire dai cartelloni nel giro di pochi lustri.
Dei vari filoni
due emersero come i principali: quello che definirei il grand opéra padano ed il verismo. Tali filoni iniziati
negli ultimi lustri dell’Ottocento entrarono nel Novecento ed alcuni titoli
(invero non moltissimi) restarono per sempre nei repertori. Altri resistettero
sino a dopo la Seconda Guerra Mondiale ed attirarono pubblico ed attenzione
della critica sino alla fine degli Anni Settanta-Ottanta del secolo scorso per
riapparire in queste ultime stagioni, proprio mentre in politica si accentua il
«trasformismo», come documentato nell’inizio di questo articolo. Ad esempio, il
binomio Cavalleria Rusticana-Pagliacci (peraltro
mai uscito dai repertori pur se pareva confinato ai teatri minori ed alle stagioni
estive) riappare in nuovi allestimenti in teatri maggiori che offrono anche
nuove produzioni di Andrea Chénier e di
La Cene delle Beffe di Umberto
Giordano che sembravano spariti dalle programmazioni; si rivedono anche Il Domino Nero e Cleopatra di Lauro Rossi che parevano consegnate ai libri di
storia della musica. Il Festival di Autunno 2017 a Ravenna, è stato interamente
dedicato al verismo. Inoltre, l’opera contemporanea italiana, quando non è
sperimentale, si ricollega sia al verismo
sia al grand opéra padano.
E’ a questo gruppo
di lavori che voglio rivolgere l’attenzione poiché mi chiedo se non ci sia
un’affinità con il «trasformismo» degli
anni di Depetris ed altri.
In questo
articolo, dopo un cenno al grand opéra padano, tratterò principalmente di
autori ed opere veriste tornate in
questi anni sui palcoscenici dopo un periodo in cui erano sembrate scomparse
per sempre. Non vengono incluse le opere di Puccini, autore trattato di recente
su La Nuova Antologia (Vol. 613,
Fasc.2272, Ottobre-Dicembre 2014) sia soprattutto perché la sua statura è tale
da non poterlo ingabbiare in uno stile specifico. Non viene neanche incluso Mefistofele di Arrigo Boito, sia perché
già trattato (La Nuova Antologia, Vol.608,
Fasc.2261, Gennaio-Marzo 2012) sia per l’unicità di questo lavoro, al di fuori
di ogni schema e stilema, anche se Boito era partito con l’idea di farne
un’opera wagneriana all’italiana.
Il grand opéra padano
Il grand opéra
padano precede il verismo e quasi accompagna la prima fase del «trasformismo».
In cosa consiste il genere (che ebbe notevole successo per circa tre lustri)?
Si era in uno dei rari periodi in cui la «musa bizzarra ed altera» (ossia la
lirica) era, in Italia, puramente commerciale. Ciò comportava guerre tra
editori (e tra teatri) alla ricerca di nuovi talenti e di nuove strade che
attirassero un pubblico sempre più appartenente alla nuova borghesia
dell’industria e dei commerci - nonché della nascente e balbettante finanza -
non all’aristocrazia grande e piccola, con i ceti a basso reddito confinati nei
loggioni (che, come si fa ancora oggi al Teatro alla Scala, entravano in teatro
da porte separate da quella per il pubblico della platea e dei palchi).
Nella Padania
(ossia tra Torino e Bologna avendo come punto di riferimento i teatri La Scala
e Dal Verme di Milano) nacque un genere che mutuava elementi dal grand opéra francese
(allora ormai superato anche Oltralpe) e dal wagnerismo (che dopo la prima
italiana del Lohengrin nella città
felsinea influiva pure sui compositori che vi si opponevano). La letteratura
sul genere è stringata: un saggio fondamentale di Guido Salvetti (alla fine
degli Anni Settanta del secolo scorso) e lavori più recenti di Giancarlo Landini
e di Antonio Caroccia. Secondo Fedele D’Amico, il genere durò appena una
dozzina d’anni, e riguardò essenzialmente l’area tra Bologna e Milano; ora gran
parte dei suoi autori (Franchetti, Rossi) non si rappresentano quasi più.
