CLT - Opera, alla Scala un “Tannhäuser” in stile Rajasthan
Roma, 22 mar (Velino) - Quando nell’ultimo scorcio del 2009 il VELINO recensì il “Tannhäuser” di Richard Wagner presentato a Roma, mise l’accento sul carattere moralista dello spettacolo e avvertì: “Dal 17 marzo al 2 aprile, il “Tannhäuser” parigino sarà in scena alla Scala in una edizione curata dai catalani de La Fura dels Baus, con la regia di Carlos Padrissa: ne vedremo delle belle, da fare arrossire lo stesso Robert Carsen”, la cui edizione parigina, programmata ma non messa in scena in Roma, prevedeva 90 nudi integrali nella prima parte del primo atto. In effetti, nella Sala del Piermarini, lo scorso 17 marzo, se ne sono viste di belle e di brutte. Anche una vistosa suonata di fischi dalle gallerie e da alcuni palchi, pur se gran parte del pubblico ha cortesemente applaudito e dopo cinque ore di spettacolo se ne è andato a gambe levate. Da qualche anno “Tannhäuser” non porta bene alla Scala. Nel 2005, l’allestimento Tate-Curran lasciò il pubblico alquanto freddo. Adesso, questo Mehta-La Fura lo ha lasciato perplesso, nonostante lo spettacolo salutasse il ritorno di Zubin Mehta nella fossa del Piermarini per dirigere un’opera dopo oltre 30 anni.
Del lavoro esistono due versioni principali: quella di Dresda del 1843 (molto tersa e compatta) e quella di Parigi del 1861 (cromatica) rivista, dopo alcuni mesi, per Vienna. I due “Tannhäuser” sono opere profondamente differenti nella concezione drammatica e nella partitura. Tranne poche modifiche (il balletto richiesto dell’Opéra e proposto come “baccanale” all’inizio dell’opera, invece che al secondo atto, come da prassi), il testo di arie, recitativi, sestetti non è cambiato (“Tannhäuser”, precede “Lohengrin”, ed è un’“opera romantica” in senso stretto, non un “musikdrama). Nel 1842-45 Wagner era un buon luterano, fedele alla moglie Minna (con cui aveva condiviso molte ristrettezze prima di approdare al “posto” a Dresda) e lavorava per la puritana Corte di Sassonia. La vicenda del bel menestrello fuorviato dal piacere della carne, del suo pentimento e del perdono divino, era un apologo edificante, con una partitura rigorosamente diatonica in cui vere e proprie “canzoni” venivano inserite nel flusso orchestrale. Nel 1860, invece, non soltanto Wagner era stato costretto ad aggiungere il balletto, ma conduceva un’esistenza sessuale quanto meno distinta e distante da quella che avrebbe dovuto seguire un buon luterano. Aveva abbandonato Minna, dopo averla tradita con varie ninfette e veline ante litteram, stava per portare via la moglie al proprio benefattore (l’industriale tessile Wesendock), aveva un ménage à trois con Cosima Litz ed il di lei marito (il suo direttore d’orchestra favorito von Bülow), anzi à quatre (perché nel letto di Cosima finiva spesso l’allora giovanissimo Hermann Levi, che qualche anno dopo, dato un “ben servito” a von Bülow, ne avrebbe preso il posto come direttore d’orchestra favorito di casa Wagner).
Il tutto accompagnato da un fiume inarrestabile di denaro, proveniente dai suoi benefattori. Chi non ha il tempo o voglia di leggersi la monumentali biografie di Wagner (la più nota è in ben sei volumi), trova il tutto in un piacevole libro di 150 pagine appena giunto in libreria (Vincenzo Ramón Bisogni “Richard Wagner- Das Rheingeld, un fiume di denaro”, Zecchini Editore). Questa vita complicata si rispecchia a pieno nella “versione di Parigi” del lavoro: Venere non è un genio del male da bordello (il Wagner trentenne, li frequentava, nonostante avesse continui complessi di colpa dato che voleva essere fedele a Minna), ma una donna appassionata e sinceramente innamorata del menestrello, disposta a tutto pur di tenerlo nel suo letto, nel primo atto, e riportarcelo, nel terzo. La partitura, inoltre, è intrisa di cromatismi , quelli con cui in “Tristan und Isolde” aveva gettato il germe della musica contemporanea. Buon senso consiglia di scegliere. In autunno a Roma si è vista e ascoltata la versione di Parigi quale riadattata, in tedesco, per Vienna.
Alla Scala è in scena una versione ibrida, detta “di Monaco 1994”, in cui, essenzialmente, si sostituisce la parte iniziale della “versione di Dresda” per introdurre il baccanale della “versione di Parigi”. Tra macchine sceniche, proiezioni e mimi, viene offerto un vero e proprio Bignami delle posizioni erotiche per ogni genere, gusto e tendenza. Anche se i mimi non sono nudi ma coperti da una guaina per non incorrere in divieti, dato che in scena ci sono anche minori, a cominciare dal pastorello. Occorre un divieto non solo per porre una moratoria alle proiezioni computerizzate, che a volte distolgono dalla musica, ma anche per stoppare fellatio e sodomia in scena. Non tanto per moralismo, quanto perché ormai sono il vetusto del vetusto. Ove ciò non bastasse, la vicenda è spostata dalla Turingia medioevale a un Rajasthan, visto con gli occhi dei film di Bollywood: in breve, più “Mother India” che “Mahabaharata” nell’indimenticabile versione di Peter Brook. Quindi un Rajasthan da pubblico poco colto e molto confuso. Ma non è finita. Nell’ultima scena, sulle lenzuola stese ad asciugare da volenterose lavandaie, appare un filmato in bianco e nero di Papa Giovanni Paolo II in India: la sua benedizione scaccia la voluttuosa Venere dai pensieri del protagonista, che, dopo avere tanto peccato, muore redento. In breve, “la grande opera romantica in tre atti” ridotta a un film parrocchiale di quelli che si vedevano oltre mezzo secolo fa in provincia.
E la parte musicale? Zubin sembrava dirigesse con il braccio destro legato dietro la spalla: in breve, tempi lunghi e suono incolore (con ottoni bandistici). Non occorre dare al concertatore tutte le responsabilità. Cercava di coprire i difetti di alcuni cantanti: il protagonista Robert Dean Smith, che in difficoltà con gli acuti, puntava tutto sul registro di centro e Roman Trekel (Wolfram) con una bella voce baritonale, ma un volume piccolo e schiacciato, nel concertato alla fine del primo atto e in tutto il terzo atto, da Georg Zeppenfeld nel ruolo del Langravio. Meglio le due protagoniste femminili: Anja Harteros conferma di essere una dei migliori “soprani assoluti” su piazza, in grado di fare apprezzare lo spettacolo anche se mascherata da Sonia Gandhi; Julia Gertseva in grado di supplire con avvenenza e recitazione a qualche piccola carenza.
(Hans Sachs) 22 mar 2010 11:47
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