Derivati: e se mutuassimo la regolazione dalla Cina popolare?
Roma, 16 mar (Velino) - Credit default swaps (Cds) e Hedge funds (Hf) sono sul banco degli accusati: in questi giorni in sede europea e tra qualche settimana lo saranno alla riunione primaverile del Fondo monetario internazionale (Fmi) dove la loro ri-regolamentazione sarà uno dei temi principali dell’agenda di ministri e di Governatori di Banche centrali. Sono sul tappeto le proposte più varie e più variegate: ad esempio, troneggia sulle scrivanie del Tesoro Usa (alcuni dicono anche su quelle della Casa Bianca), un volume, appena arrivato nelle librerie, di Mark Hsiao della Università di Londra (Financial Regulations and Derivatives, Trust and Securitisation in China, Carswell Thomas Reuter) in cui si propone, in linguaggio piano e chiaro, che gli Stati Uniti (e gli altri) prendano esempio dalla regolazione in atto nella Repubblica Popolare Cinese, dopo un faticoso percorso iniziato negli Anni 80 (e peraltro in corso). Una lettura attenta del testo suggerisce che nella Repubblica Popolare si tenta di coniugare, con il bilancino giuridico e finanziario, dirigismo con libertà d’innovazione. Un matrimonio non certo facile ma in parte riuscito a ragione della dimensione relativamente modesta, nell’Impero di Mezzo, del mercato dei derivati in generale e di quello dei Cds e degli Hf in particolare. Ove mai la delegazione americana pensare di portare una proposta delineata sul “modello cinese” al tavolo Fmi od a quello del G20 basterebbe questo argomento per affossarla.
Nel contempo, tuttavia, in Europa (e nel resto del mondo) si è ancora lontani non soltanto da idee chiare ma anche dall’avvio delle tre nuove agenzie che dovrebbero migliorare la vigilanza sui mercati mobiliari, la valutazione del rischio sistemico e la supervisione sulle aziende specializzate in rating. Eddy Wymeersch dell’Istituto di Diritto Finanziario dell’Università di Ghent ha appena tracciato un bilancio per le istituzioni Ue (Ghent Financial Law Institute Working Paper 2010-01). La conclusione può sembrare banale (far decollare le tre agenzie ed assicurarsi che partano bene prima di arrovellarsi su altro)ma è piena di buon senso, specialmente se ci si accosta ai complessi nodi giuridici relativi ai derivati con un sottostante di natura creditizia – specialmente i Cds ma anche numerose forme di Hf. Lo spiega con grande chiarezza M. Todd Henderson della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Chicago: i derivati creditizi non sono una forma di assicurazione (anche se alcune tipologie vi assomigliano e molte proposte sul campo mutuano un’eventuale regolamentazione internazionale da quelle vigenti per le assicurazioni, si pensi all’agenzia Miga del gruppo della Banca mondiale) a ragione principalmente della natura dell’emittente (nelle assicurazioni sono le compagnie ad emettere il contratto). Una soluzione possibile (ma non priva di problemi) sarebbe, secondo Henderson, quella di creare una centralized clearing house (una stanza di compensazione centralizzata); è quanto avviene in Cina (si torna, quindi, all’ultimo barlume che sembra affascinare parte dell’amministrazione Usa). Ciò che è possibile all’interno di un Paese pur grandissimo e popolassimo ma con un mercato finanziario di modeste dimensioni, è difficilmente praticabile a livello internazionale.
Non è incoraggiante neanche Jan A. Kregel, uno dei whiz kids del Centro Studi Confindustria negli Anni 80 e successivamente a lungo all’Università di Bologna, prima di tornare negli Usa. Considerato uno dei vati post-keynesiani, dovrebbe guardare con occhi positivi non solo alla regolazione dei derivati ma anche ai tentativi in atto negli Usa di tornare ad una distinzioni tra banche commerciale, banche d’investimento ed altre forme di servizi finanziari. Il suo lavoro più recente (Levy Economics Institute Working Paper N. 586) è apodittico: la normativa americana del 1999 (da molti considerata una delle determinanti del marasma che ha portato alla crisi finanziaria) ha meramente “ufficializzato l’abrogazione di separazioni e tutele varate negli Anni 30 e non più al passo con i tempi”.
Quindi, tutte le strade (o quasi) sono chiuse? Ci sono due percorsi virtualmente non esplorati e che vale la pena approfondire. In primo luogo, invece, di tentare quadrature del cerchio tramite il diritto finanziario internazionale, occorre constatare che la regolazione già in vigore è così pesante che induce a sfuggire alla ricerca di intermediari non regolati e difficilmente regolabili ed affrontare, invece, il nodo di come le banche trattano l’incertezza (e delle possibilità di uniformare i differenti approcci); questa strada potrebbe essere utile nel prevenire nuove crisi. Il secondo percorso prende l’avvio dai grandi investimenti pubblici (con partecipazione privata), quali le reti trans-europee potrebbero essere il grimaldello per una ri-regolazione, almeno su base europea. Sovente investimenti di questa natura hanno un valore economico significativo per la collettività nel lungo periodo ( si pensi ad una gamma che va dalla tutela e valorizzazione del patrimonio artistico e paesaggistico alla televisione digitale terrestre), ma possono avere risultati finanziari insoddisfacenti (per i partner privati) nel breve periodo. In passato, il divario veniva colmato da varie forme e guise di aiuto di Stato – oggi non più contemplabile a ragione non solo della normativa Ue ma anche dei vincoli di bilancio. Occorre, quindi, pensare a colmare il divario con la ri- regolazione; nazionale ed europea.
(Giuseppe Pennisi) 16 mar 2010 16:44
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