Il grand opéra
padano aveva alcune sue caratteristiche: intrecci complicati in terre lontane con
tradimenti di ogni sorta (vediamo alcuni titoli: I Lituani di Amilcare Ponchielli, Guarany di Carlos Gomez, Ruy
Blas di Filippo Marchetti, I Goti
di Stefano Gobatti, tutti di enorme successo sia di pubblico sia di critica
alla fine dell’Ottocento) che consentivano di coniugare ballo con canto e
davano la stura a «effetti speciali» (incendi, battaglie, crolli); si
completava il superamento nei «numeri chiusi» privilegiando tableau con
sinfonismo continuo. A questi due elementi – il primo d’origine francese, il
secondo d’ispirazione wagneriana – si aggiungeva il perbenismo di un’Italia in
via di diventare umbertina ed in cui la borghesia padana aveva la
consapevolezza di responsabilità e doveri speciali nell’amalgamare le culture
degli «statarelli» su cui si costruivano le ambizioni di un nuovo Stato proteso
ad entrare nel novero delle Grandi Potenze (per utilizzare il lessico
dell’epoca). A questo pubblico si addicevano spettacoli magniloquenti,
densi di concertati, cori e balletti, e con allusioni vagamente anti-clericali
(come si addiceva all’Italia post-unitaria in cui erano ancora irrisolta la «questione
Romana» ed il «non expedit» papale
che vietava ai cattolici di partecipare alla politica del Regno d’Italia).
Il grand
opéra padano aveva due limiti importanti; a) nell’incorporare elementi
francesi, non aveva i mezzi finanziari e tecnologici per competere con i
modelli d’Oltralpe (anche perché in Italia i teatri erano condominii privati di
palchettisti mentre in Francia, almeno i maggiori, erano statali); b)
nell’incorporare elementi wagneriani, in Italia mancava la cultura sinfonica e
strumentale della Germania.
Di questo genere
è rimasta sempre in repertorio, ed in tutto il mondo, La Gioconda di Amilcare Ponchielli. Sembrava sparito, almeno dai
circuiti maggiori, Andrea Chénier di
Umberto Giordano (che alcuni considerano un’opera verista) ma nel 2017 l’Opera
di Roma ne ha proposto un nuovo allestimento ed il 7 dicembre il Teatro alla
Scala la ha scelta come titolo inaugurale della stagione 2017-2018. Altri
titoli ritornano. E piacciono.
Prima di
trattare La Gioconda e le ragioni del
suo imperituro successo ed il redivivo Andrea
Chénier, mi sembra utile fare riferimento al compositore marchigiano, ma
trapiantato a Milano, Lauro Rossi (a cui è intitolato il Teatro di Macerata) e
di cui si sono rivisti due lavori Il
Domino Nero nel 2001 a Jesi e Cleopatra
a Macerata nel 2008, due opere tipiche del genere.
Il Domino Nero fece scalpore in quanto metteva
in scena un vero e proprio bordello (con tanto di maîtresse e signorine
discinte) giustapponendolo, in aggiunta, ad un convento. Inoltre, i
frequentatori della casa di tolleranza del secondo atto erano tutti gli uomini
visti, nel primo, in un ballo (la sera stessa) a Palazzo Reale. Erano temi e
luoghi scabrosi per un’epoca in cui nel teatro lirico italiano l’eros non
appariva più: era finito con il rossiniano Le
Comte Ory e si sarebbe dovuto aspettare sino alla pucciniana Manon Lescaut, passando per il duetto
carnale del secondo atto del verdiano Un
Ballo in Maschera. Nel frattempo, in Germania Wagner indugiava in orgasmi
in scena di 45 minuti ciascuno (secondo atto del Tristan und Isolde e terzo del Sigfried)
e rappresentava pure un lungo e complesso coito interrotto (secondo atto del Parsifal).
Il Domino Nero ruota sulla vicenda di una
fanciulla costretta al chiostro, mentre, invece, vorrebbe un giovane marito ed
ama le feste ed i balli; dopo peripezie ed equivoci (anche un soggiorno in un
bordello), tutto si sistema grazie all’intervento di una Regina tanto provvida
quanto generosa. Lo spartito, pur con tutti gli stilemi del grand opéra padano, ricorda anche la zarzuela spagnola
(appresa da Rossi in Messico e Cuba dove fece lunghi soggiorni).
Cleopatra di Lauro Rossi vista ed ascoltata nella
deliziosa sala dei Bibiena (un teatrino di 400 posti con tre ordini di palchi
ed un loggione, incardinato nel Palazzo di Città di Macerata) ha tutte le
caratteristiche del grand opéra padano. Il regista (Pier Luigi Pizzi) le ha evidenziate
con cura nonostante l’esiguità dello spazio (l’opera era stata concepita per il
Regio di Torino ed il San Carlo di Napoli). Interessante lo sviluppo
drammaturgico (tratto dalla tragedia di Shakespeare, allora di repertorio in
versioni molto tagliate): Cleopatra non è la donna vampiro del mito ma un’amante
abbandonata che va a Roma a fare una scenata al suo Marc’Antonio in procinto di
concludere un matrimonio d’interessi (politici). Sembra di essere a Piazza
Barberini (od anche a Piazza Mastai) nonostante le scene in bianco e nero ed i
costumi (in cui al bianco e nero si aggiungono il rosso ed il giallo oro)
tratteggino l’Egitto alessandrino e la Roma sulla via di diventare Impero. Per
il buon Marco D’Arenzio (autore del libretto) e per Lauro Rossi, però, il mondo
di riferimento è quello di Come le foglie
e Tristi amori di Giuseppe Giocosa.
