martedì 16 marzo 2010

LA NUOVA EUROPA E L’EXIT STRATEGY DALLA CRISI INTERNAZIONALE Syntheisi febbraio

LA NUOVA EUROPA E L’EXIT STRATEGY DALLA CRISI INTERNAZIONALE
Giuseppe Pennisi
L’Europa cambia. Il primo dicembre è entrato in vigore il Trattato di Lisbona che introduce importanti innovazioni istituzionali (le votazioni a maggioranza per le materie di competenza Us, un sistema di co-decisione tra Consiglio dei Ministri e Parlamento Europeo).Il primo gennaio prendono possesso delle loro funzioni coloro che il Consiglio Europeo ha designato titolari delle due nuove cariche introdotte dal Trattato di Lisbona: il belga Herman Van Rompuy nella veste (per due anni e mezzo) di Presidente del Consiglio Europeo medesimo e la britannica Catherine Ashton in quella di Alto Rappresentante dell’Ue per la politica estera e di sicurezza comune. In gennaio, i componenti della nuova Commissione Europea si presenteranno al Parlamento Europea della cui fiducia hanno esigenza prima di iniziare ad operare.
Sarebbe sterile riprendere le polemiche sulle “nomine europee” e sul ruolo avuto più o meno incisivo avuto dall’Italia. Si deve guardare al futuro con ottimismo: Van Rompuy si è rivelato, in Patria, un ottimo negoziatore – la dote più importante per fare convergere 27 Stati molto differenti su posizioni comuni; Catherine Ashton rappresenta l’ala più moderna del socialismo europeo e ha (anche per ragioni di famiglia) una vasta rete di relazioni personali nella comunità internazionale. E’ utile ricordare quanto ha scritto in prima pagina il “New York Times” all’indomani delle nomine: il primo dovere dei nuovi leader europei è dare prova dell’unità del loro blocco.
Ciò è tanto più necessario poiché ci sono crescenti indicazioni della creazione strisciante di un G2 (Usa-Cina) come elemento apicale del G20 e, quindi, come pilota dell’economia mondiale, specialmente in questa fase di ricerca di una strategia di uscita dalla crisi finanziaria ed economica mondiale. Se ne sono visti segni eloquenti nella recente visita del Presidente degli Stati Uniti in Asia: un intesa molto al ribasso (rispetto alla attese, probabilmente eccessive, di alcuni) in materia di ambiente e clima ; un accordo implicito molto più sostanziale in materia di tasso di cambio (la moneta cinese verrà rivalutata gradualmente, ma leggermente, rispetto a quella Usa pur restando agganciata al “greenback” ). Mentre, al termine del vertice di Pittsburgh, i Grandi del G20 si congratulavano a vicenda, all’interno della delegazione Usa, si diceva che quello raggiunto è un equilibrio di Nash (dal nome del Premio Nobel, reso noto grazie al film A Beautiful Mind, che ha teorizzato equilibri dinamici, e quindi instabili). In seno alle delegazioni europee, invece, si faceva riferimento a una commedia settecentesca messa in musica da Antonio Salieri (Prima le parole, poi la musica), in altri termini se si potessero redigere le nuove regole mondiali sulla finanza (le parole) se non si fosse in precedenza risolto il nodo degli squilibri finanziari mondiali e dei tassi di cambio, specialmente del dollaro, di cui si teme un tracollo (la musica). Le due battute esprimono, in modo differente, lo stesso dilemma: è possibile un profondo riassetto delle regole in una fase in cui c è la minaccia di una tempesta valutaria? Nonostante gli appelli del Segretario al Tesoro Usa a favore di un dollaro forte, l’Amministrazione Obama continua a seguire ancora la politica del benign neglect (trascuratezza voluta) nei confronti del valore internazionale del dollaro, nonostante, con un debito totale interno (famiglie, imprese, settore pubblico) pari a tre volte il Pil il prossimo scossone finanziario potrebbe venire dall’estero (un dollaro a picco che provochi un ondata di sfiducia nonostante il quadro macro-economico paia migliorare). Il rapporto di cambio con la moneta unica europea si pone a 1,5 dollari per euro – livello che secondo il maggiore istituto di analisi economica tedesca (Diw Berlin) rappresenta il livello di soglia oltre il quale la sofferenza dell’export diventa eccessiva. In parallelo, uno studio ancora inedito di un giovane economista bolognese (ma di ruolo a Los Angeles) , Piero Cinquegrana, circola al ministero delle Finanze tedesco; nel lavoro, viene dimostrata la stabilità delle relazioni monetarie Usa-Cina nel lungo periodo. In aggiunta, le ultime stime di Angus Maddison, un economista che ha dedicato tutta la propria vita allo studio della contabilità economica nazionale, sostiene che in termini di parità di potere d’acquisto il Pil della Cina è pari all’80% di quello Usa (non al 50% come valutato dalla Banca Mondiale). Un rallentamento della crescita della Cina (inevitabile in caso di rivalutazione dello yuan) frenerebbe, quindi, l’intera economia mondiale, in una fase, per di più, delicatissima. Ciò, unitamente alle alte riserve in dollari Usa presso la Banca centrale cinese, spiega perché gli Usa non insistano più perché Pechino riveda le loro politiche valutarie e chiedono, invece, aiuto all’ Ue perché insista affinché l’Asia acceleri la propria crescita interna. Nell’Ue, però, nonostante la discesa in campo di Angela Merkel (più verbale che sostanziale) a favore del Lecce Framework , ossia del programma in gran misura italiano per modificare le regole della finanza internazionale, aumentano gli scetticismi sulla possibilità di effettuare cambiamenti radicali sino a quanto non si è definito un percorso per uscire dal crescente disavanzo dei conti con l estero Usa. Con tanti temi sul tappeto, un accordo a 20 è praticamente impossibile da raggiungere. Lo dimostra matematicamente un lavoro di Paul R. Masson e John C. Pattison della Joseph Rotman School of Management (si può chiedere a paul.masson@rotman.utoronto.ca, oppure a johnpattison@rogers.com ), il cui sunto troneggia sulla scrivania di Obama alla vigilia del G20. In tal senso, un eventuale G2 (che darebbe all’Europa un ruolo di comprimario nel processo decisionale mondiale) è figlio del G20.L’Europa stessa, però, sta facendo molto poco per darsi un ruolo maggiore: il confuso negoziato che ha portato alle “nomine europee” , la bagarre sulle poltrone europee al Fondo monetario e in Banca mondale, la disorientante strategia mediterranea e quella nei confronti dell ex-Urss, stanno dando al resto del G20 l’idea che la sigla Ue sia poco più di un sito web e di alcune tonnellate di carta intestata.
L’ormai ottantunenne, Stanley Hoffman dell’Università di Harvard, uno dei più noti specialisti di relazioni internazionali (molti hanno studiato sul suo libro “Gulliver’s Troubles” sulle difficoltà della politica estera Usa negli anni di Kennedy e di Johnson”, ha di recente dato alle stampe un saggio in cui si chiede se le relazioni transatlantiche (che hanno l’economia e la politica mondiale per 70 anni) sono “obsolete” od “ostinate”. Sta in gran misura alla nuova Ue dimostrare di essere un pilastro saldo della partnership e che la partnership medesima è centrale agli equilibri internazionali.

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