CLT - Opera, torna in Italia il “Mefistofele” (con spinello) di Boito
Roma, 17 mar (Velino) - Torna dopo decenni sui palcoscenici del nostro Paese “Mefistofele”, l’unica opera completata da Arrigo Boito (1842-1918) che sembrava definitivamente uscita dai cartelloni dei teatri italiani. Nonostante sia di frequente allestito all’estero, negli ultimi venti anni in Italia “Mefistofele” è stato visto ed ascoltato solo sei volte: alla Scala, a Genova, a Macerata, a Torino (dove peraltro non è stato curato un nuovo allestimento, ma ne è stata importata una produzione del War Memorial Opera di San Francisco), a Chieti e a Palermo. Nel 2005 Riccardo Muti ne ha diretto una versione in forma di concerto al Ravenna Festival e nel 2009 Antonio Pappano ha presentato il “Prologo in Cielo” nella stagione dei concerti dell’Accademia di Santa Cecilia. Uno dei più noti critici d’inizio Novecento, Gustav Kobbe, autore di una monumentale enciclopedia dell’opera ancora periodicamente aggiornata, ha scritto profeticamente che “Mefistofele” è “una delle opere più profonde del repertorio lirico ed una delle più belle partiture mai scritte in Italia, pur se raramente rappresentata nel Paese d’origine”. Più di recente, Guido Salvetti l’ha definita “inimitabile” e ha sottolineato quanto Puccini e Giordano siano tributari di questo “unicum ancor oggi problematico e controverso”. Cosa spiega il ritorno di “Mefistofele” in questo primo scorcio di XXI secolo? Le determinanti musicali relative alla riscoperta del capolavoro perduto, o secondo alcuni “maledetto”, si accavallano su determinanti politiche ed economiche.
“Mefistofele è l’unica, tra le tante opere ispirate dal “Faust” di Goethe, che si pone l’obiettivo di mettere in musica sia la prima sia la seconda parte degli oltre dodicimila versi. Intende dare corpo non tanto alla vicenda passionale trattata, ad esempio, da Gounod, (tra Faust ringiovanito grazie al patto con il diavolo Mefistofele e l’innocente Margherita), ma alla ricerca del significato della vita, da trovarsi grazie alla Fede. È un lavoro monumentale in cui si spazia da un prologo in Cielo, alla Germania del Medioevo, dall’orgia dei diavoli all’Inferno, alla Grecia classica fino ad approdare alla catarsi finale. La versione iniziale (presentata alla Scala nel 1868) durava circa sei ore. Si esegue di norma quella rivista dallo stesso Boito per Bologna (1875) di circa tre ore e mezzo, intervalli compresi. Rompe tutti i canoni dell’opera italiana della seconda metà dell’Ottocento. La partitura è ardita (specialmente se giudicata nel contesto dei teatri italiani del 1868-80, dominati dal melodramma verdiano e, anzi, dagli epigoni del maestro di Busseto). È un vero e proprio strappo con una tradizione musicale allora isolata dalle correnti europee: introduce nell’opera italiana lezioni tratte da Beethoven e da Wagner, nonché da Chopin e da Schubert. In effetti, mentre i francesi (Gounod nel “Faust” e Berlioz ne “La damnation de Faust”) hanno dato una lettura perbenistica, ove non moralistica, del mito, il senso del capolavoro di Goethe è stato colto bene nella sinfonica tedesca (la “Faust symponie” di Liszt, l’“Ouverture Faust” di Wagner, l’“Ottavia Sinfonia” di Mahler), ma solo due compositori italiani sono riusciti, in modo molto differente, a portarlo in scena recependo alcuni dei messaggi essenziali del poeta di Weimar: Arrigo Boito, per l’appunto, con “Mefistofele” (nel 1868-1875) e Ferruccio Busoni in “Doktor Faust” (nel 1925), tratto, peraltro, da Marlowe piuttosto che da Goethe.
Tuttavia, non solo Boito, leader del movimento culturale milanese che sul finire dell’Ottocento faceva riferimento alla “Scapigliatura” come elemento di distinzione dall’intellighenzia dominante, ha avuto l’ambizione di ridurre in teatro in musica il succo del capolavoro di Goethe, ma lo ha intitolato non al vecchio scienziato, Faust, che stringe un patto con il diavolo, ma al dèmone: Mefistofele. Non è mero sotterfugio dipingere le due anime di Mefistofele (e dare loro significato universale astorico), così come Goethe era penetrato nelle due anime di Faust (e aveva dato loro significato universale ed astorico). In un passaggio importante del lavoro di Goethe, peraltro, non ripreso in nessuna delle versioni in dramma in musica, Faust parla e a lungo, delle sue due anime che lo tirano in due direzioni opposte e non conciliabili. Boito, rivoluzionario come lo può essere un conservatore della Destra storica (legato, inoltre, per un decennio ad Eleonora Duse) nell’epoca in cui, prima, si preparava e, poi, si attuava, il trasformismo dei governi Depetris, vuole invece scavare nelle due anime di Mefistofele: il più bello, il più intelligente, il più ambizioso degli angeli, respinto dal Cielo perché sfida Dio (prologo) e impegnato a dannare il più saggio degli uomini, Faust, portandolo a sedurre la più innocente delle donne, Margherita, e a partecipare alla più sfrenata delle orge (primo e secondo atto), a farla condannare al patibolo per matricidio ed infanticidio (terzo atto), a dargli la possibilità di fornicare con la più avvenente e più peccaminosa delle regine, Elena di Troia (quarto atto). È, però, distrutto, anzi annientato, dal pentimento di Faust e dalla commiserazione celeste (epilogo). Scavare nelle due anime di Mefistofele, una tesa versa una bellezza e un’ambizione che si trasformano da Bene in Male proprio perché senza freni e senza limiti, e una tesa invece verso la corruzione (altrui) e verso la dannazione eterna (propria), ha aspetti sia filosofici, sia politici, sia economici.