L’Egitto e Roma servono per le danze (al primo atto mentre il grand opéra
francese le vietava prima del secondo) e come spunto per una partitura maestosa.
La protagonista ha una vocalità Falcon a metà tra soprano drammatico e
mezzo-soprano, è anche quella della borghese tradita ed inalberata. Travolto in
Italia sia dal verismo sia dai tentativi di teatro in musica favolistica, Lauro
Rossi ha avuto per diversi lustri successo nelle Americhe (dove ad esempio Gomez
e Marchetti sono ancora rappresentati
abbastanza spesso).
Andiamo a Andrea Chénier di Umberto Giordano,
tornato di recente – come si è detto - sia al Teatro dell’Opera di Roma sia al
Teatro alla Scala, due «templi della lirica» da dove mancava da decenni (ne
ricordo allestimenti tra il 1998 ed il 2006 a Bologna, Catania e Venezia oltre
che nei teatri di tradizione dell’Emilia Romagna). Il lavoro è stato sovente maltrattato
dalla critica, ma amato dal pubblico. Regge ancora nonostante la difficoltà di
trovare voci (specialmente quelle tenorili) imperniate sul registro di centro
(ma in grado di ascendere e svettare anche in tempi molto rapidi sia di
discendere delicatamente) e la macchinosità di un libretto giustamente considerato
polveroso.
Andrea
Chénier è, innanzitutto, un’opera di
voci. Ciascun dei tre protagonisti (un tenore drammatico spinto, un soprano
lirico puro ed un baritono) ha almeno due arie o romanze che possono portare
all’applauso a scena aperta e otto personaggi in ruoli minori, ma che hanno
modo e maniera di farsi valere ed apprezzare. E’ anche opera di regia (per far
rendere credibile il libretto) e di orchestra (di grandi dimensioni e tale da
contenere anticipazioni (incluso il «chiacchierar cantando») che diventeranno
fondamentali nel Novecento Storico.
E’ un esempio
di dramma storico (anzi «istorico» seguendo la dizione della versione originale
del libretto) che prende le distanze dal melodramma e si situa verso quella che
sarebbe stata la caratteristica dei «drammi in musica»: una vicenda
relativamente semplice (nel caso in questione una situazione imperniata su
differenze di classe sociale) situata in un contesto storico (dall’inizio della
rivoluzione francese ai momenti più oscuri del Terrore giacobino) trattato come
un grande affresco e, quindi, popolato di figure minori ma ciascuna con una
propria marcata personalità.
Andrea
Chénier ritorna a richiesta di un
pubblico che (come dicono le cronache cittadine di questi mesi) vuole law
and order e detesta i giacobini. In Andrea Chénier si tesse
l’elogio dell’aristocrazia (pronta a morire pur se innocente) e si condannano
senza appello i giacobini (tra cui il parvenu Gérard diventato un taglia teste
pur con il cuore buono ed il pentimento facile). La scrittura musicale e vocale
ci mette del suo: ingrandisce tanto i «buoni» (gli aristocratici ed il poeta
girondino) quanto i «cattivi» (i giacobini). Quando l’opera ebbe la prima alla
Scala il 28 marzo 1896 ci fu chi vi lesse una critica nei confronti della Sinistra
trasformista di Depretis ed il sogno del ritorno alla Destra Storica nobile e
risorgimentale.
All’epoca del debutto, nessuno avrebbe
scommesso che La Gioconda, un lavoro di Amilcare Ponchielli, a lungo
modesto direttore di banda di Cremona e maestro di cappella a Bergamo, sarebbe
rimasta nei repertori sino al XXI Secolo.
Il buon e timido Ponchielli aveva messo in musica un’opera, peraltro modesta,
tratta da I Promessi Sposi di Manzoni (anch’essa duratura: non si
rappresenta più nei teatri lirici ma è nel repertorio del teatro di marionette
dei Fratelli Colla a Milano, con la musica su nastri basata su rappresentazioni
degli Anni Quaranta del secolo scorso). L’opera I Promessi Sposi ebbe un
buon esito al Dal Verme e fece notare Ponchielli all’editore Ricordi. Dopo I
Lituani, grande successo negli ultimi lustri dell’Ottocento ma ormai
dimenticata, arrivò, su libretto di Arrigo Boito (che si nascondeva dietro lo
pseudonimo di Tobia Gorro), La Gioconda.
