lunedì 1 marzo 2010

Qualche domanda per il “dopo crisi” marzo 1

Come si va oltre il Pil? E come si cambia modello di sviluppo?
Qualche domanda
per il “dopo crisi”
di Giuseppe Pennisi La più recente tornata di dati macro-economici (Economist Intelligence Unit del 27 febbraio) indica che nel 2010 gli Usa cresceranno al tasso del 3%, il Canada del 2,7%, la Cina del 9,6%, l’India del 7,6% e l’area dell’euro all’1,4%. Il “dopo crisi”, quindi, è già cominciato. Non si tratta però di tornare al “prima della crisi”. Emergono due considerazioni e tre interrogativi per i decision maker:La prima considerazione, a carattere più generale, interessa il mondo intero e riguarda come andare “oltre il Pil” come misura di benessere nazionale. È un argomento su cui esiste una vera e propria industria di letteratura economica (e non solo).La seconda considerazione, a carattere principalmente europeo, riguarda come andare da un modello di sviluppo che dalla fine della seconda guerra mondiale ha fatto perno sulla crescita trainata dall’export (e, quindi, ha ipotizzato crescenti disavanzi dei conti con l’estero Usa e saldi attivi, invece, in quelli dell’Europa con il resto del mondo) a un modello di crescita basato invece sulla soddisfazione di bisogni collettivi interni all’Europa (infrastrutture, ambiente, capitale umano, salute, cultura, tutela del patrimonio di beni culturali e del paesaggio) e del miglioramento sostenibile dei tenori di vita, quindi, della qualità della vita.Un’ampia rassegna dei tentativi per andare “oltre il Pil” è stata pubblicata da Marc Fleurbeay delle Università di Parigi “Descartes” e di Lovanio nel Journal of Economic Literature No 47:4 pp. 1029-1075; rappresenta, a mio avviso, il meglio di quanto disponibile in un mercato spesso caratterizzato da saggistica approssimativa. Una sintesi efficace del secondo punto è nel breve ma eloquente saggio di Paolo Guerrieri e Pier Carlo Padoan L’Economia Europea edito da Il Mulino. I due lavori sembrano distanti sia in termini di approccio (una rigorosa rassegna della letteratura, oltre 400 titoli, il primo; un pamphlet volutamente divulgativo per smuovere i decision maker il secondo) sia in termini di conclusioni ( problematico il primo sulle caratteristiche delle “serie alternative al Pil che sarebbero alle porte; più definitivo nelle sue conclusioni il secondo).Hanno, soprattutto, un punto di congiunzione che riguarda sia i Governi sia le imprese: nel “dopo crisi”: in linea con un affinamento della definizione e del mondo di computare il Pil che tenga conto di tre scuole di pensiero (l’economia del benessere, l’economia delle libertà, ed il perfezionismo contabile), l’accento è delle politiche pubbliche e delle operazioni delle “intraprese private” dovrà essere sul medio e sul lungo periodo e non più sul breve periodo (che pare avere caratterizzato gli ultimi lustri). Ciò ha una conseguenza implicita per di cui non credo ci sia ancora piena consapevolezza: come valutare politiche, strategie ed investimenti a lungo termine, specialmente quelli caratterizzati da un lungo periodo di gestazione prima di fornire flussi di ricavi all’impresa e/o di benefici alla collettività.Emergono questi spunti di riflessione:Primo: le politiche e gli investimenti aziendali devono remunerare gli investitori a un tasso che non sia inferiore al costo opportunità del capitale. Quali misure adottare quando una politica o un investimento abbia un valore economico per la collettività nel lungo periodo ( una gamma di investimenti che va dalla tutela del patrimonio artistico e paesaggistico alla televisione digitale terrestre), ma che potrebbe avere risultati insoddisfacenti nel breve periodo? In passato, il divario veniva colmato da varie forme e guise di aiuto di Stato – oggi non più contemplabile a ragione non solo della normativa Ue ma anche dei vincoli di bilancio. Occorre, quindi, pensare a colmare il divario con la regolazione; nazionale od europea? I grandi investimenti europei – ad esempio le reti trans-europee – non dovrebbero essere il grimaldello per una regolazione europea?Secondo: le politiche e gli investimenti pubblici (a supporto del miglioramento della qualità della vita) avranno effetti anche sulle generazioni future, che in molti casi ne saranno le principali beneficiarie. Ciò solleva due ordini di interrogativi. In primo luogo, secondo Ocse e Banca mondiale, il tasso di attualizzazione utilizzato per valutare l’investimento pubblico in molti paesi Ue (a lungo la Francia è stata un’eccezione) e dalla Commissione Europea riflette il vincoli di bilancio pubblico e misura il declino del valore sociale delle risorse pubbliche liberamente utilizzabili. Non è il caso di seguire invece la più antica proposta di Dasgupta-Sen-Marglin di scegliere un tasso di attualizzazione che rispecchi il tasso d’interesse sui consumi? Secondo stime disponibili (anche da me effettuate) il primo approccio comporta un tasso di attualizzazione sull’8%, il secondo sul 2,5%; il primo non “cattura” quindi costi e benefici alla collettività nel lungo periodo. Né l’uno né l’altro, poi, “catturano” costi e benefici alle generazioni future: due scuole si confrontano su “come farlo”, ambedue sono cariche d’implicazioni di politica pubblica. Non è il caso di promuovere un’intesa a livello europeo?Terzo: le metodologie di analisi delle politiche e degli investimenti , anche privati, hanno posto l’accento sin dagli Anni Settanta su come coniugare efficienza (intensa nel senso di redditività) con efficacia (intensa nel senso di distribuzione del reddito e, in un secondo tempo, delle opportunità). In materia si sono sviluppati metodi, tecniche e procedure basate sulle “ponderazioni variabili” dei costi e dei benefici a seconda dei livelli di reddito o di consumo delle varie categorie di soggetti coinvolti nell’”intrapresa”. Nel ventunesimo secolo, e in paesi avanzati a economia di mercato, l’enfasi si deve spostare a come coniugare il breve e medio con il lungo termine. Dato che previsioni e scenari (specialmente se contro fattuali) a lungo termine, sono ardui da costruire con un grado realistico di accuratezza, non è il caso di spostare l’accento dall’analisi del rischio all’analisi dell’incertezza?

1 marzo 2010

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