Sotto il profilo filosofico, lo evidenziarono il musicologo americano Gwin Morris e il basso Norman Triegle in alcuni scritti d’inizio anni Settanta, quando “Mefistofele” venne allestito dalla New York City Opera in una produzione che riscosse un successo che fece impallidire Broadway e portata in tournée in diversi stati Usa, il lavoro vuole rappresentare l’eterna tensione tra il Bene ed il Male, con la vittoria finale del primo. Anche “Nerone”, seconda opera di Boito che non riuscì mai a completare nonostante ci avesse cominciato a lavorare sin dal 1865, riprendeva questo tema giustapponendo la decadenza romana con l’alba del Cristianesimo. Il confronto, si badi bene, è molto più diretto di quelli tra “falchi” e “colombe” o tra “erodiani” e “zeloti” del “Don Giovanni”: non riguarda solamente le “regole” (e i tempi e i modi della modernizzazione), ma l’essenza stessa del significato della vita e della trascendenza. Mentre, tra “falchi” e “colombe” o tra “zeloti” ed “erodiani”, un punto di incontro e di compromesso si può trovare, le due anime di Mefistofele sono inconciliabili. Nell’attuale contesto politico-sociale italiano le due anime di Mefistofele sono al centro delle tensioni che caratterizzano il tentativo in atto da circa un ventennio di cambiare le regole. Non solo quelle scritte, esplicite, ma soprattutto quelle (molto più cogenti) non scritte, implicite, tali da plasmare i comportamenti degli agenti economici (individui, famiglie, imprese, pubbliche amministrazioni). Lo diceva quel “briccone” di Boito a un’Italia politica che viaggiava verso il trasformismo e ad un’Italia musicale che si rintanava nel melodramma tardo verdiano, chiudendosi all’innovazione (ove non rivoluzione) che veniva dall’altra parte delle Alpi.
Per quanto riguarda lo spettacolo, “Mefistofele” richiede enormi mezzi scenico-vocali e grande fantasia. La seconda non è mancata né nella ricca edizione vista nel 2009 al Teatro Massimo di Palermo, né in quella che partendo da un teatro considerato minore della Grande Mela (la New York City Opera) fece il giro negli Usa nella seconda metà degli anni Settanta con un’edizione necessariamente poco spettacolare. Il Teatro dell’Opera di Roma è in serie difficoltà finanziarie. Quindi punta a un tentativo originale: una scena unica (molto simile a quella del “Guglielmo Tell” scaligero di tre lustri orsono) integrata con proiezioni computerizzate di bozzetti predisposti da Camillo Parravicini negli anni Cinquanta per uno spettacolo mai realizzato. I bozzetti di Parravicini sono integrati con altro materiale chiaramente più recente. L’effetto complessivo è buono pur se ci sono tre difetti: la regia di Filippo Crivelli è adatta a un romanzo televisivo anni Sessanta, tanto edificante da essere quasi per educande, privo dell’atmosfera macera e peccaminosa intrinseca nell’opera (nell’orgia il massimo della trasgressione sono i diavoli e le diavolesse che fumano gli spinelli); il tenore che interpreta Faust, Stuart Niell, non ha il fisico del ruolo ed è goffo in scena; la mancanza di sovrattitoli, essenziali per un’opera poco nota e complessa, che si sarebbero potuti noleggiare dall’edizione di Palermo. Sotto il profilo musicale, gli elogi vanno a tre elementi: Renato Palumbo e l’orchestra hanno sprigionato il senso dell’ardua partitura, dandole il colore adatto per fondere il leit motive e il sinfonismo wagneriana con la tradizione melodica del melodramma italiano; i due cori, quello del Teatro diretto da Andrea Giorgi e quello di voci bianche guidato da José Maria Sciutta, veri co-protagonisti del lavoro; Orlin Anastassov nel ruolo del protagonista, dal timbro chiarissimo e perfetto attore (anche se la dizione era imprecisa nel registro di centro – una ragione in più per avere sovrattitoli). Stuart Neill non solo è goffo, ma ha spesso cantato in falsetto, con esiti non positivi specialmente nell’aria iniziale, nel quartetto del secondo atto e nel duetto del terzo. Amarilli Nizza ha lasciato a desiderare nel quartetto ma si è ripresa nella scena della prigione e nel quarto atto: dovrebbe curare maggiormente i ruoli che sceglie e forse ridurre gli impegni per non affaticare la voce.
(Hans Sachs) 17 mar 2010 15:39
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