Il titolo non ha nulla a che vedere con il sorriso ambiguo del ritratto di
Leonardo Da Vinci. E’ un grand-guignol tratto da un drammone di Victor Hugo, che
si svolge nella Venezia di fine Cinquecento (da cui, peraltro, già Mercadante
aveva tratto un’opera - addirittura modificandone il finale da tragico a lieto).
La Gioconda è una cantante con mamma cieca a carico: si innamora del proscritto
Ezio Grimaldo, a sua volta spasimante (corrisposto) di Laura sposa del Capo
dell’Inquisizione, Alvise. La spia Barnaba desidera fare sesso con la cantante
e a tal fine esercita ogni pressione (accusando la cieca di stregoneria). Al
termine di una complicata vicenda dove vediamo il carnevale di Venezia, una
festa (con cadavere) nella Ca’ d’Oro, l’incendio di un brigantino, una morte
apparente, un tentativo di avvelenamento, un annegamento ed un suicidio, Laura
ed Ezio fuggono verso la libertà mentre tutti gli altri vengono sconfitti dal
Fato o dalla cattiveria umana. Nell’intreccio, tranne Gioconda, tutti
tradiscono tutti (proprio come nel Parlamento del «trasformismo»). Ciascuno dei
quattro atti so svolge in un luogo di Venezia, che all’epoca, date la
difficoltà di viaggiare, molti spettatori avevano sognato sulla base di
cartoline illustrate: Piazza San Marco durante il Carnevale, un naviglio
ancorato alla Riva degli Schiavoni, il salone principale della Cà d’Oro, la
casa di Gioconda in un palazzo diroccato sul canale della Giudecca.
Per un secolo e mezzo, l’opera ha
mandato il pubblico in visibilio. E’ il miglior esempio di grand opéra padano.
Ciò è merito di Ponchielli, non di Boito che, sotto pseudonimo (si vergognava,
lui raffinatissimo, di essere alle prese con un romanzaccio popolare) ne
scrisse il libretto. Il maestro cremonese era un fine orchestratore,
culturalmente vicino a quella «scapigliatura» milanese che voleva innovare. Il
suo flusso orchestrale continuo risente anche di wagnerismo cromatico ed
intriso di leitmotif (ovviamente, alla
polenta padana). La scrittura vocale richiede sei grandi voci con registri in grado
di spaziare dalle romanze e concertati tradizionali al declamato wagneriano.
Negli ultimi venti anni, se ne ricordano due buone edizioni a La Scala e
al Teatro dell’Opera di Roma. Nel 2004 un allestimento del circuito toscano
(peraltro in economia e con una discutibile regia di Micha van Hoecke) è stato
apprezzato dagli spettatori. Riappare periodicamente al Metropolitan di New
York.
L’aspetto più significativo delle edizioni da me viste di recente alla
Scala, all’Arena di Verona ed al Teatro dell’Opera di Roma è l’accento sulla
direzione musicale. La Gioconda è erroneamente ritenuta un’opera principalmente
di voci (meglio se con volumi da fare tremare i lampadari) mentre il suo
apporto migliore è la complessa e delicata orchestrazione (ad esempio, gli
accompagnamenti per arpa e fiati, il gioco astuto degli archi). In passato, per
avere «voci», i direttori artistici hanno risparmiato sui maestri concertatori
e ingaggiato mestieranti a poco prezzo. Occorre dare atto ai direttori artistici
di questi ultimi anni di non essere caduti in tale trappola.
L’ultimo allestimento che ho visto ed ascoltato ha debuttato all’Arena
di Verona nel 2005 dove le scene e la regia sembravano schiacciate dal
monumento. Lo ho rivisto e riascoltato nel 2012 a Roma dopo tappe a Barcellona,
Madrid, Bilbao, Monte Carlo, ed altrove. Il truculento intreccio era reso
credibile da una recitazione sobria e una Venezia nebbiosa, macera e decadente,
senza Piazze San Marco e Cà d’Oro in cartapesta, stilizzata da essere quasi
atemporale, dove dominano varie tonalità di bianco e grigio ed alcuni elementi
di rosso. In tal modo il miglior esempio di grand opéra padano funzionava anche
per i gusti moderni.
