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TASSE/ Il “complotto” contro Renzi (e quello contro le famiglie)
Pubblicazione: lunedì 27 luglio 2015
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NEWS Economia e Finanza
Dato che i suoi indici di popolarità sono in calo, Matteo
Renzi ha lanciato da Milano, all’improvviso, l’ipotesi di un piano pluriennale
per ridurre le imposte, iniziando da quelle sulla prima casa, nell’arco dei
prossimi tre esercizi finanziari, così da ridurre la pressione fiscale di 55-80
miliardi di euro.
È un programma, per ora delineato in termini molto
generali, che deve essere preso sul serio. In queste settimane, è andato a ruba
un libretto, gustosamente illustrato da Vincino, del centro studi ImpresaLavoro
E io pago, in cui 17 esperti dei più differenti ambiti della cultura e
delle professioni (non solo economisti) denunciano la vera e propria
“oppressione fiscale” che schiaccia l’Italia. Tuttavia, il programma deve
essere specificato e quantizzato nei dettagli, anche per non dare adito a
illazioni (provenienti proprio da “ambienti di Palazzo Chigi”) che potrebbero
rendere l’intera operazione inefficace e inefficiente - farla anzi diventare un
‘boomerang’ nei confronti del Governo.
Un programma di tali dimensioni si finanzia: a) o
aumentando il disavanzo di esercizio e il debito pubblico; b) o incrementando
altre tasse e imposte; c) o riducendo la spesa pubblica. Il metodo a) ci è
praticamente vietato dai Trattati europei; nonostante gli sforzi del Governo,
l’Italia ha ottenuto pochissima flessibilità a riguardo. Come è d’uopo in
un’unione monetaria. Fu il metodo - vale la pena ricordarlo - applicato negli
Usa dalla prima Amministrazione Reagan; una conseguenza fu un forte
deprezzamento del dollaro. A noi ciò è chiaramente precluso; potremo, al più, ottenere
di superare temporaneamente e per solo qualche decimale il vincolo secondo cui
l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni non possa superare il 3% del
Pil se il superamento è necessario per investimenti quali quelli del Piano
Juncker.
Il metodo c) dipende dalla spending review che sinora
non ha dato grandi risultati, nonostante il susseguirsi di commissari.
Tuttavia, molto si può fare in materia di riduzione della spesa di parte
corrente. Non tanto sulla base delle 72 pagine di Executive Summary stilate da
Carlo Cottarelli in persona e le 721 dei rapporti dei gruppi di lavoro all’uopo
istituiti, documenti dove non mancano buone idee ma prive di metodo. In Italia
tale metodo è stato introdotto nel 1982 in via sperimentale per una piccola
parte dell’investimento pubblico. Nel 1985 e nel 1991 l’allora ministero del
Bilancio ha pubblicato, con il Poligrafico dello Stato, manuali,
successivamente aggiornati dall’Uval (l’unità di valutazione che ha avuto
differenti collocazioni istituzionali). Nel 2006, la Scuola Superiore della
Pubblica amministrazione ha pubblicato un’aggiornata guida operativa. Nel 2012,
il Cnel ha approvato un documento di osservazioni e proposte per aggiornare i
parametri di valutazione a una fase di crescita lenta ove non di stagnazione.
In parallelo con questa letteratura “ufficiale” c’è
stato un rigoglio di testi privati anche a ragione delle attività
dell’Associazione italiana di valutazione e della rivista e collana di libri
pubblicati dal sodalizio. Dal 1999 una legge ricalca la normativa americana che
richiede analisi costi benefici per ciascuna legge di spesa. Ma non viene
applicata. Non è stato neanche adottato, pur se proposto, il méthode des
choix budegettaires che negli anni Ottanta in Francia ha permesso di
mettere ordine nella spesa e, quindi, di giungere al Trattato del Louvre sulla
parità di cambio tra franco francese e marco tedesco.
