L'Europa prepara l'agenda 2020:
il ruolo italiano e i nodi irrisolti
di Giuseppe Pennisi A fine marzo i capi di Stato e di Governo dell’Unione europea inizieranno l’esame di un documento diramato dalla Commissione Europa il 3 marzo. È un documento snello (aspetto insolito per i prodotti degli uffici dell’Esecutivo di stanza a Bruxelles) e a cui la stampa quotidiana ha dato poca attenzione, anche e soprattutto in quanto diffuso proprio nei giorni più caldi della polemica sulla presentazione delle liste per le elezioni regionali. L’esame dovrà essere concluso entro il Consiglio Europeo di giugno.
Le trenta pagine a stampa fitta meritano, invece, di essere meditate per tre ragioni: perché costituiscono, in effetti, le linee direttive per la strategia di crescita dell’Ue, sostituendo, in effetti, sia quelle varate a Lisbona nel marzo 2000 sia il loro aggiornamento nel 2005; perché mentre nella messa a punto di quella che possiamo chiamare “la strategia di Lisbona n. 1” , l’Italia ha avuto un ruolo secondario – ne ha avuto uno maggiore nella “strategia di Lisbona n.2” del 2005 – “Europa 2020” tiene in gran misura conto delle proposte inviate dall’Italia a Bruxelles a fine gennaio 2010; e perché ci sono, tuttavia, alcuni nodi che, ci auguriamo, vengano sciolti nei prossimi tre mesi. Già all’inizio di febbraio, questo webmagazine aveva suggerito che nel delineare la strategia di crescita, la Commissione partisse delle proposte italiane.
Veniamo, innanzitutto, ai lineamenti del documento. Gli obiettivi non sono più tanto roboanti quanto irrealistici come quelli del 2000 (non smentiti nel 2005) – fare diventare l’Ue l’area più dinamica dell’economia internazionale entro il 2010. Gli strumenti non prevedono più come nelle due versioni dei testi di Lisbona, una batteria di indicatori statistici (ridotti, ma pur sempre eccessivi, nel 2005).
Si propone, da un lato, una crescita sostenibile sotto il profilo ambientale e, dall’altro, un forte accento sul capitale umano. Sotto il primo profilo, il documento dà priorità a: sostenere le industrie a basse emissioni di CO2, investire nello sviluppo di nuovi prodotti, promuovere l'economia digitale e modernizzare l'istruzione e la formazione.
Sotto il secondo profilo, la Commissione propone inoltre cinque obiettivi quantitativi, compreso l'innalzamento del tasso di occupazione ad almeno il 75% dall'attuale 69% e l'aumento della spesa per ricerca e sviluppo al 3% del prodotto interno lordo. Attualmente quest'ultima rappresenta soltanto il 2% del Pil, un livello di gran lunga inferiore a quello di Usa e Giappone.. Nel campo dell'istruzione, il documento propone di portare il tasso di abbandono scolastico al di sotto del 10% (dall'attuale 15%) e accrescere in maniera significativa (dal 31% al 40%) la percentuale dei giovani trentenni con un'istruzione universitaria.
Sono obiettivi ineccepibili. E tale è il “monitoraggio” delle politiche, non di una gamma eccessivamente vasta di indicatori (spesso di dubbia qualità e di ancor più dubbio significato) . In sostanza un “monitoraggio” a quello che viene fatto dall’Ue in materia di finanza pubblica.
Ci sono, però, due punti importanti delle proposte italiane che, nei mesi tra la presentazione del documento al Consiglio Europeo e la sua approvazione definitiva, devono essere meditati con attenzione. Non perché rispecchino interessi di bottega dell’Italia ma perché corrispondono alle esigenze di gran parte degli Stati membri dell’Ue (e dei loro cittadini): la necessità di porre l’accento sul ruolo delle piccole e medie imprese nello sviluppo dell’Europa del 21simo secolo; e la necessità di porre l’accento sulle “reti” trans europee non solo fisiche ma anche immateriali, come la banda larga.
10 marzo 2010
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