Il Verismo
Il 17 maggio
1890, un giovane livornese che di mestiere faceva il capo della banda
municipale di Bisceglie in Puglia, Pietro Mascagni, con un vestito stretto
preso in affitto, venne travolto da ovazioni dal pubblico, un vero e proprio
delirio, al Teatro dell’Opera di Roma. Era apparso sul palcoscenico per
ringraziare dopo il debutto di Cavalleria
Rusticana, opera in un atto che veniva messa in scena grazie ad un concorso
tra giovani compositori bandito dall’editore Sonzogno. Cavalleria Rusticana –
amava dire il caro amico e grande critico musicale Giorgio Gualerzi – avrebbe
travolto il grand opéra padano. Anche se il grand opéra padano continuò a resistere per decenni, e
spesso ci furono confluenze tra verismo di
cui Cavalleria fu il primo frutto e
ne restò il più completo. Il nuovo stile ebbe un forte impatto e dall’Italia si
trapiantò in altri Paesi, in particolare negli Stati Uniti, nonostante alcuni
musicologi rigoristi- come Carlo Parmentola - affermano che «il periodo verista in senso stretto comincia con il
trionfo di Cavalleria nel 1890 e si
conclude con quello bresciano di Madama
Butterfly nel 1904.
Cavalleria Rusticana, ed il verismo,
rispecchiavano anche un cambiamento profondo nella società e nella politica.
Governo e Parlamento, eletto ad un suffragio molto ristretto, erano ancora in
pieno trasformismo ma altre forze
politiche e sociali acquistavano protagonismo. Meno di un anno dopo il debutto
di Cavalleria, gli operai di Milano
tennero un Congresso in cui fu deciso per l’anno seguente un altro che avrebbe raccolto
«tutte le forze proletarie e rivoluzionarie»; nasceva il Partito dei Lavoratori
Italiani che due anni dopo sarebbe diventato il Partito Socialista dei
Lavoratori Italiani. L’ingresso dei socialisti (tra cui Mascagni) nell’agone
politico cambiò il contesto generale in cui evolveva il teatro d’opera
italiano. Non che l’opera diventasse un vessillo per le nuove forze politiche
(anche se Iris, sempre di Mascagni,
del 1908 contiene, accanto al gusto liberty
dell’epoca, un forte contenuto di denuncia sociale a favore degli esclusi).
Cavalleria fu la dimostrazione di come l’opera
possa trattare temi e vicende attuali, contemporanee agli spettatori ed a ciò
che essi leggevano sui giornali, e rendere protagonista «il popolo», diventare vox populi. Cavalleria ha poche
innovazioni formali (una geniale trovata è l’inserimento, nel preludio, della
serenata di Turiddu a Lola). Anzi recupera, in parte, i «numeri chiusi» che non
corrispondono, però, a forme «chiuse» ma a gruppi di situazioni trattate alcune
in forma chiusa, altre nello stile di recitativo con ariosi, spesso con
frammentazione assai minuta, quasi sempre senza soluzione di continuità. Il
musicologo austriaco Mosco Carner chiamò «strutturazione a mosaico» questo modo
di procedere. Il coro, poi, non fa mai da fondale o da cassa di risonanza: ha
quattro interventi (un canto di lavoro, una preghiera, un brindisi e l’urlo
finale). I primi tre definiscono la cultura dell’ambiente: il lavoro, il senso
religioso, l’aria di festa forzata quasi artificiale ma comunque fortemente
partecipata. La coralità è sempre spontanea. L’orchestrazione è molto curata,
con poco peso all’armonia e gran rilievo ai cromatismi. In questo quadro hanno
rilievo le voci: un tenore con un vigoroso registro di centro (come nel grand
opéra padano), un soprano drammatico in grado di scendere di registro come un
mezzo soprano, un baritono agile ma dai colori scuri, ed un soprano leggero. La
forte carica di passionalità, il prevalere della melodia sull’accompagnamento,
il canto appassionato non mancarono di essere considerati parte di una solare
individualità italiana. Il libretto, infine, utilizza espressioni prese dal linguaggio
quotidiano non arcaismi ed espressioni legate alla poesia, ponendo (ed in Cavalleria risolvendo) il problema del
rapporto tra parola e musica.
Pur avendo le
caratteristiche di un’opera tradizionale, Cavalleria
non era, e non è, riconducibile a nessun modello precedente e, dunque,
assolutamente nuova, originale e rivoluzionaria, pur se radicata nella cultura
operistica italiana. Il suo trionfo a Roma ed il successo, nel giro di pochi
mesi in tutto il mondo, nonché il suo perdurare nei repertori tra le opere più
rappresentate, fanno sì che essa stessa diventasse un modello per opere che cercavano
nella cronaca, nella «vita vera» la loro ispirazione.