Esiste comunque quindi, un metodo forte e diffuso:
sino al 2008, quando la Scuola di Pubblica amministrazione (Snpa) ha deciso di
non proseguire su questa linea. La Snpa ha tenuto circa 300 corsi di formazione
per funzionari e dirigenti a carattere sia polivalente che per settori
specifici (beni culturali, istruzione, agricoltura, trasporti e via
discorrendo). Dunque, c’è anche il personale formato, almeno nella metodica di
base. In via sperimentale, poi, il ministero dell’Economia e delle Finanze, la
Fondazione Ugo Bordoni e altri hanno affrontato metodiche più avanzate. Quindi,
c’è un terreno su cui costruire, se si vuole. Ma non darà risultato in tempi
brevi. E l’orizzonte temporale di Renzi è la primavera 2018.
Quindi si andrà verosimilmente al metodo b) - un po’
il “gioco delle tre carte” utilizzato nel recente passato. Ora, però, le
autonomie non sono pronte ad alzare balzelli locali per compensare la mancanza
di gettito derivante dalle riduzioni tributarie per assicurare a Renzi un nuovo
lungo soggiorno a Palazzo Chigi.
L’idea è di re-introdurre la “tassa sul morto”
(l’imposta di successione) sui ceti medi abbassando la franchigia (ora un
milione di euro) a 200 mila euro e portando l’aliquota al 20% (ora la più
elevata è l’8% per lasciti a terzi con cui non si è lontanamente
imparentati). Nessuno ha detto a Renzi che quando tale tassa era in vigore
i costi di esazione superavano il gettito: alla “vittima designata” (Renzi
sappia che tale lo considerano non solo l’opposizione interna al Pd ma anche
numerosi suoi “amici”) certe cose è meglio non farle sapere. Infatti, le bozze
di provvedimenti sulla “tassa sul morto” stanno diventando l’arma in mano ai
complottatori.
L’idea è stata partorita da emuli di Thomas Piketty in
quel di Tor Vergata, i quali però non hanno tenuto conto né degli aspetti
“deboli” nel pensiero e nei numeri del loro “maestro”, né delle implicazioni.
In primo luogo, l’ultimo rapporto Istat alla mano dimostra che in un’Italia che
invecchia anziani e pensionati sono la principale fonte di risparmio (per
proteggere figli e nipoti) e che il 25% delle pensioni dei ceti medi viene
destinato a costituire previdenze integrative o altri supporti per le giovani
generazioni - proprio quelle che Renzi dice di voler tutelare e che sarebbero
le più colpite dalla sua proposta. Sarebbe un colpo durissimo alle famiglie, su
cui Renzi dice di appoggiare il proprio consenso elettorale.
In secondo luogo, nei paesi in cui la “tassa sul
morto” è stata re-introdotta e portata ai livelli elevatissimi (i maggiori
nell’Ue) di cui si parla, capitali e investimenti sono corsi all’estero, con le
conseguenze che si possono immaginare su crescita e occupazione. In breve,
sarebbe uno schiaffo a Franco Modigliani che teorizzo il “ciclo vitale del
risparmio”. Circolano aliquote e soglie di franchigia anche sulla stampa.
Presumibilmente per dare modo a chi può di trasferire i risparmi all’estero.
Perché tanto accanimento contro il povero Modigliani?
Qualcuno al Nazareno ha letto un libretto edito circa vent’anni fa da Vallecchi
di Firenze Dialogo tra un Professore e la Banca d’Italia - Modigliani,
Carli e Baffi di Paolo Peluffo, Consigliere della Corte di Conti di
sede proprio nella città del Giglio? Nel libro si racconta come venne creato
quel modello econometrico della Banca d’Italia che causa tante puntatine di
spillo all’Esecutivo. Unitamente al teorema sul ciclo vitale (che mette a
repentaglio tagli e tasse, specialmente se sul morto) ce ne è abbastanza per
chiedersi perché questo Unitalian si fregi di un Nobel che
dovrebbe essere rottamato.
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