Mascagni,
Leoncavallo, Giordano, Cilea ed altri meno importanti (ed in gran misura
spariti dai repertori dei maggiori teatri) vengono accumunati come i principali
autori della scuola verista. In effetti, provenivano da «scuole» differenti.
Mascagni seguì corsi di perfezionamento al Conservatorio di Milano, gli altri
avevano studiato al Conservatorio di San Pietro a Majella a Napoli. Ebbero,
però, un editore in comune, Edoardo Sonzogno mentre Puccini (da alcuni, come si
è detto, annoverato tra i veristi), restò sempre con Giulio Ricordi, con
un’eccezione (La Rondine). Amavano
chiamarsi «giovane scuola» per giustapporsi a Verdi (di cui pur si
consideravano eredi) ed al grand opéra padano (a cui, però, sia Giordano sia Cilea sia gli stessi Mascagni e
Leoncavallo pagarono più di un tributo). Quando nel 1892, l’editore Sonzogno
presentò ad una Esposizione Internazionale di Musica (un festival dei festival
del teatro in musica contemporaneo) Cavalleria
Rusticana (Mascagni), Pagliacci (Leoncavallo),
Mala Vita (Giordano), Birichino (Mugnone) e Tilda (Cilea) suscitò grande interesse.
Il critico Eduard Hanslick, uno dei più autorevoli dell’epoca, inquadrò il verismo
in un più vasto movimento di rinnovamento culturale che, in filosofia, aveva il
suo corrispettivo nel positivismo.
Pagliacci (1893) di Ruggero Leoncavallo viene
quasi sempre abbinata a Cavalleria.
Ne segue, infatti, il modello, anche se non ne ha né lo spessore né il fiato.
Tratta di un fattaccio di sesso e sangue in un villaggio calabrese che
Leoncavallo sostenne di avere visto da giovane (ma la trama è molto simile ad
una pièce francese di successo in
quegli anni La Femme du Tabarin di
Catullo Mendès). E’ scritto come una cronaca di un quotidiano di provincia e
sfoggia due tenori, uno lirico ed uno drammatico. Al tenore drammatico ed al
soprano vengono affidate parti molto ardue. Viene, a volte, rappresentata da
sola od abbinata ad un’altra opera o ad un balletto in un atto (La Scala lo ha
spesso abbinato a La Strada di Nino
Rota). Ma in termini televisivi il suo traino naturale è Cavalleria. E’ l’unica opera verista di Leoncavallo, il quale, coltissimo (anzi erudito) e più anziano
degli altri, si dedicò ad opere storiche (da grand opéra padano) ad operette, «trasformandosi» ogni volta che si rivolgeva ad un differente stile.
Anche Mascagni
nella sua vita (1863-1945) fu un «trasformista» sia politicamente sia
stilisticamente. Da socialista diventò il capo della corrente tradizionalista
alla corte di Mussolini (di cui riceveva una prebenda), ma non lo seguì dopo il
25 luglio 1943 e si collocò nella vasta area centrista. Compose alcune opere veriste ma anche un’opera buffa su modelli
goldoniani, tragedie con libretti dannunziani, ed almeno un grand opéra padano
(Nerone, al cui libretto avrebbe
collaborato lo stesso Mussolini).
Di Giordano e
del suo Andrea Chénier si è parlato.
Vale la pena di citare il suo contributo più specificatamente verista. E’
sparita dai repertori da oltre un secolo la sua opera più spiccatamente verista, Mala Vita (successivamente
re-intitolata Il Voto) che ebbe una
certa fortuna tra il 1892 e l’inizio del Novecento: una storia di buone
intenzioni che finiscono male, interamente tra i «bassi» di Napoli ed i
bordelli. Si introducono canzoni napoletane e tarantelle. I detrattori hanno
criticato il lavoro come una serie di cartoline illustrate. Stanno tornando
altre opere di stampo verista del compositore come Siberia (alcuni anni fa al Festival di Valle d’Itria ), La Cena delle Beffe (vista in due
diverse recenti produzioni a Bologna ed alla Scala) e Fedora (dopo più di dieci anni di assenza dalle programmazioni in
procinto di tornare alla Scala). Di questi titoli, a mio avviso, Fedora è il più brillante, ove non il
capolavoro assoluto del compositore. La vicenda tratta un argomento
contemporaneo all’opera (del 1898): gli attentati dei nichilisti in Russia. Il
primo atto è un «giallo» che precede quelli di Leóš Janáček (ad esempio, Il caso
Makropulos), con una struttura musicale spezzettata. In ciascun atto (il
primo a San Pietroburgo, il secondo a Parigi, il terzo in Svizzera),
l’orchestra (ed anche le voci) creano l’atmosfera. Il pezzo di bravura per il
tenore (Amor ti vieta) è un arioso
che emerge da un dialogo declamato. La
Cena delle Beffe, pur se ambientata, nella versione originale, nella
Firenze dei Medici, è così verista che
nella recente ripresa scaligera, il regista Mario Martone la ha attualizzata
all’America di Al Capone, ove non de Il
Padrino. Siberia del 1903 ebbe
tanto successo che all’inizio del Novecento aprì a Giordano le porte dell’Opéra
di Parigi, onore che sino ad allora, era stato tributato solo a Verdi; oggi ha
un sapore stantio.
Al pari di
Giordano, Francesco Cilea è in bilico tra grand opéra padano e verismo. La sua opera ancora più rappresentata (Adriana Lecouvreur del 1902 )
si basa su un personaggio storico e, al pari di Andrea Chénier, richiede un grande allestimento in quattro tableau con balli e numerosi personaggi minori. La meno rappresentata L’Arlesiana del 1897 tiene apertamente
conto delle lezioni di Cavalleria.
Ambedue devono il loro successo iniziale ad Enrico Caruso, tenore la cui voci
era perfetta per il verismo.
Come detto, il verismo tramontò, in Italia, dopo la Prima
Guerra Mondiale ed in particolare durante il fascismo. Ne La Nuova Antologia Vol. 617 Fasc. 2279, si è documentato come
Mussolini, considerandosi lui stesso musicista poiché strimpellava il violino,
fu forse l’unico governante che diede all’Italia una politica musicale. Era
attratto dalla musica sperimentale che veniva del resto d’Europa, organizzò il
primo festival internazionale di musica contemporanea (dove invitò tutti i
compositi messi al bando nel Reich tedesco).
Mantenne Mascagni e Cilea alla propria corte e li coprì di onori perché
piacevano al pubblico tanto da collaborare con il primo per Nerone ma il suo cuore batteva per gli
innovatori come Casella, Dallapiccola e Malipiero e, tra gli stranieri,
soprattutto Stravinskij. Era anche finito, pour cause, il «trasformismo» parlamentare. Perché il Parlamento non
esisteva più.
Effetti del gran Opéra padano e del verismo sulla
musica di altri Paesi.
Ciò non vuol
dire che grand opéra padano e verismo siano spariti. Non solo i titoli di
migliore qualità o che più continuavano, e continuano, a piacere al pubblico
restarono, e restano, sempre in
repertorio ma tanto il grand opéra padano
quanto il verismo ebbero un
notevole impatto sull’evoluzione dell’opera altrove, soprattutto nelle
Americhe. Nel contesto di questo articolo si può fare solo un cenno, anche in
quanto pochi titoli di teatro in musica americano contemporaneo si vedono in
Italia. In tempi recenti, ricordo solo A
Streetcar Named Desire di André Previn al Regio di Torino, The Death of Klinghoffer di John Adams
al Teatro Comunale di Ferrara, A View
from the Bridge di William Bolcom e I
was looking for the sky and then I saw the ceiling di John Adams al Teatro
dell’Opera di Roma.
L’opera scelta per
l’inaugurazione della sede attuale del Metropolitan al Lincoln Centre di New
York nel 1966 (Anthony and Cleopatra
di Samuel Barber) e proposta alcuni anni fa al Teatro Nuovo di Spoleto è
certamente figlia del grand opéra padano.
Si riallaccia al grand opéra padano anche il compositore napoletano
contemporaneo (deceduto nel 2009), ma di cultura parigina-milanese (e per
decenni critico musicale dell’Osservatore
Romano), Antonio Braga: 1492, Epopea Lirica d’America, una commissione
dell’Opera di Santo Domingo per i cinquecento anni dalla scoperta dell’America,
ancora spesso in scena oltreoceano. In Italia, le opere Beatrice Cenci (1942) e Madame
Bovary (1955) di Guido Pannain (compositore quanto mai eclettico) risentono
del grand opéra padano.
Molto più
incisivo l’impatto del verismo. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Uno sguardo dal ponte di Renzo
Rossellini (noto soprattutto per le sue colonne sonore e come critico musicale)
può essere considerata un’opera verista. Così è stata vista da alcuni critici La Ciociara di Marco Tutino,
commissionata non da un teatro italiano (si è vista ed ascoltata al Teatro
Lirico di Cagliari nel 2017) ma dal War Memorial Opera House di San Francisco
dove ha debuttato nel 2015. Sempre di Marco Tutino, Senso (vista ed ascoltata al Teatro Massimo di Palermo nel 2013) e Federico II (commissionata dal Teatro di
Bonn ma vista ed ascoltata in Italia al Teatro Pergolesi di Jesi nel 2004)
risentono sia del grand opéra padano sia
del verismo.
E’ soprattutto
negli Stati Uniti che il verismo ha
avuto un impatto profondo e di lungo periodo. Rigorosamente veriste sono le due maggiori opera di Gian
Carlo Menotti (The Consul e The Saint of Bleecker Street), e molte
delle altre; per quanto concepite negli USA e per un pubblico americano hanno
avuto una certa circuitazione anche in Italia. Sono lavori degli Anni Cinquanta
e per un pubblico americano. Ma già negli Anni Trenta, quelle che il musicologo
statunitense Ethan Mordden considera «le due prime opere americane di merito» (Porgy and Bess di George Gershwin e Four Saints in Thee Acts di Virgil
Thompson su libretto di Gertrud Stein) sono intrise di verismo. Sempre il duo
Thompson-Stein sforna, nel 1947, The
Mother of Us All, sulla suffragetta Susan B. Anthony, dove il verismo è fuso con un fortissimo senso del
ritmo.
Di impianto
strettamente verista sono le opere di
Carlisle Floyd, numerose tratte da romanzi di successo e che hanno inspirato
anche film, come Willie Stark del
1980. Basata su All the King’s Men di
Robert Penn Warren, l’opera racconta l'ascesa e le difficoltà di Willie Stark,
un uomo onesto che decide di scendere in politica, ma perde progressivamente la
sua integrità morale, con conseguenze devastanti soprattutto nella vita
privata; alla fine, la sequenza di bugie, inganni e tradimenti gli costeranno
la vita. La trama è ispirata alla vita di Huey Long, un politico realmente
esistito degli Anni Trenta. Un aspetto importante della vicenda è il «trasformismo» che in un sistema federale e
presidenziale come quello americano ha caratteristiche differenti da quelle
prevalenti nei sistemi parlamentari europei. L’opera, come i due film ispirati
dal libro (il primo ha avuto l’Oscar come miglior film del 1950), si svolge uno
degli Stati dell’Unione, la Louisiana, dove l’elezione del Governatore e i
lavori dell’Assemblea legislativa più assomigliano ai sistemi dell’Europa
continentale. Di assoluto rilievo, con stilemi veristi, Dead Man Walking di Jacke Heggie, tratta da un fatto di cronaca
nera che ha ispirato un romanzo ed un film; ha debuttato nel 2000 con grande
successo a San Francisco e si è vista ed ascoltata, oltre che negli Stati Uniti
ed in Canada, a Vienna, Dresda , Parigi ed altri teatri europei, ma non è mai
giunta in Italia in rappresentazioni dal vivo (è apparsa in canali televisivi
specializzati in musica classica).
Due tra le
principali opere del compositore John Adams considerato un «minimalista» specialmente
per i suoi lavori più recenti (quali I
was looking for the sky and then I saw the ceiling), Nixon in China (1987) e The
Death of Klinghoffer (1991), pur non seguendo canoni del verismo di fine Ottocento- inizio Novecento ed
utilizzando anche strumentazione elettronica, hanno aspetti (l’argomento contemporaneo,
il ruolo del coro, specialmente in The
Death of Klinghoffer, il grande organico orchestrale) che rispecchiano la
sintassi del verismo.
Si potrebbe andare oltre, ma si tratterebbe di pura erudizione di poco
interesse per i lettori italiani. Questo cenno credo sia sufficiente per
smentire l’ipotesi di una breve durata del verismo – da Cavalleria Rusticana a Madama
Butterfly - con «qualche» opera successivamente.
Conclusioni
Non è certamente
possibile fare una correlazione matematica tra «trasformismo», da un lato, e
grand opéra padano e verismo, dall’altro. Un nesso, tuttavia, pare chiaro.
Quando la politica non è più basata su contrapposizione tra differenti weltanschauung e diventa un mero gioco
di potere in cui i cambiamenti di schieramento rispecchiano, in grande misura,
ambizioni ed interessi personali il teatro in musica va verso il grand opéra in
cui i tradimenti ed i particolarismi vengono mostrati in mondi lontani (nel
tempo o nello spazio) e nel verismo ispirato alla cronaca quotidiana (anche
politica, come nel caso di alcune opere americane citate). Tutte le espressioni
artistiche hanno un nesso con la politica del loro tempo. Ma, come visto in
precedenti articoli de «La Nuova Antologia», per il teatro in musica appare
particolarmente forte ed eloquente.
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